di Norberto Natali
Oggi è l’anniversario dell’assassinio di Ciro Principessa. Morì all’alba del 20 aprile 1979. In realtà era stato accoltellato la sera prima a pochi metri dalla sede del circolo della FGCI di Torpignattara a Roma.
Lo conoscevo da poco, uno o due anni, ma eravamo già amici.
La figura di Ciro permette di capire cosa era il PCI, la FGCI, nella vita e nella storia del popolo italiano. Oggi, chi ha meno di 40 anni, non può trovare indicazioni (nella realtà attuale o recente) che permettano di risalire a quella storia. Non serve guardare i partiti che oggi si chiamano comunisti (tanto meno altre forze di sinistra anche “estrema”) ed immaginare che il PCI fosse qualcosa di somigliante alla loro linea ma molto più grande.
La differenza non è solo quantitativa ma, soprattutto, qualitativa e di natura.
Ciro era nato in una famiglia molto povera e viveva alla borgata Certosa (zona Torpignattara, storicamente rossa e proletaria), un insediamento per lo più di casupole fatiscenti. Non c’è motivo di negarlo, anzi: da giovanissimo aveva imboccato la strada della malavita (niente di scandaloso o veramente criminale, bensì qualche errore dovuto alla miseria e all’emarginazione) ed era un pregiudicato. Peraltro, si rifiutò di fare il servizio militare (allora obbligatorio) e risultava renitente alla leva. Nella borgata era chiamato “er nespola”: sia perché era goloso di questo frutto, sia perché, si può dedurre, si riteneva che fosse abbastanza svelto di mani (nel dialetto romanesco, a volte, un pugno ben assestato si definisce anche “nespola”).
Ben presto cambiò vita, grazie alla sua personalità e alla sua forza di carattere. Incontrò il Partito Comunista (precisamente la FGCI) e divenne un operaio edile, abbandonando completamente la vita precedente. Solo per dirne una su di lui, ricordo la sua richiesta di voler frequentare le scuole di Partito, voleva conoscere sempre meglio la nostra storia e il nostro patrimonio ideale e teorico.
Tre mesi prima andò ai funerali del compagno Guido Rossa. Esortò così gli altri compagni di Torpignattara: “se avessero ucciso uno di noi lui sarebbe venuto qui!” Solo il genio di un grande romanziere avrebbe potuto ideare una combinazione tanto significativa!
La sera del 19 aprile 1979, i compagni della FGCI erano nel circolo a preparare i manifesti per la celebrazione del 25 aprile. Erano circa una decina, quando entrò un giovane che non avevano mai visto (Claudio Minetti, figlioccio di Delle Chiaie), lo salutarono ma lui non rispose. Si aggirò qualche istante nel locale e si soffermò a guardare la libreria: alla fine prese un libro e uscì senza dire nulla.
A quel punto Ciro gli andò dietro, per parlargli, ma quello, a tradimento, tirò fuori un coltello e lo colpì al rene. Se ne accorse solo Ivano, che seguiva Ciro a qualche passo di distanza, gli gridò “attento, il coltello” ma troppo tardi. Ciro fu ricoverato subito in ospedale ma morì dopo una notte di agonia.
Sarà meglio dedicare un altro scritto per raccontare come reagì, fin da quel momento e nei giorni e nei tempi successivi, il popolo romano e di Torpignattara. Voglio solo ricordare i funerali, Ciro era morto di venerdì ed essi si svolsero il lunedì pomeriggio successivo.
Chi conosce Roma potrà capire l’imponenza di quel corteo. La sua testa, guidata dal compagno Berlinguer, partì da Torpignattara, percorse la Casilina, attraversò il Pigneto e – passando per San Lorenzo – arrivò a piazzale del Verano: in quel momento, buona parte della coda doveva ancora muoversi dal luogo di partenza (secondo google maps è un percorso di almeno 5 km).
Sono sempre stato convinto che Ciro volesse solo parlare, fraternamente, con quella carogna. Con tutta probabilità, pensava che fosse un ragazzo timido, vittima della solitudine o dell’emarginazione e non aveva assolutamente intenzioni bellicose verso di lui. Altrimenti “er nespola” non si sarebbe fatto accoltellare alle spalle ma, semmai, lo avrebbe steso senza mollette!
Da quel giorno i miei legami con i suoi familiari non sono mai cessati. Ieri sera ho telefonato alla sorella: “Lina, sono lontano da Roma, domani non potrò esserci…”; “tu per noi ci sei sempre” è stata la risposta. E questo mi basta.
Ciro figlio del popolo.
Conobbi Ciro Principessa perché insieme a Norberto Natali e Stefano Biral lavoravamo politicamente, a quel tempo, affinché anche i giovani “proletari” entrassero a far parte organicamente della FGCI romana composta, allora, principalmente da studenti.
Ciro lo conobbi insieme ad altri giovani compagni lavoratori della sua sezione. Di lui però ho un ricordo indelebile. Aveva uno sguardo duro, come le sue mani da “muratore” ma profondo, fiero, pieno di vita, di riscatto sociale, aveva voglia di studiare, di apprendere, nonostante la fatica del suo lavoro. Nel PCI, nella sezione di partito aveva trovato lo strumento per realizzare le sue intenzioni. Non aggiungo altro a quanto descritto da Norberto sui funerali e il seguito di popolo al corteo funebre, se non rimarcare la presenza di Enrico Berlinguer in prima fila.
Non potrò mai scordare come venni a sapere della sua morte.
La mattina di quel 20 aprile al lavoro, in tipografia facevo il turno diurno; assistevo al funzionamento della rotativa che stampava il -Paese Sera- edizione pomeridiana. Da prassi mi avvicinai alla macchina per controllare la qualità della stampa del giornale, e lessi, sparata in prima pagina, la tremenda notizia della sua morte.