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di Marcello Lico – fonte “la domanda giusta

Antefatto

Che fine ha fatto il dibattito sulle riforme del Paese che impegna a ciclo continuo l’opinione pubblica?

In particolare che fine ha fatto il dibattito sul sistema sanitario e sulla territorialità che dovrebbe esserne al centro?

Prima di analizzare l’attualità occorre approfondire come, in Italia, sia nato lo stato sociale nel suo complesso ed in particolare il sistema sanitario.

Iniziamo appunto dal servizio sanitario

In Italia, come d’altra parte in Europa, alla base c’è stata la diffusione degli ospedali che comincia nell’Alto Medioevo in ambito cristiano con l’obiettivo principale di facilitare l’avvento dei pellegrini a Roma. In questo contesto, tra i più antichi ospedali d’Europa ancora operante è l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma.

Cercando di essere veloci, possiamo dire che a seguito soprattutto della grande pestilenza a metà del Trecento nacque l’esigenza di aprire ulteriori strutture per l’isolamento degli appestati per prevenire il contagio tra la popolazione: i lebbrosari.

I lebbrosari decadranno nel corso del XVI secolo insieme alla scomparsa della lebbra: le stesse strutture saranno però spesso riconvertite per ospitare i malati di sifilide, la nuova malattia per il continente Europeo portata in Italia forse dalle truppe di Carlo VIII (e per questo motivo chiamata all’epoca anche “mal francese”).

E’ con l’introduzione degli ospedali, definiti degli Incurabili, che nacque la specializzazione dei grandi ospedali e che venne considerata positivamente dai contemporanei nel contesto urbano rinascimentale. Come già era accaduto nel Medioevo tuttavia, permanevano strutture con vari usi, a volte misti, della cura delle malattie e luoghi di assistenza in senso più ampio (includendo anche brefotrofi, eccetera). Questo avvenne soprattutto nel nord Italia; nel resto della penisola, inclusa Roma, venne mantenuta inoltre la tradizionale impostazione caritatevole, pur intensificandosi progressivamente l’attività chirurgica e medica che permise i notevoli progressi scientifici del secolo successivo. Ciascun ente di assistenza era tipicamente, come accadde fin dal Medioevo, associato ad un patrimonio fondiario ed immobiliare tale da garantirne l’indipendenza economica e dunque l’accesso alla popolazione.

Con varie vicissitudini (occupazione di Napoleone con la requisizione dei patrimoni religiosi e la successiva restaurazione) il modello rimase in piedi fino al 1888 anno in cui nacque a Roma la Direzione Generale della Sanità pubblica (che rimarrà attiva fino al 1945) con il regio decreto n. 4707 del 3 luglio 1887 inquadrata, questo una novità, presso il Ministero dell’Interno. Con la cosiddetta legge Crispi vennero istituite le IPAB (Istituti di Pubblica Assistenza e Beneficenza), stabilendo la differenza tra gli ospedali veri e propri e gli enti di assistenza di altro tipo (orfanotrofi, ospizi, ecc.).

Trent’anni dopo il fascismo introdusse delle forme di assistenza specializzata a seconda le categorie di individui (ad esempio si crearono istituti per sordomuti, per giovani, per invalidi di guerra, ecc.): il primo istituto di questo tipo ad essere creato è l’Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia, istituito con legge 2277 del 10 dicembre 1925. Nel 1937 con legge n. 847 del 3 giugno vennero soppresse le Congregazioni di Carità, rimpiazzate dagli Enti comunali di assistenza, divenuti così obbligatori in ogni comune.

In un recente libro: “Storia dello Stato sociale in Italia” Chiara Giorgi e Ilaria Pavan dedicano un lungo capitolo al ventennio, particolarmente importante nell’economia dell’opera. Non solo perché contribuisce a sfatare i più dozzinali luoghi comuni sulla presunta generosità del welfare fascista. Di più, in queste pagine emerge chiaramente come la politica sociale del regime costituì addirittura la radice di molte gravi distorsioni del Welfare State italiano: una miriade di trattamenti differenziati tra le varie categorie di lavoratori, l’uso clientelare delle provvidenze sociali, la profonda spaccatura di genere indotto da politiche per il lavoro rivolte soprattutto agli uomini e misure per la famiglia destinate principalmente alle donne. Il tutto in una selva di enti, istituti e casse mutua nelle cui maglie si consumava il connubio tra politica e interessi privatistici. Da qui l’origine della frattura tra garantiti e non garantiti, di cui ancora oggi sono evidenti gli effetti.

Certo, la nascita della Costituzione rappresentò un innegabile spartiacque che incastonò i diritti sociali direttamente nel codice genetico della neonata Repubblica. Tuttavia, archiviata l’esaltante stagione costituente, le risorse finanziarie del Paese vennero a lungo destinate soprattutto alla modernizzazione produttiva, lasciando indietro la spesa sociale.

E’ con gli anni sessanta e settanta che si denota la capacità del Paese di recuperare in poche manciate di anni il terreno perso in decenni di ritardi rispetto allo standard europeo. In particolare, gli anni Settanta vengono evidenziati come uno snodo fondamentale nella costruzione dello Stato sociale italiano. Ciò rende giustizia ad un decennio che viene di solito troppo sbrigativamente associato al terrorismo e alla calcificazione della democrazia consociativa. A rinsanguare il welfare italiano fu negli anni Settanta una felice convergenza tra i movimenti sociali, la radicalizzazione di alcuni settori della scienza (incarnata da figure come Franco Basaglia o Giulio Maccacaro) e non è da escludere la maggiore concordia tra la democrazia cristiana e le sinistre. Così la riforma tributaria fornì nuove risorse da destinare anche al capitolo sociale: la legge Basaglia inferse un colpo mortale al sistema manicomiale, il divorzio e la riforma del diritto di famiglia misero in discussione il pregiudizio maschilista che aveva informato le politiche di assistenza sino ad allora, la legalizzazione dell’aborto ebbe un indiscutibile impatto positivo sulla sicurezza sanitaria delle donne.

La grande novità degli anni Settanta fu però il Servizio sanitario nazionale. È utile soffermarci su questo tema per due motivi. Primo, la nascita del SSN nel 1978 trasformò radicalmente il volto della sanità, storicamente il settore più arretrato del Welfare State italiano, ottenendo miglioramenti tangibili della salute pubblica già nell’arco di un decennio. Secondo, tornare ad analizzare le origini del nostro servizio sanitario risulta molto utile nella congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui la riforma di questo comparto è tornata all’ordine del giorno.

Dalla riforma alla controriforma

Il 23/12/1978, quando venne approvata in via definitiva, la legge 833 trasformò radicalmente il volto della Sanità, storicamente il settore più arretrato dello “stato sociale” italiano, ottenendo miglioramenti tangibili della salute pubblica già nell’arco di un decennio.

Era passato un anno da quando il sistema mutualistico in Italia era stato definitivamente abrogato. Con l’approvazione della legge 29 giugno 1977 n. 349 era stata eliminata tutta una selva di enti, istituti e casse mutua nelle cui maglie si era consumato il connubio tra politica e interessi privatistici e che metteva in luce la frattura tra garantiti e non garantiti. Eppure già trent’anni prima l’art.32 della Costituzione diceva con chiarezza: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Finalmente una legge dello stato, appunto la legge di Riforma Sanitaria, all’articolo 1 lo scriveva con chiarezza e aggiungeva che: “la tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana.”

La legge 23 dicembre 1978 n. 833 costituiva il corollario o, per meglio dire, il punto normativo terminale di un progressivo lavoro di straordinaria modificazione dell’organizzazione sanitaria nel nostro Paese.

Essa si basava sull’istituzione di un Servizio Sanitario Nazionale, avente tre caratteristiche essenziali: essere un sistema generalizzato o, per meglio dire, universale, che riguardava la totalità della popolazione; essere un sistema unificato perché un solo contributo copriva l’insieme dei rischi; essere un sistema uniforme, poiché garantiva le stesse prestazioni a tutti gli interessati.

Alla gestione unitaria della tutela della salute, come recita l’articolo 10, si provvedeva in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, mediante una rete completa di Unità Sanitarie Locali, definite: “come il complesso dei presidi, dei servizi dei comuni, singoli o associati, e delle comunità montane”.

Organo centrale della USL era il Comitato di Gestione che, scelto tra cittadini aventi esperienza di amministrazione e direzione documentata da un curriculum, era espressione del territorio e con il territorio aveva un rapporto continuo anche attraverso conferenze annuali aperte alla popolazione.

Nello specifico, lo snodo fondamentale della questione era il seguente: come trasformare i cittadini da fruitori passivi delle prestazioni sanitarie a utenti attivi, dotati di strumenti partecipativi entro una struttura del SSN aperta alla comunità? In origine, questo avrebbe dovuto essere lo scopo delle Unità Sanitarie Locali

Ma proprio questo rapporto con il territorio, secondo la stampa di destra che già in fase di approvazione della legge si era opposta, lasciava spazio eccessivo ad una concezione assembleare dei poteri che favoriva la confusione tra le funzione della parte politica e di quella tecnica. In effetti la 833 trovò immediati ostacoli alla sua concreta applicazione a causa dell’opposizione di una grossa fetta della classe medica, la categoria più importante, e della scelta di considerare veramente universale solo il servizio a totale gratuità.

Chiara Giorgi e Ilaria Pavan, nel loro recente libro: “Storia dello Stato sociale in Italia”, in più di un’occasione   evidenziano come la nascita del SSN sia avvenuta in prossimità dell’inizio della stagione neoliberista che, negli anni successivi, avrebbe comportato l’esaurimento delle spinte riformatrici degli anni Settanta. A partire dagli anni Ottanta, complice anche il clima di sfiducia nei politici eletti nei Comitati di Gestione e alimentato dai giornali, alcuni settori dell’opinione pubblica cominciarono a guardare con crescente benevolenza alla eventuale gestione aziendalistica della sanità.

Nel corso degli anni ’80, per eliminare alcune distorsioni del sistema furono emanate piccole leggi di modifica della 833 e, tra l’altro, vennero cancellati i comitati di gestione, furono istituiti i ticket per frenare una spesa ed un consumo sanitario che si stavano facendo sempre più pesanti.

Questi provvedimenti non servirono ad allontanare dalla pubblica opinione, l’idea che il Servizio Sanitario fosse tra i maggiori responsabili del dissesto finanziario nel quale versava il Paese.

Sbandierando lo slogan “meno Stato, più mercato”, alcuni settori politici ed economici influenti premettero, in modo confuso, per un cambiamento della politica sanitaria in senso “americano”.

Nel 1987, la risposta, da parte del governo consistette nella presentazione di un progetto di legge che introduceva nella sanità il concetto “aziendale”. L’intendimento era di scorporare i grandi ospedali e  trasformare le Usl in aziende autonome finanziate dalle Regioni con il contributo integrativo dello Stato.

Il progetto di legge non fu convertito in legge per la fine della legislatura, come pure nella successiva un altro simile, che conteneva in più la scomparsa dei comitati di gestione. La politica, era chiaro, aveva distrutto la sanità; fuori la politica dalla sanità, dichiarava il ministro De Lorenzo, ottenendo peraltro un buon consenso. Il suo progetto, comunque, non prevedeva lo smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale ma la sua trasformazione in un’area di “mercato sociale”, nella quale esistano i produttori (gli ospedali) e gli acquirenti di prestazioni (le Usl per conto dei cittadini). E’ l’impostazione che Margaret Thatcher aveva dato alla sua controriforma sanitaria. Nei fatti nemmeno la “Lady di ferro”, coriacea sostenitrice della deregulation capitalistica, se l’era sentita di eliminare in Gran Bretagna il diritto alla tutela della salute. (fonte Società Salute Diritti)

Il progetto si concretizzò però nel 1992 con l’approvazione della legge 502 e la trasformazione delle Usl in aziende; contemporaneamente furono introdotti meccanismi economico gestionali autonomi con l’unico scopo di amministrare e controllare la spesa sanitaria. In realtà si era prodotta una mercificazione della salute: da una parte le dinamiche concorrenziali proprie del mercato libero avevano mortificato la sanità pubblica a favore di quella privata, dall’altra si era smarrita la visone d’insieme del sistema. Le aziende da quel momento ragionarono come monadi che pensano solo al budget annuale e di conseguenza al risparmio. Nessuno vedeva più la salute come un bene su cui investire, si pensa solo a contenere il più possibile la spesa.

Nello stesso anno con legge 229 l’allora Ministro Rosy Bindi tentò di metterci una pezza; ma questa è un’altra storia…

Epilogo

Nel precedente articolo abbiamo visto come negli anni ‘80 l’attacco ai principi fondanti della legge 833 di Riforma Nazionale Sanitaria sia stato particolarmente violento, fino ad arrivare all’approvazione della legge 502/92 (definita “la riforma della riforma”).

Per comprendere meglio perché ciò sia accaduto è giusto, però, inserire la vicenda nel quadro internazionale. 

Era la fine di aprile del 1985 quando Roberto D’agostino coniò un termine che divenne un tormentone: “Edonismo reganiano”. Tutti furono attratti dalla concezione filosofica secondo cui il piacere è il sommo bene dell’uomo e il suo conseguimento il fine esclusivo della vita. Di Reagan si pensò solo ai suoi trascorsi di attore, effimeri per definizione, dimenticando il resto. 

Ma Reagan oltre oceano e Margaret Thatcher in Europa furono, in quegli anni, gli statisti che meglio esprimevano i principi della cosiddetta Scuola di Chicago di Milton Friedman:

  • riduzione della spesa pubblica;
  • riduzione dell’imposta federale (nel caso americano) sul reddito e di quella sulle plusvalenze;
  • riduzione della regolamentazione del governo.

Insomma “meno Stato, più mercato”. 

In Italia qualcosa del genere si concretizzò nel 1992 con il decreto 502: “Riordino della disciplina in materia sanitaria” a firma del ministro De Lorenzo, da cui prese il nome. Costituì, nei fatti, una vera e propria controriforma: si introducevano pesanti tagli all’assistenza sanitaria, basandosi sul concetto che lo Stato, non potendo garantire tutto a tutti, avrebbe dovuto limitarsi ad erogare uno standard minimo di prestazioni, lasciando alle Regioni il compito di ridefinire le risorse attraverso una maggiore autonomia impositiva (ticket, aumento della tassazione sanitaria ecc.).   

Il finanziamento delle Regioni avverrà da allora in poi, sulla base di parametri non più determinati dai bisogni dei cittadini, ma dalle risorse disponibili. In particolare per gli ospedali il finanziamento avverrà attraverso lo strumento del DRG (in italiano raggruppamenti omogenei di diagnosi, strumento attinto dalla sanità anglosassone), in base cioè alla qualità delle prestazioni: più alte le prestazioni più alte le remunerazioni.

A tutto danno della prevenzione e della medicina di base. 

Sempre nella 502/92 prende forma la strategia dei fondi integrativi per fornire prestazioni aggiuntive a quelle assicurate dal SSN.

In verità l’idea non è nuova. Già nel 1986, l’approvazione del DPR 917 aveva segnato la prima reale svolta normativa a livello nazionale del cosiddetto “welfare aziendale”, occupandosi di disciplinare gli strumenti di welfare (benessere del lavoratore) attraverso le disposizioni inerenti le erogazioni collaterali alla retribuzione, ovvero i cosiddetti “fringe benefit”, attraverso il testo unico delle imposte sui redditi (Tuir).

Nessuno troverebbe nulla da ridire se non fosse per il fatto che i benefit, attraverso un sistema di recupero delle imposte, che dal 1986 diventerà sempre più sofisticato, sarà praticamente a carico dello Stato, lasciando al datore di lavoro il ruolo del benefattore illuminato.

Torniamo al Servizio Sanitario.

Il decreto 502 previde, tra le altre cose, lo strumento dell’accreditamento, attraverso il quale le strutture pubbliche e private, per poter ricevere finanziamenti dovevano semplicemente dichiarare di essere in possesso dei requisiti minimi previsti dall’atto di indirizzo.

Con l’accreditamento le strutture pubbliche si trovarono a dover concorrere con quelle private, per giunta  obbligate a soddisfare un segmento di utenza non appetibile dal privato.

D’altra parte, complici anche trasmissioni televisive e articoli di giornale, la richiesta abnorme di esami strumentali, sempre più sofisticati, intasarono le liste d’attesa delle AASSLL.

Il privato, non legato da lacci e lacciuoli, dava sempre una risposta, quasi sempre non in convenzione, utilizzando anche i “benefici” dei fondi integrativi.

Nel clima che abbiamo descritto ben poco potette fare la riforma Bindi del dicembre 1992.

Il processo di privatizzazione della sanità verrà completato anche se in certi punti aveva delle positività: il decreto legislativo 229 ad esempio riconosceva che i Livelli Essenziali d’Assistenza fossero definiti dal Piano Sanitario Nazionale, nel rispetto dei principi della dignità della persona, della qualità delle cure, della loro appropriatezza.

Di tutto rispetto è anche l’art 1 quando afferma: “La tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, attraverso il Servizio sanitario nazionale, quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali e delle altre funzioni e attività svolte dagli enti ed istituzioni di rilievo nazionale”.

Il processo di aziendalizzazione e privatizzazione della sanità non viene bloccato: le Aziende sanitarie saranno disciplinate dal diritto privato, soggette al vincolo di bilancio e governate da un direttore generale, affiancato da un direttore sanitario e un direttore amministrativo, con poteri mai visti prima nel settore pubblico.

Nel marzo del 1997 la legge Bassanini (“Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”) ridefinì le competenze fra Stato/Regioni/Comuni ed affidò alle Regioni quella sulla programmazione e gestione dei servizi sanitari e sociali.

Un altro duro colpo al sistema sanitario pubblico nazionale.

Una manna per la Regione Lombardia che promulgò immediatamente la legge n. 31 sulle “Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività dei servizi sociali”. La legge previde che “chiunque svolga una funzione pubblica è da considerare tout-court servizio pubblico” e come tale finanziabile dalla fiscalità generale.

Il principio conseguente diventa quello della “libera scelta” del cittadino per consentire la quale andava superata, in sanità e non solo, la distinzione fra pubblico e privato. In pratica più che di privatizzazione dei servizi pubblici si dovrà parlare di pubblicizzazione di quelli privati che da quel momento hanno potuto fruire di ingenti risorse a scapito delle strutture pubbliche anche quando non garantivano tutti i diritti in materia sanitaria.

La rapina del pubblico da parte della regione Lombardia non finisce qui ma per completezza rimandiamo all’articolo di Nicoletta Pirotta del22/04/2020.

Per concludere riportiamo quanto affermato da Walter Ricciardi, Direttore scientifico dell’Osservatorio: “l’esperienza della pandemia ha dimostrato che il decentramento della sanità, oltre a mettere a rischio l’uguaglianza dei cittadini rispetto alla salute, non si è dimostrato efficace nel fronteggiare una situazione emergenziale, come quella che abbiamo vissuto. Le regioni non hanno avuto le stesse performance e, di conseguenza i cittadini non hanno potuto avere le stesse garanzie di tutela e di cura. Il livello territoriale dell’assistenza si è rivelato in molti casi inefficace e le strategie per il monitoraggio della crisi e dei contagi molto disomogenee. Basti pensare alle differenze nella gestione dei contagiati tra la sanità delle diverse regioni italiane: il Veneto ha la quota più bassa di ospedalizzati e quella più alta di soggetti positivi posti in isolamento domiciliare. All’inizio della pandemia questa Regione aveva in isolamento domiciliare circa il 70% dei contagiati, nell’ultimo periodo oltre il 90%. La Lombardia e il Piemonte hanno percentuali di ospedalizzazione tra il 50% e il 60% all’inizio della pandemia, poi cresciute oscillando tra il 70 e l’80%.

Allora se, come ci ha dimostrato il virus, la salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno perché viviamo in una relazione di interdipendenza, lottare insieme per un sistema sanitario pubblico diventa imprescindibile.

A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia c’è da chiedersi:

Che fine ha fatto il dibattito sulle riforme del Paese che impegna a ciclo continuo l’opinione pubblica?

In particolare che fine ha fatto il dibattito sul sistema sanitario e sulla territorialità che dovrebbe esserne al centro?


sul blog “La domanda giusta, l’articolo è pubblicato in tre parti e precisamente:

Prima parte “Antefatto” del 9 giugno 2021

Seconda parte “Dalla riforma alla controriforma” del 12 giugno 2021

Terza parte “Epilogo” del 19 giugno 2021

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