di Eleonora Capelli – La Repubblica ed. Bologna
Per il centenario del Pci i passaggi e i protagonisti di una storia che ha coinvolto intere generazioni. Partendo dalla “Red Bologna”
Una storia iniziata a Livorno nel 1921. Dell’anniversario del Partito Comunista Italiano hanno parlato libri, documentari, convegni. Ma forse, quel che spiega meglio la parabola di un partito che nel 1976 fu votato da più di 12 milioni di persone è proprio la storia di chi a quel partito dedicò energie e passione: gli iscritti, i militanti, i simpatizzanti, i volontari. Il popolo delle Feste dell’Unità ma anche quelli delle Case del Popolo e le famiglie che ospitarono i figli dei “compagni” del Sud che avevano bisogno di aiuto. Per capire questa storia vale la pena vedere le immagini raccolte a Bologna, un album di famiglia dei comunisti italiani, perché proprio in Emilia la partecipazione fu sempre altissima, fino a raggiungere quasi un quarto degli iscritti nazionali, con oltre 430 mila tessere a metà anni Settanta.
L’album dei ricordi
L’album dei ricordi di famiglia dei comunisti emiliani si può sfogliare fino al 4 dicembre a Palazzo D’Accursio a Bologna, in uno dei luoghi simbolici del Pci, tra la sala del consiglio comunale e l’ufficio che fu dei sindaci Dozza e Zangheri. Poi si può continuare a vedere nel bel catalogo che raccoglie tutti i materiali del centenario (“Partecipare la democrazia. Storia del Pci in Emilia Romagna”, Pendragon).
Ci sono i bimbi di Napoli che nel 1947 arrivarono a Bologna per essere accolti dalle famiglie con i “treni della felicità”, c’è Gianni Rodari che parla di asili con Loris Malaguzzi, coordinatore pedagogico di Reggio Emilia, ci sono le donne che contano i soldi sul tavolo, gli incassi del ristorante per finanziare l’attività politica. Ancora, c’è Palmiro Togliatti davanti al microfono, a Modena nel 1957, alla Festa dell’Unità. La folla che lo ascolta è impressionante, come quella richiamata qualche anno dopo dagli spettacoli di Gianni Morandi e Caterina Caselli.
Le fotografie, i filmati, i giornali, i ricordi di una militanza che compie cent’anni sono tutti in fila nella mostra “Partecipare la democrazia” e i visitatori potranno cercare di ritrovarsi in una delle immagini di folla che riempiono le manifestazioni di piazza contro la guerra in Vietnam o le serate alla Festa dell’Unità.
Chiude il percorso, la ricostruzione di una sezione del partito: la scrivania, il ritratto di Togliatti, la macchina da scrivere e la libreria. “Sai che era proprio così? – ha detto il primo visitatore della mostra, ancora prima che venisse aperta, al suo amico – Nella mia sezione sulla scrivania c’era un busto di Lenin e il segretario lo sbatteva sul tavolo ogni volta che si arrabbiava. Noi ridevamo, eravamo ragazzi”. I ragazzi di allora oggi hanno 70 anni, ma si riconoscono in quelle schegge di memoria salvate da 12 ricercatori dell’università che hanno setacciato 204 archivi, di associazioni, istituzioni ma anche case private, prendendo in esame centinaia di migliaia di documenti.
Un lavoro filologico, ma anche una storia ancora viva: è quasi impossibile, passando, non fermarsi a dare un’occhiata. Il sindaco Giuseppe Dozza a cavalcioni di un muro per veder passare il Giro d’Italia, Dubcek in visita a Marzabotto, un prete che legge l’Unità appesa in bacheca, Pietro Ingrao circondato dalle sfogline sorridenti. Le fotografie scelte da Luciano Nadalini tratte dal suo archivio e dal quello dell’Ufo (Unione fotografi organizzati) sono il “compendio” tutto bolognese di una storia molto emiliana.
“Il Pci è stato più spesso sconfitto che vittorioso nella storia che raccontiamo, dal dopoguerra agli anni ’80 – spiega Mauro Roda, presidente della Fondazione Duemila – però ha inciso moltissimo sulla vita delle persone, contribuendo alla trasformazione in senso moderno del Paese. Far partecipare il popolo, le masse, alle decisioni è stato il suo portato storico, per rendere protagonisti gli ultimi. Senza nessuna nostalgia, ancora oggi ci sarebbe bisogno dei valori di quell’epoca”. Una storia particolare, che fa dell’Emilia un unicum.
Con il sindaco Renato Zangheri che a Bologna inaugurava asili e centri di quartiere, per il decentramento dell’azione amministrativa. Con l’urbanista Giuseppe Campos Venuti, assessore con Dozza, che spiegò la lotta contro la rendita del piano del 1963, sostenendo che la presenza di molte aree edificabili avrebbe favorito gli interessi della proprietà immobiliare. Con le fabbriche occupate dagli operai, i consultori, gli stand del libro, le case del popolo.
In questo viaggio alla “Good Bye Lenin” emiliano, ci si può lasciar guidare dalla testa (“Nel 1979 il Pci pagò a caro prezzo in termini elettorali l’appoggio al governo di unità nazionale degli anni precedenti, perdendo diversi punti percentuali rispetto al 1975” dice lo storico) oppure dal cuore (“Porca miseria, passammo dal 34% al 29%” dice l’ex tesoriere Roda). Ma il vero oggetto in mostra è la passione politica. “Siamo di fronte a un progetto in cammino, lavoriamo con gli istituti storici dell’Emilia-Romagna, la mostra è il primo frutto della ricerca fatta su 204 archivi – chiosa Roda – L’iniziativa continuerà con approfondimenti tematici, per coniugare il passato con idee per il futuro sul lavoro, il welfare, la cultura, il rapporto con le istituzioni. Da questa memoria può generarsi anche qualcosa di nuovo, ad esempio approfondimenti sui luoghi della cultura popolare, i luoghi di aggregazione, lo sguardo è quello di chi vuole rivitalizzare un pezzo di quella cultura della solidarietà e comunità di cui siamo portatori”.
Sposetti: “Una storia scritta dai militanti”
Ugo Sposetti, lei è stato a lungo funzionario del Pci, prima di diventare parlamentare e anche ultimo tesoriere dei Ds. Oggi che si tratta di ripercorrere quella lunga storia, anche guardando le immagini di cent’anni di militanza, da dove partirebbe per spiegare a un ragazzo cosa è stata quella stagione?
“Le fotografie sul Pci ci accompagnano nella storia di quasi tutto il ‘900, io rimango sempre molto colpito dalle immagini delle piazze. Piazze partecipate, vissute, che hanno rappresentato la massima espressione della democrazia. In piazza non si andava solo per manifestare il dissenso o l’adesione, si andava anche per ascoltare. Io credo che quando una piazza si riempie, come è successo anche con la Sardine ad esempio, sia sempre e comunque un esercizio politico di democrazia”.
C’è qualche figura bolognese che le sembra particolarmente interessante, nella lunga storia del Pci emiliano?
“Io non mi stanco mai di raccontare la storia dei sindaci Francesco Zanardi e Giuseppe Dozza, nel resto dell’Italia non sono molto conosciuti e ogni volta questo mi stupisce. Perché Zanardi costruisce il mulino e il forno del Comune, quando i suoi concittadini non hanno pane. Nel 1919 a Bologna arrivarono 600 bambini di Vienna, che non sarebbero riusciti a passare l’inverno nella loro città, rischiando di morire di freddo e fame, dopo la fine della Grande Guerra. Arrivarono a Bologna i “treni della fratellanza” e quei bambini si salvarono. Oggi noi vediamo le immagini del confine tra la Bielorussia e la Polonia ma non facciamo niente. Eppure i bambini lì muoiono. Che ci è successo?”
La storia del Pci in Italia e in Emilia è stata soprattutto la storia di tutte le persone che a quell’idea hanno aderito. Lei cosa pensa di questo, guardando le tante fotografie pubblicate in occasione del centenario, ad esempio nel volume “In movimento e in posa. Album dei comunisti italiani”, edito da Marsilio?
“C’è un pezzo della nostra vita in ogni immagine, anche senza che tra noi ci sia stato uno specifico collegamento, c’è stato un legame, un’appartenenza fortissima. In oggi tappa, davanti a ogni immagine, ognuno di noi può soffermarsi e riconoscere il nonno o il papà, perché la storia del Pci è stata anche la storia del Paese”.
Il Pci è stato anche forza di governo, almeno a Bologna e in Emilia-Romagna, cosa rimane di quella stagione?
“A Bologna e in Emilia il Pci ha governato e lo ha fatto bene, questo era un biglietto da visita per i comunisti italiani. Sarebbe ingiusto però dire che ha saputo farlo solo qui, faremmo un torto a tantissimi amministratori capaci. Il fatto è che si trattava di un grande partito e la forza gliela dava la gente. La forza di organizzare eventi e feste, la capacità di mobilitarsi oltre che di amministrare. È questo che fa più effetto”.
Oggi quella forza non c’è più?
“Dove c’erano 47 mila iscritti, oggi ce ne sono a stento 2mila. È questo che non va bene, la forza la danno gli iscritti, i militanti, le persone e i rapporti tra di loro. Ieri come oggi”.
“Red Bologna”, così la città diventò un modello
Professor Carlo De Maria, da curatore della mostra “Partecipare la democrazia” ospitata a Palazzo D’Accursio e da professore associato di Storia Contemporanea all’Università di Bologna, quali può dire siano state le caratteristiche del Pci in Emilia-Romagna e a Bologna?
“Il partito comunista in Emilia-Romagna ha realizzato una social democrazia locale, non messa in atto dallo Stato ma dagli enti locali e dalla Regione. Si è realizzata a partire dagli anni ’60, nell’arco cronologico che va dagli anni ’60 agli anni ’80, quando il Pci emiliano si era lasciato alle spalle le posizioni più settarie e staliniste degli anni ’50. La potremmo definire una via italiana alla socialdemocrazia, di cui è stato protagonista il Pci, con spiccato senso alle riforme, volontà di valorizzare le autonomie e interesse per la partecipazione dal basso alle riforme. Se guardando al passato il nostro progetto è utile per dare corpo alla storia repubblicana, con una biografia collettiva, guardano al futuro pensiamo che il patrimonio di riflessioni sia utile anche per pensare ai problemi di oggi e domani. Ci siamo concentrati su quattro macro temi: l’organizzazione della cultura, i diritti del lavoro, il welfare e infine le autonomie”.
Quale momento secondo lei segna la nascita del Pci come partito di massa?
“La Resistenza è stato un tornante fondamentale nella storia del Pci emiliano. Nato come un piccolo partito di rivoluzionari di professione, attraverso l’esperienza della Resistenza il Pci si radica nel territorio e diventa un partito di massa. La forza organizzativa è già notevolissima nel 1945, a metà degli anni ’50 il Pci emiliano romagnolo rappresentava un terzo del totale degli iscritti a livello nazionale. Nel corso di tutta la storia è stato sempre tra un terzo e un quarto degli iscritti a livello nazionale”.
Bologna fin dal dopoguerra inaugura una lunga tradizione di governo locale con l’elezione di Giuseppe Dozza, voi esponete in mostra fotografie molto belle di quel periodo…
“Dozza è sindaco dal 1945 al 1966, anche prima delle amministrative del 1946 perché viene indicato dal Comitato di liberazione nazionale, confermato dalle amministrative del 1946 e rimane in carica per 20 anni. È un grandissimo protagonista della storia della città, dalla ricostruzione al boom economico. I sindaci comunisti erano quelli delle regioni rosse, esperienze di governo locale appartengono in origine soprattutto alle regioni dell’Italia centrale e il Pci è fin dalle origini un partito dei sindaci”.
Il governo locale però non si traduce in un successo elettorale nazionale, in una dicotomia che spesso si ritrova nella storia elettorale dell’Italia.
“In quegli anni, da una parte c’era un clima di esclusione secca a sinistra da parte dei governi a guida democristiana, dall’altra politiche vessatorie nei confronti dei sindaci comunisti da parte delle prefetture, tanto che anche Giuseppe Dozza pubblicò un pamphlet nel 1951 intitolato “Il reato di essere sindaco”, partendo dai i controlli operati da parte del ministero dell’Interno attraverso le prefetture che andavano a contestare i singoli provvedimenti degli amministratori, andando anche al di là della normativa e degli spazi di autonomia che la Costituzione avrebbe garantito. Il ministro dell’Interno in quel momento era Scelba”.
Parliamo ancora di un Pci che guarda all’Unione Sovietica e ai Paesi dell’Est come riferimenti, quando cambiano le cose?
“Tra gli anni ’50 e 60 si guardia all’Europa dell’Est, tra gli anni ’60 e ’70 lo scenario cambia, saranno proprio Guido Fanti e Renato Zangheri a dare una sterzata alle relazioni internazionali del Pci guardando al riformismo europeo dell’Europa Occidentale. L’esperienza di sindaco da Renato Zangheri era guardata con molto interesse dal laburismo inglese. Ad esempio nel 1977 si diffuse un libretto intitolato “Red Bologna”, in inglese, che conteneva una lunga intervista a Zangheri, molto letto negli ambienti laburisti. In mostra si trova il frontespizio di questo libro”.
Gli anni ’50 sono anche quelle delle epurazioni degli eretici e dei dissidenti, c’è qualche caso particolare?
“Nel 1951 due dirigenti comunisti, Aldo Cucchi e Valdo Magnani che erano due dirigenti comunisti emiliani importanti, con un passato prestigioso nella resistenza, decidono di uscire dal Pci in maniera sofferta, in contrasto con la linea che ritenevano supina alla impostazione sovietica, mentre avrebbero voluto creare un movimento socialista indipendente. Furono espulsi con polemiche molto violente, fondarono un piccolo partito, non raggiunsero grossi numeri ma questa esperienza politica è stata riscoperta di recente per essere stata un tentativo coraggioso di creare negli anni della Guerra Fredda la ricerca di una terza via. All’epoca non era per niente facile. Però il Pci non era un partito monolitico, all’interno c’era un dibattito serrato e mostrava diversità territoriali, su queste realtive all’Emilia Romagna abbiamo costruito il nostro percorso di ricerca”.
Il protagonismo femminile è una di queste caratteristiche?
“Alla forza organizzativa del Pci hanno contribuito anche le donne, il legame con il ruolo ricoperto nella Resistenza è forte, l’Udi (Unione donne italiane) nasce nel 1945 e ha origine a partire dall’esperienza dei gruppi di difesa della donna. Acquisì subito un grosso radicamento, le dirigenti Udi erano solitamente militanti comuniste, c’era una doppia e a volte tripla militanze femminile: le donne erano iscritte a Pci, Udi e Cgil. In questo modo le donne comuniste riuscirono a creare un’agenda comune, in termini di diritti e rivendicazioni, determinante per l’avanzamento di quelle politiche di welfare. Questa impostazione si affermò in Emilia Romagna, le grandi conquiste risalgono agli anni ’60 e ’70. Innanzitutto l’attenzione per l’infanzia, dagli asili nido alle scuole materne. E l’attenzione al lavoro delle donne, quindi anche ai diritti delle donne lavoratrice. Anche la questione del controllo della maternità venne affrontata, con i primi consultori”.
Gli anni ’70 rappresentano un altro snodo cruciale, perché?
“Abbiamo un partito che cresce elettoralmente in maniera molto forte nel 1975 e 1976, poi nel 1977 una contestazione giovanile molto virulenta si scaglia contro il Partito Comunista e la politica di Enrico Berlinguer del compromesso storico. Nel 1976 e fino al 1979, il Partito Comunista aderisce ai governi di solidarietà nazionale, con l’appoggio esterno del Pci al governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti. Il Pci agli occhi dei contestatori diventa quindi un partito di governo e questo spiega anche la virulenza della contestazione. Sono gli anni del terrorismo e di un contesto drammatico, questo impegno di governo però finisce per smorzare la spinta riformista che aveva caratterizzato il partito negli anni precedenti, la base è disorientata anche in Emilia Romagna rispetto alle scelte dei governi di solidarietà nazionale. Nel 1979 il Pci considererà chiusa quell’esperienza ma esce molto indebolito e per la prima volta dal dopoguerra perde molti voti. Si cominciano a percepire alcuni fenomeni di più lungo periodo, come il calo della partecipazione politica e il calo della partecipazione giovanile. Comincia quella crisi con cui il Pci dovrà fare i conti durante gli anni ’80.
Anche la fine del Pci venne annunciata a Bologna, davanti ai partigiani riuniti alla Bolognina. Anche in questo caso, Bologna è al centro delle vicende di quella forza politica.
“L’inizio della fine si può individuare nel 1987, un nuovo calo elettorale, che porta nel 1988 alle dimissioni del segretario Alessandro Natta. Achille Occhetto assume la guida del Pci e lo guida fino allo scioglimento. Con la caduta del muro di Berlino era un’intera epoca a finire, in Italia e nel mondo. È un tornante della storia, dobbiamo assolutamente tenere insieme lo scenario italiano con quello internazionale. Il Pci in Italia e in Emilia è stata una grande vicenda umana e politica, una grande avventura che ci lascia in eredità un serbatoio di storie, di memorie, di carte e di archivio, che a distanza di tempo possiamo ricostruire non tanto con attenzione agli aspetti ideologici ma con attenzione ai percorsi individuali e collettivi”.
Cosa rimarrà del vostro lavoro per gli storici?
“Un grande lavoro di archivio. Ne abbiamo censiti oltre 200 sul territorio regionale, abbiamo setacciato tutti gli istituti culturali, le sedi del Pd e le sedi istituzionali. Anche e soprattutto ci hanno aiutato gli archivi delle persone, per quell’attenzione alle storie di vita. L’attenzione rivolta agli archivi di persona è qualcosa di nuovo, non era mai stato fatto un censimento, il volume che è in uscita per Bononia University Press e verrà presentato il 4 dicembre è un lavoro importante perché mette a disposizione una panoramica completa o pressoché completa. Il patrimonio di carte, di storie e memorie lasciato sul territorio regionale”.
Ognuno può avere in casa, nel baule del nonno o nella credenza della mamma, un patrimonio inestimabile da questo punto di vista, cosa possono fare le persone che non vogliono disperdere i ricordi di una lunga militanza?
“Una delle speranze che abbiamo pubblicando la guida agli archivi è quella di sensibilizzare chi ha in casa nuclei archivistici importanti. Chiediamo a tutti di prendere contatto con il progetto Partecipare la Democrazia, con la Fondazione Duemila, perché il rischio di disperdere carte è davvero incombente. Abbiamo la fortuna di avere istituzioni culturali preparate ad accogliere e valorizzare gli archivi, speriamo che possa servire a metter e in contatto privati e famiglie che hanno ancora delle carte affinché le possano donare e mettere in sicurezza”.
fonte La Repubblica ed. Bologna