Seconda parte dell’articolo di Giandomenico Scarpelli, pubblicato su Apocalottimismo del 12 dicembre 2021 dove è anche possibile consultare la bibliografia
Le “ricette senza ingredienti” dei manuali di economia.
La funzione di produzione come abbiamo visto è paragonabile ad una ricetta, ma una ben strana ricetta, nella quale si prevedono il cuoco (L), le padelle, il forno ed i fornelli (K), ma non gli ingredienti: è una «recipe with no ingredients» (Daly, 1999, p. 91). Gli economisti (quasi tutti) non trovano nulla di strano in questo, dato che si formano su testi che assumono come un dato l’assenza degli “ingredienti”, cioè delle risorse naturali.
Anni fa Herman Daly fece «una ricerca sugli indici analitici di tre fra i testi di macroeconomia più frequentemente adottati1» e verificò che le risorse naturali non erano mai menzionate. Daly concluse: «evidentemente si ritiene che la crescita del Pil sia indipendente dalle risorse naturali» (Daly, 1996, p. 62 ed. it.). Di uno di questi testi – quello, molto diffuso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, scritto da due noti economisti, Rudiger Dornbusch e Stanley Fischer – possiedo l’edizione italiana; l’ho tirata fuori dalla mia libreria (alzando un po’ di polvere) e ho letto: «Quali sono le fonti di sviluppo del reddito reale nel corso del tempo? La risposta è semplice: in primo luogo, la crescita nella disponibilità dei fattori di produzione e, in secondo luogo, il progresso tecnologico» (Dornbusch, Fischer, 1978, p. 580 ed. it.); i fattori di produzione per gli Autori sono, come prassi, lavoro e capitale (ib., p. 17 ed. it.) e quindi se ne deduce che per essi le risorse naturali non servono alla produzione e quindi “a sviluppare il reddito reale” 2.
Dai tempi della rilevazione di Daly è cambiato ben poco: è già tanto riuscire a trovare qualche manuale universitario di macroeconomia che ammetta che le risorse naturali o le materie prime esistano. Nel celeberrimo Economics di Paul Samuelson, ora co-firmato da Nordhaus, le risorse naturali sono considerate, anche se vengono ritenute un fattore di produzione sullo stesso piano del lavoro e del capitale (Samuelson, Nordhaus 2010, p. 268), confondendo così gli agenti della trasformazione con ciò che viene trasformato. In altri testi scritti da economisti molto autorevoli, come in quello di William Baumol e Alan Blinder, natural resources e raw materials sono giustamente considerati input del processo produttivo (Baumol, Blinder, 2011, pp. 22 e 42), però quando essi utilizzano la funzione di produzione (pp. 102-3) l’analisi riguarda solo lavoro e capitale, le risorse naturali spariscono e sembra non servano più a generare il PIL. Stesso discorso per il testo di Olivier Blanchard e David R. Johnson: qui la funzione di produzione aggregata è introdotta avvertendo che le imprese utilizzano “anche” materie prime (Blanchard, Johnson, 2012, p. 153), ma poi gli Autori le dimenticano nella loro trattazione3.
Nei testi sopra menzionati alle risorse naturali viene dunque riconosciuto un ruolo, sebbene fortemente sottovalutato e non correttamente considerato, mentre in molti altri testi esse sono del tutto ignorate, come ai tempi della rilevazione di Daly. Il diffuso ed apprezzato manuale del docente di Harvard N. Gregory Mankiw, spiega che «la produzione di beni e servizi di una economia, cioè il suo PIL, dipende da: (1) la quantità di fattori di produzione di cui dispone; e (2) dalla sua capacità di trasformare questi fattori, rappresentata dalla funzione di produzione» (Mankiw, 2003, p. 35 ed. it.). Dunque la produzione, secondo questo economista, non dipende anche dalle materie prime e dalle risorse energetiche disponibili, le quali non sono considerate un fattore a sé, né sono incluse nel capitale (la definizione che viene data del capitale non le comprende): semplicemente esse non esistono, ed infatti non sono mai menzionate; l’unica cosa “naturale” di cui si occupa questo testo è il tasso di disoccupazione4. Si noti inoltre l’affermazione sopra riportata, secondo la quale l’economia trasformerebbe i fattori in prodotto. Il concetto viene ribadito con queste parole: «[…] molti economisti considerano la funzione di produzione Cobb-Douglas una buona approssimazione delle modalità con cui il sistema economico trasforma capitale e lavoro in beni e servizi» (ib., p. 331 ed. it., grassetto mio). Lo stesso affermano i menzionati Baumol e Blinder: «È utile pensare al sistema economico come ad una macchina che prende inputs, come lavoro ed altre cose che chiamiamo fattori di produzione, e li trasforma in outputs, cioè nelle cose che le persone desiderano consumare» (Baumol, Blinder, 2011, p. 22, trad. mia). Gli studenti che si formano su questi testi, dunque, imparano che al fabbro non occorrono né ferro grezzo né carbone: questi materiali possono restare nelle miniere, poiché ciò che il bravo artigiano fa è trasformare sé stesso, l’incudine ed il maglio («lavoro ed altre cose che chiamiamo fattori di produzione») in ferri di cavallo e ringhiere metalliche; ed in una fabbrica di tonno in scatola gli
operai e le macchine inscatolatrici si trasformerebbero, secondo Mankiw, in gustosi tranci di tonno. Il processo produttivo sarebbe cioè una sorta di “trasmutazione della materia”. Mankiw, come abbiamo visto, afferma che «molti economisti» la pensano così, ma appare fin troppo ovvio che questi «molti» sbagliano, dato che, come si è detto, non è il sistema economico (non meglio identificato) a trasformare capitale e lavoro in prodotti, bensì sono capitale e lavoro a trasformare le materie prime (risorse naturali) in prodotti, consumando energia. C’è da aggiungere che per fortuna le
cose vanno così, perché i lavoratori non sarebbero affatto contenti di essere trasformati in beni o in servizi!5
A conferma della sua concezione Mankiw fa il seguente esempio: «Considereremo il processo produttivo di un panificio: il forno e le altre attrezzature sono il capitale; i lavoratori assunti per fare il pane sono il lavoro; le pagnotte sono il prodotto. La funzione di produzione del panificio mostra che il numero di pagnotte prodotte dipendono [sic] dalla quantità di attrezzature produttive e dal numero dei lavoratori» (Mankiw, 2003, p. 36 ed. it.). E non anche dalla farina, dal lievito, dall’acqua e dal combustibile per scaldare il forno? Analogo l’esempio che si legge nel manuale di Charles I. Jones (docente alla Stanford University), che riguarda la produzione di gelati: anche qui il “messaggio” è che i gelatai (il fattore lavoro) producono gelati senza acqua né latte né zucchero né cioccolato (né polverine), ma solo con le gelatiere (il capitale)… però ferme, dato che di energia non si parla (Jones, 2014, p. 70).6
Di fronte ad argomentazioni di questo tipo, Herman Daly scrisse che «la funzione di produzione neoclassica è peggio dell’alchimia […] Gli economisti neoclassici, senza arrossire, scrivono equazioni nelle quali per ottenere flussi di output di materia non sono richiesti flussi di materia come input» (Daly, 1999, p. 91, trad. mia). 7
Un (altro) caso di rimozione kuhniana
Com’è possibile che importanti economisti scrivano simili spropositi?
Per rispondere a questa domanda credo sia utile rammentare quanto accadde dopo che alcuni economisti − ed in particolare Joan Robinson, Luigi Pasinetti e Pierangelo Garegnani − mossero nei confronti della funzione di produzione aggregata la critica al concetto di capitale (cfr. Pasinetti, 2000; Perone, 2018). Questa critica faceva vacillare la teoria della distribuzione neoclassica, per cui gli economisti che si richiamavano a quella scuola di pensiero, ammettendo l’esistenza di quella “crepa” nel loro mirabile “edificio”, cercarono escamotages per “puntellarlo”; quindi si arresero e
accantonarono per un po’ le funzioni di produzione aggregate; infine hanno tranquillamente ricominciato ad usarle come se nulla fosse accaduto (Pasinetti, 2000; Felipe, McCombie, 2013, pp. 5-7). Si è trattato dunque di «Un fenomeno esteso di diffusa amnesia», che «può solo spiegarsi in termini più appropriati di ‘soppressione’ o ‘rimozione’. Si tratta forse di uno degli esempi più interessanti di quel processo descritto da Kuhn (1962), mediante il quale la scienza “normale” dominante sopprime, e quindi ignora, i casi di contraddizione e di anomalia al suo interno» (Pasinetti, 2000, p. 215).
Herman Daly ha dato una spiegazione analoga del comportamento degli economisti che hanno usato e continuano ad usare la funzione di produzione con formulazioni nelle quali le risorse naturali non esistono oppure sono considerate sostituibili col capitale: gli economisti ortodossi non si accorgono (o fanno finta di non accorgersi) quanto ciò sia assurdo perché il loro paradigma kuhniano o, se si preferisce, la loro schumpeteriana “visione preanalitica” (Schumpeter, 1954, pp. 51ss. ed. it.; Daly, 2017, p. 87), glielo impedisce.
Inserire in modo corretto le risorse naturali nella funzione di produzione (o abbandonarla) costringerebbe gli economisti ad affrontare problemi che per vari motivi è più “comodo” lasciar perdere. Piuttosto che ammettere di insegnare e sostenere una teoria priva di fondamento, e cambiare paradigma, è più facile dare ad intendere che il processo produttivo funzioni come il panificio di Mankiw. La cosa viene talvolta fatta passare come un’innocua ipotesi semplificatrice: il menzionato ponderoso trattato sulla funzione di produzione − che pure sottolinea i tanti altri problemi che essa comporta − inizia così: «Assumiamo che non ci sia alcun input materiale (questo semplifica la trattazione ma non incide sull’argomentazione)» (Felipe, McCombie, 2013, p. 24, trad. mia). Se si ammette che la produzione non ha alcun input materiale (cioè naturale), si finisce per credere che per la crescita servano solo più capitale, più lavoro (purché “flessibile”…) ed una buona dose di progresso tecnologico: «Possiamo pensare che le fonti della crescita siano costituite dall’accumulazione del capitale e dal progresso tecnologico […] Una crescita sostenuta richiede un progresso tecnologico sostenuto», scrivono in un loro testo Blanchard, Amighini e Giavazzi (2016, p. 297); non c’è dubbio, ma richiede anche un consumo “sostenuto” di capitale naturale (miniere, pozzi di petrolio, falde acquifere, foreste, ecc.).
Adam Smith, al quale così spesso gli economisti ortodossi si richiamano per esaltare le virtù del mercato, scrisse che (quello che lui chiamava) il “capitale circolante” (in pratica i semilavorati necessari alla produzione dei beni finali) «richiede un’alimentazione continua senza la quale cesserebbe presto di esistere. Questa alimentazione deriva principalmente da tre fonti: il prodotto del suolo, delle miniere e della pesca» (Smith, 1776, p. 396 ed. it.). Il “padre Adam” non avrebbe potuto essere più chiaro! E gli storici dell’economia confermano che «il capitale naturale è una determinante fondamentale dello sviluppo economico» (Willebald et al., 2015, p.1, trad. mia). Invece, come abbiamo visto, celebri economisti elaborano modelli nei quali la dotazione del capitale manufatto può essere aumentata senza un corrispondente aumento delle risorse naturali impiegate, cosa che è «uno splendido trucco da prestigiatore» (GeorgescuRoegen, 1979, pp. 130 ed. it.).
L’approccio mainstream, utilizzando la funzione di produzione aggregata, evita di porre l’attenzione sul fatto che per produrre beni e servizi è necessario un continuo input di risorse naturali e che quindi per far crescere quella produzione anche quell’input deve crescere; e se quell’input cresce viene consumata rapidamente ed in modo irreversibile la componente non riproducibile del capitale naturale (è il caso per esempio del petrolio, ma non solo8) e si sfrutta la componente riproducibile oltre le sue capacità di rigenerarsi (per esempio le foreste: ogni secondo – sottolineo, ogni secondo – nel mondo viene distrutta un’estensione di foresta pari ad un campo di calcio). Da tempo è stato osservato che «ci “mangiamo” il capitale naturale che abbiamo ereditato, a svantaggio del nostro futuro e di quello dei nostri figli» (Mishan, 1984, p. 126 ed. it.), ma gli economisti mainstream non se ne curano: alcuni ritengono che la tecnologia eliminerà ogni scarsità facendo trovare risorse oggi inaccessibili (a quali costi? E con quale e quanta energia?); altri pensano che, sempre grazie a nuove tecnologie, si realizzerà il cosiddetto decoupling, cioè il “disaccoppiamento” tra crescita della produzione e consumo di risorse (se ne parla da almeno cinquant’anni ed a livello globale non si è affatto verificato); altri ancora sono ottimisti sul futuro delle risorse perché ritengono che l’economia del futuro ne consumerà meno perché sarà sempre più basata sui servizi (come se la difesa, l’istruzione, la finanza ecc. non avessero bisogno di materiali ed energia).
Nell’attesa che queste previsioni si realizzino (cosa che potrebbe non verificarsi mai), il capitale naturale continua ad essere consumato o danneggiato sempre più: «Lo stock di capitale naturale attualmente si sta deteriorando ben oltre il suo tasso di rigenerazione» ‒ si legge nel menzionato rapporto al Segretario generale dell’ONU ‒ e ciò «sta portando a cambiamenti potenzialmente irreversibili e sta mettendo a rischio la stabilità del sistema della Terra» (Independent Group of Scientists, 2019, p. 94, trad. mia); ma questo deterioramento irreversibile e pericoloso del capitale naturale viene considerato non un costo, ma un beneficio, in quanto fa aumentare il PIL (la Y della funzione).
Cosa viene prodotto – quando si produce – oltre ai prodotti
La produzione di beni e servizi genera scarti, e quando gli scarti sono costituiti da fumi, rifiuti tossici, radiazioni ecc., si verificano quelle che in microeconomia sono dette “esternalità”. Ogni testo di microeconomia ha il suo bravo capitolo sulle esternalità, nel quale il professore di turno ammette, spesso con riluttanza, che l’attività di un’azienda può avere effetti negativi sull’ambiente, sulla salute e sull’attività di altri; poi, quando uno studente o una studentessa come mia figlia, fatta indigestione di curve d’indifferenza e saggi marginali di sostituzione, passa al libro di testo di “macro”, nota che un siffatto capitolo manca: l’attività della totalità delle aziende misteriosamente non produce più scarti e non ha quindi alcun effetto sull’ambiente. I macroeconomisti, infatti, non solo pensano di “preparare cibi senza ingredienti” come Mankiw con le sue pagnotte e Jones con i suoi gelati ma, utilizzando la funzione di produzione, non considerano neanche gli scarti di quel forno e di quella gelateria.
Come nel caso del ruolo delle risorse naturali, anche per gli scarti della produzione è stato così dimenticato l’insegnamento dei Maestri del passato: quello di Marx, ad esempio, che scrisse della «devil dust» derivante dalla lavorazione del cotone e degli altri «escrementi del processo lavorativo» (Marx, 1867, p. 304 ed. it); e quello di Jevons, che trattò degli oggetti con valore nullo e negativo scrivendo tra l’altro che «ogni fornace produce ceneri, rifiuti o scorie» (Jevons, 1888, p. 127,trad. mia). Invece, nella bottega del fornaio di Mankiw e nelle “cucine” degli economisti che la pensano come lui «Non ci sono croste, bucce, gusci, conchiglie, o residui, né c’è calore residuo del forno da sfiatare» (Daly, 1997, p. 261, trad. mia).
Fuor di metafora, «gli scarti, proprio come le risorse naturali, non sono in alcun modo rappresentati nella funzione di produzione standard» (Georgescu-Roegen, 1975, p. 38 ed. it.). E poiché quegli scarti molto spesso provocano inquinamento ambientale, nei modelli basati sulla funzione di produzione, oltre a non essere considerato il consumo di capitale naturale e quindi l’eventualità che risorse naturali indispensabili possano diventare scarse o possano esaurirsi, è anche esclusa per definizione la possibilità del verificarsi dell’inquinamento e del cambiamento climatico. Gli economisti però continuano ad utilizzare la funzione di produzione perché, anche se non possono più negare la gravità dei problemi ambientali (cosa che fino a non molto tempo fa molti di loro facevano), sono convinti che con qualche tassa o qualche accordo tra “inquinatori” ed “inquinati” si possa sistemare tutto; aggiungono che con più crescita avremo i fondi per le spese di disinquinamento (cfr. ad es. Ciocca, 2020) e concludono che grazie alle mirabolanti tecnologie del futuro il problema si risolverà da sé: «l’estrazione dei materiali e la formazione di inquinamento dapprima raggiungeranno un picco, poi tenderanno ad azzerarsi [asymptote to zero]» (Liebreich, 2018, trad. mia).
In realtà l’assunto che il progresso tecnologico risolverà ogni problema ambientale si basa su due presupposti fallaci. Il primo è che in futuro si adotteranno solo tecnologie “buone”, mentre nel corso della Storia nuove tecnologie hanno contribuito in molti casi non ad inquinare meno, bensì di più, e non si comprende perché le cose in futuro dovrebbero andare diversamente.9
Il secondo presupposto fallace è di tipo scientifico: quand’anche venissero adottate solo tecnologie “verdi”, l’inquinamento non potrà mai azzerarsi poiché quegli «scarti [che] non sono in alcun modo rappresentati nella funzione di produzione standard» sono un effetto necessario ed ineliminabile dell’attività economica. Perché? Torniamo al verso di Lucrezio, in precedenza citato solo a metà: «Nil posse creari de nilo neque quod genitum est ad nil revocari», cioè «Nulla può essere creato dal nulla né, una volta nato, ritornare al nulla» (Lucrezio, p. 37). Proprio così: il processo economico è assoggettato alla menzionata Legge della conservazione della materia-energia: come ha scritto il compianto Giorgio Nebbia, «i cicli economici consistono nel prelevare dei beni materiali dai corpi naturali – aria, acque, suolo, depositi o stocks di minerali, rocce, combustibili fossili – nel trasformarli in oggetti utili, con inevitabile formazione di scorie e di rifiuti che finiscono nei corpi naturali» (Nebbia, 2007, grassetto mio). E se produzione e consumo implicano necessariamente un certo volume di scarti, cioè inquinamento, un maggior volume di produzione e consumo (cioè la tanto agognata crescita del PIL) implica necessariamente un inquinamento maggiore10. Questo effetto si potrà limitare grazie all’utilizzo esteso di tecnologie più rispettose dell’ambiente e che favoriscano processi di riciclaggio (sempre che vengano messe a punto ed effettivamente applicate), ma non annullare, poiché nessuna tecnologia potrà consentire all’uomo di violare una legge della fisica (e di contraddire Lucrezio).
Conclusioni
Schumpeter scrisse: «[…] è pratica comune ragionare come se esistesse una funzione di produzione sociale […] [ma] il diritto logico di usare questo concetto dev’essere acquisito mediante prova» (Schumpeter, 1954, Vol. III, p. 1262 ed. it.). Schumpeter non fu il solo grande economista del passato ad aver preso le distanze da questo strumento di analisi. Eppure la funzione di produzione aggregata oggi «è indubbiamente uno dei concetti più largamente usati nella teoria economica» e «il core della teoria macroeconomica neoclassica si basa sulla funzione di produzione aggregata, in una forma o in un’altra» (Felipe, McCombie, 2013, pp. 1, 3). Ma questo modello occulta il fatto che la produzione richiede il consumo – in larga misura irreversibile − di capitale naturale.
Utilizzando la funzione Y = f (L, K) (o formulazioni analoghe) gli economisti assumono – a volte esplicitamente, a volte senza rendersene conto − che il capitale naturale non serva a nulla, oppure possa essere sostituito da “cose” fabbricate dall’uomo, oppure possa essere tralasciato in quanto disponibile all’infinito, magari grazie alla forza del pensiero11. Inoltre, la funzione di produzione occulta la formazione degli scarti, cioè l’inquinamento ambientale: i 35 miliardi di tonnellate di CO2 che vengono immessi ogni anno nell’atmosfera alterando il clima e gli 8 milioni di tonnellate di plastica che arrivano ogni anno negli oceani avvelenandoli (e avvelenandoci), derivano da processi produttivi, ma per la funzione di produzione, e quindi per i modelli che su di essa si basano, non esistono.
Gli ecological economists hanno perciò da tempo criticato la funzione di produzione, ma pur avendo salde fondamenta logiche e scientifiche, e pur sollevando questioni centrali per il futuro del genere umano, quelle critiche non sono state prese in considerazione: gli scritti di Georgescu-Roegen, Herman Daly, Juan Martinez-Alier e di pochi altri economisti ecologisti (nessuno di loro premiato col Nobel, ça va sans dire) sono stati abbandonati «alla critica roditrice dei topi». Questo dovrebbe al contrario essere il destino della funzione di produzione tradizionale, in quanto essa fornisce una rappresentazione della realtà incompleta, distorta e pericolosa. Noi invece «abbiamo bisogno di modelli economici che riflettano correttamente le basi fisiche ed ecologiche dell’attività economica», come scrissero alcuni economisti ambientalisti nell’ormai lontano 1997 (Ayres et al., 1997, p. 15, trad. mia) e come in sostanza è stato ribadito a distanza di oltre vent’anni in un rapporto dell’OCSE (OECD, 2019, pp. 13-4).
Ci si potrebbe, alla fine, chiedere: perché questo penoso annaspare oltre i limiti della ragionevolezza scrivendo che si può fare a meno delle risorse naturali o che è possibile sostituirle col capitale? Perchè continuare a proporre «equazioni nelle quali per ottenere flussi di output di materia non sono richiesti flussi di materia come input»? La risposta è nell’approccio degli economisti mainstream, fermi nella convinzione che la crescita del PIL possa e debba proseguire all’infinito12. Kenneth Boulding a questo riguardo disse: «Chiunque creda che la crescita esponenziale possa continuare per sempre in un mondo finito o è un pazzo o è un economista»13. Questo accostamento ai pazzi non ha però turbato gli economisti (non saprei dire se l’accostamento agli economisti abbia turbato i pazzi). Così, sono pochi quelli che si occupano degli effetti dell’attività economica sull’ambiente e pochi quelli disposti ad ammettere che la finitezza della Terra implica che il suo utilizzo come serbatoio di risorse e come pattumiera abbia dei limiti, e che questi limiti in molte aree del Pianeta sono stati già superati. Sono invece tanti quelli intenti a discettare sui decimali di PIL del prossimo trimestre e tanti quelli che, di fronte ai rischi ambientali, non sanno far altro che ripetere due stupidi luoghi comuni: “la tecnologia risolverà ogni problema“ e “da Malthus a The Limits to Growth i profeti di sventura hanno sempre sbagliato e quindi continueranno a sbagliare”14.
Gli economisti dovrebbero viceversa riconoscere che l’economia deve avere una scala appropriata alle dimensioni dell’ecosistema e trarne le conseguenze teoriche e fattuali. Jørgen Randers (uno dei coautori di The Limits to Growth) ha scritto al riguardo: «Nel lungo periodo l’umanità non può usare più risorse e generare più emissioni di quante la natura può fornire o assorbire in maniera sostenibile. In altre parole l’impronta ecologica non può crescere indefinitamente perché il pianeta è fisicamente limitato. Per forza di cose il superamento è temporaneo. Ogni volta che sfora, l’umanità deve rientrare in un territorio sostenibile, o attraverso un declino controllato o con un collasso indotto dalla natura (o dal mercato)» (Randers, 2013, cap. 11 punto 5).
Fisici, climatologi, ecologi ed altri scienziati hanno tante volte avvertito che proseguendo le tendenze in atto della produzione e del consumo quel collasso arriverà (cfr. ad es. Ripple et. al., 2017). Di fronte al profilarsi di questi scenari globali drammatici, la sensibilità su questi temi di recente è molto cresciuta (anche se in concreto si fa molto poco): si pensi ai Fridays for Future, alle iniziative di diversi governi ed organizzazioni internazionali, all’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco… Perciò è deprimente che tanti importanti economisti rifiutino di adottare «modelli economici che riflettano correttamente le basi fisiche ed ecologiche dell’attività economica», continuando a rappresentare nei loro testi e nei loro modelli un mondo inesistente nel quale è possibile produrre pagnotte senza ingredienti e senza combustibile per il forno, e nel quale quella produzione non genera fumi né rifiuti di alcun tipo.
Mi consola un po’ il fatto che mia figlia abbia preso un buon voto all’esame di economia politica.
NOTE
1 «Si vedano: R. Dornbusch e S. Fischer, Macroeconomics, McGraw-Hill, New York, 19874; R. E. Hall e J.B. Taylor, Macroeconomics, W. W. Norton, New York 19882; R. J. Barro, Macroeconomics, Wiley and Sons, New York 19872» [nota di H.E. Daly].
2 La cosa singolare è che Dornbusch e Fischer trattarono nel loro testo degli effetti che le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime hanno sull’offerta aggregata, ammettendo dunque implicitamente che esse sono necessarie alla produzione!
3 Blanchard e Johnson si ricordano solo del petrolio in un riquadro che mostra i diversi effetti dell’aumento del prezzo del greggio negli anni ’70 e negli anni 2000).
4 In un testo più recente e più generale (“micro” e “macro”) Mankiw si “accorge” dell’esistenza delle risorse naturali e le include nella funzione di produzione tra i fattori di produzione, secondo l’impostazione già vista in altri testi (Mankiw, 2018, p. 523).
5 Devo però ammettere che le affermazioni di Mankiw, Baumol e Blinder talvolta si realizzano: ad esempio, nella Chicago dei primi del Novecento, come raccontò lo scrittore Upton Sinclair nel romanzo-inchiesta The Jungle (1906), i lavoratori che cadevano nelle caldaie utilizzate dall’industria della carne in scatola erano effettivamente trasformati in prodotti.
6 Poco dopo Jones, per spiegare i rendimenti di scala costanti, si lascia sfuggire che per raddoppiare la produzione bisogna raddoppiare non solo il numero dei lavoratori e dei beni capitali, ma anche la quantità di ingredienti (dell’energia continua a non esserci traccia) (Jones, 2014, p. 71); ma la cosa finisce lì e gli ingredienti tornano subito nell’oblio.
7 Va rimarcato che il modo di concepire il processo produttivo che viene sintetizzato con la funzione di produzione e che si riscontra nei testi menzionati (ed anche in molti altri) non è una semplificazione dovuta al carattere introduttivo dei testi stessi, poiché anche nella letteratura specialistica gli unici e veri input fisici della produzione, e cioè le materie prime e le risorse energetiche, vengono in genere ignorati: «Gli attuali modelli standard di crescita operano tipicamente con soli due fattori di produzione, capitale e lavoro […] I modelli neoclassici di crescita quindi implicano un’economia separata dalla società e completamente disconnessa dalla natura» (Guttmann, 2018, pp. 111-2).
8 «[…] il problema non è soltanto del petrolio, ma di tutte le risorse minerarie che utilizziamo: dai combustibili fossili (carbone e gas […]) a tutti i metalli, i semiconduttori, i materiali da costruzione e quei preziosi fosfati senza i quali l’agricoltura non potrebbe produrre abbastanza cibo da sostenere sette miliardi di persone» (Bardi, 2011b, Introd.).
9 Come ha osservato il biologo ed antropologo Jared Diamond, l’idea che il progresso tecnologico possa risolvere il problema ambientale «si basa sulla convinzione, tutta da dimostrare, che la tecnologia abbia risolto più problemi di quanti ne abbia creati», mentre in realtà «molti nostri problemi attuali sono conseguenze negative e non intenzionali della tecnologia esistente» (Diamond, 2005, p. 510 ed. it.; sulla stessa linea Sachs, 2014, p. 438 ed. it.).
10 Per questo non si può che essere d’accordo con le parole del meteorologo e climatologo Luca Mercalli: «L’economia neoliberista della crescita infinita è dunque in conflitto con il clima e con l’ambiente, perché la crescita richiede consumi di materie prime e di energia e produzione di scarti» (Mercalli, 2020, p. 7).
11 Non è un’iperbole: Robert Bradley, presidente dell’Institute for Energy Research statunitense, ha affermato che «le risorse naturali originano dalla mente, non dalla terra, e quindi non si esauriscono» (cit. in Czech, 2013, p. 146).
12 Indicativo al riguardo il titolo di un articolo dell’economista e giornalista economico Tim Harford: “Can Economic Growth Continue Forever? Of Course!” (Harford, 2014).
13 Cit. in U.S. Congress (1973).
14 A parte la balorda deduzione, come ha scritto Jeffrey Sachs «Dobbiamo ancora dimostrare che Malthus aveva torto! Il suo spettro incomberà finché la popolazione mondiale non si stabilizzerà (o diminuirà) e i nostri metodi di produzione non saranno sicuri dal punto di vista ambientale» (Sachs, 2014, p. 211 ed. it.), A ben vedere, la parte di Umanità che si è salvata dalle “predizioni” di Malthus ha applicato proprio il rimedio da lui proposto, limitando la procreazione. Per quanto riguarda poi i presunti “errori” del Rapporto al Club di Roma del 1972 cfr. Bardi (2011a) e Turner (2014).