Noi che non crediamo alle fate, ai principi azzurri e tantomeno ai DRAGHI, riportiamo, al termine di questo nostro breve commento l’illuminante articolo di Pierfranco Pellizzetti su Micromega che di seguito pubblichiamo (la rivista ormai non esce più in forma cartacea), nel quale si ristabilisce con chiarezza come vanno davvero le cose per l’economia italiana, una replica a tutti coloro che blandiscono Draghi e il suo operato, mistificando continuamente la realtà.
Ciò che in questo momento viene presentato sulla stampa in generale e su quella governativa in particolare è qualcosa che tratteggia un nuovo miracolo economico con l’impennata del PIL al 6,5% e con aspetti favoleggianti dove l’Italia sarebbe la nuova locomotiva della ripresa e farebbe da traino per l’intero continente. Ovviamente tutto questo oscurando i dati di una situazione drammatica; oltre la crisi seguita alla pandemia con aziende numerosissime che hanno chiuso e molte altre in procinto di farlo, la piaga emorragica della delocalizzazione che produce ormai migliaia di posti di lavoro in meno e con il continuo degradare delle condizioni di sicurezza sul lavoro, abbiamo vissuto una settimana da incubo con 12 morti!
Ripartendo dai dati Istat, Pellizzetti traccia un quadro ben preciso della situazione e delinea gli aspetti grotteschi di una lettura totalmente estranea alla realtà. Ovviamente sulla stampa questa ondata di entusiasmo trionfante viene tradotta in elogi sperticati per Mario Draghi.
Si ricorda con enfasi che Mario Draghi è stato allievo prediletto di Federico Caffè e noi, ricordando che molti “allievi prediletti” in ogni campo hanno poi disatteso completamente gli insegnamenti ricevuti, ci siamo chiesti se qualcuno di coloro che hanno fatto questa citazione si siano mai interessati di quale era il pensiero del professor Caffè. Il professore nato a Pescara il 6 gennaio del 1915, tra i più convinti assertori della dottrina keneysiana in Italia, scomparve il 15 aprile 1987, la mattina usci di casa e non vi fece più ritorno, senza che a tutt’oggi si sia risolto il mistero della sua scomparsa. La principale preoccupazione di Caffè era di dare garanzie ai ceti sociali più deboli, garanzie che significavano: occupazione e protezione sociale.
Mentre il mondo vedeva trionfare il liberismo guidato da Reagan e dalla Tacher, Caffè proponeva una economia al servizio della persona: l’economia del benessere tutta rivolta alla collettività.
I suoi insegnamenti anche sul concetto di efficienza erano sempre rivolti a tutelare i più deboli, “un’efficienza priva di ideali ci riporta al clima intellettuale che ha consentito di designare l’economia come una scienza crudele”.
I suoi giudizi furono sempre netti e precisi, mai teneri col mercato, con il gioco di borsa definito “crudele e predatorio”; e i suoi ammonimenti oggi li leggiamo come tristemente lungimiranti come quando mise in guardia da un mercato senza regole ne controlli, e di quei governi “tecnici” che ormai non riuscivano più a recepire le istanze più basse del popolo, senza dimenticare mai i giovani e la loro sofferenza per il precariato. Studioso attento e rigoroso che portò avanti con coerenza le sue idee di equità e giustizia sociale e delineò un’etica della finanza.
Ci resta sinceramente difficile intravvedere nella storia personale di Mario Draghi i fondamenti degli insegnamenti di Caffè. In un post che pubblicammo qualche tempo fa, proprio su questo blog, dal titolo: “Così è…Se vi piace” Noi lo abbiamo detto e lo riaffermiamo, Mario Draghi è uomo competente e preparato ma rimane un campione del capitalismo globale e del liberismo economico, che è ciò che noi combattiamo con tutte le nostre forze, e su di lui non cambiamo idea, è secondo noi ancora quello che pronunciò quando assunse la carica di governatore della Banca d’Italia e disse: ”O si ha la capacità di autoriformarsi o si è riformati” e ciò sta a testimoniare la istrionica capacità ad adattarsi a qualsiasi situazione senza farsi condizionare da nessun tipo di idealità, di rigore etico o morale, un perfetto e diligente esecutore del mondo finanziario.
Roberto Bernardini
Il magico mondo di Mario Draghi: il PIL al 6,5%
Perché è senza fondamento la narrazione trionfalistica dei menestrelli di corte dell’algido banchiere secondo la quale saremmo in presenza di un nuovo Miracolo Economico.
fonte Micromega del 13 dicembre 2021
Nell’ininterrotta chanson de geste dedicata dai menestrelli di corte all’algido banchiere, il premier che il mondo intero ci invidia (probabilmente a propria insaputa), ci vengono narrate vicende tra l’epico e il leggendario che sfuggono alla comprensione di chi voglia mantenere un ascolto minimamente raziocinante.
L’ISTAT ci informa che nel corso dell’attuale pandemia da Covid già 73mila imprese hanno chiuso i battenti e 17mila sono in procinto di non riaprirli. Ogni giorno riceviamo i bollettini dal fronte occupazionale che ci segnalano la fuga ininterrotta di multinazionali che hanno deciso di riallocare le loro produzioni altrove. Buona ultima – per ora – la Caterpillar di Jesi, che ha appena licenziato i suoi 270 dipendenti e smantellato l’intera rete di partner produttivi. Dopo la Whirlpool di Napoli, la Sematic-Wittur di Osio, la Novem Car di Bagnatica… e via andare.
Inoltre, durante questo biennio di mortale glaciazione del nostro sistema produttivo sembra a dir poco problematico ipotizzare l’avvenuta trasformazione innovativa del nostro apparato produttivo, così come l’inversione di tendenza nella composizione merceologica dell’offerta con cui il sistema d’impresa italiano cerca di tutelare le quote di mercato del passato. Ossia la gamma di prodotti a bassa soglia tecnologica (e a elevata esposizione alla riproducibilità da parte dei paesi di nuova industrializzazione e a basso costo del lavoro) che caratterizzano il mix del nostro export: cibo, moda e arredamento; oltre alle produzioni metalmeccaniche di piccole serie che ci avevano assicurato un discreto posizionamento in qualità di sub-fornitori di economie industriali dominanti, in primis quella tedesca.
Difatti i consuntivi pre-Covid, relativi al nostro andamento, confermavano per l’ennesima volta che il sistema cresce a livelli infinitesimali: la metà della Germania e perfino un terzo della Spagna. Nel frattempo il Centro Studi di Confindustria si premurava di aggiungere al quadro deprimente un’ulteriore pennellata nella stessa tonalità; retrodatando il fenomeno con l’osservazione che la forbice tra l’Italia manifatturiera e il resto del Mondo si sta allargando almeno dal 2000: un settore che si è espanso complessivamente del 36,1%, mentre nel caso nostro si restringeva del 25,5%.
Dunque uno scenario – tra fughe di investimenti industriali e declino competitivo sistemico – che rende assolutamente problematico individuare ragioni che giustifichino la narrazione trionfalistica secondo la quale saremmo in presenza di un nuovo Miracolo Economico. Tradotto nella mirabolante cifra di un +6,5 per cento di crescita su base annua, che surclasserebbe qualunque altro Paese dell’Eurozona; in particolare la Magna Germania, che secondo le previsioni di casa nostra si attesterebbe a meno della metà dell’italico boom (2,7%).
I più spericolati cantori arrivano a ipotizzare per il nostro Paese, sinora dato per arrancante (e reduce dall’aver liquidato esperienze già accreditate per miracolistiche come i cluster distrettuali canonici; chiusi oppure emigrati in Croazia o a Timisoara), un futuro leaderistico quale locomotiva dell’intero sistema produttivo continentale.
Incapace di trovare una spiegazione di questa impennata del Pil, che pianta le proprie radici nel bel mezzo di una decrescita assolutamente infelice, ho cercato lumi rivolgendomi a chi svolge professionalmente lavoro di monitoraggio delle dinamiche economiche: un amico che mi ha spiegato l’arcano.
Il più 6 virgola italiano del 2021 risulta essere un semplice fenomeno detto “di rimbalzo” rispetto all’andamento dell’anno precedente, che segnava meno 9. Recupero solamente parziale (come nel caso ancora più clamoroso della Spagna, che era scesa dell’11 e ora rimbalza del 6) che non presuppone risanamenti organizzativi o salti di qualità tecnologici, ma solo aggiustamenti fisiologici: esecuzione di commesse già da tempo in ordine o ripristino di scorte.
Di certo nessuna evoluzione genetica del modello produttivo nazionale, che continua disperatamente (e pervicacemente) a inseguire strategie competitive concentrate sulla compressione dei costi produttivi. Come rivela il dato non molto lusinghiero per il nostro sistema industriale (e non solo) che vede gli stipendi medi a valori reali persino ridotti rispetto al 1990 di un 2,9% (mentre crescevano in tutto il resto d’Europa: dal +273,3% della Lituania al +33,7 della Germania e al +31,1 francese).
Segno di un equilibrio precario, la cui messa in discussione (leggi scioperi) terrorizza i nostri governanti, che di politica industriale non capiscono una cippa. Non solo il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che non ha mai gestito un’industria nella sua carriera di commerciante ed è stato messo lì come testa di cuoio al servizio dei padroncini. Ma pure il premier, riverito membro della casta bancaria, e il ministro delegato: l’Andrea Orlando, la cui unica attività professionale è stata quella del funzionario di partito. Gli eroi della nuova favola italiana.