E se fosse l’associazionismo civico la via d’uscita dalla crisi della rappresentanza?
Daniele Nalbone su Micromega
La terza intervista di “La politica che (non) c’è” è a Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid Italia. Una discussione a 360 gradi su prepolitica, politica, attivismo, network e mobilitazione. Sullo sfondo, la crisi dei partiti. Al centro, la differenza tra “democrazia” e “qualità della democrazia”.
Non è solo più questione “di democrazia” ma di “qualità della democrazia”. Oggi la politica deve mettere al centro del proprio agire “la qualità reale del modo in cui il popolo decide le proprie sorti”. Passo successivo: fare in modo che “il formicolio” che c’è oggi in Italia, il crescente interesse per i temi della politica – pur in piena crisi della rappresentanza – “questa presa in carico di responsabilità trovi adeguata rappresentanza nei luoghi istituzionali”. Da qui inizia l’intervista – la terza del ciclo “La politica che (non) c’è” (qui le intervista a Chiara Saraceno e a Fabrizio Barca) – a Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid Italia.
Cosa significa, oggi, la parola “politica”?
Politica continua a essere tutto ciò che interessa i cittadini. Certo, oggi quella parola è svilita, parlare di politica fa paura. Da tempo dentro ActionAid non parliamo più, genericamente, di “democrazia”, che per qualche ragione pare un termine di cui si è perso il significato profondo, ma di “qualità della democrazia”, cioè della qualità reale del modo in cui il popolo decide le proprie sorti. La stessa cosa dovremmo iniziare a fare per quanto riguarda la parola “politica”, la cui qualità è ciò che conta davvero.
Partiamo allora dalla “politica della rappresentanza”.
Gli ultimi anni hanno confermato alcune tendenze: la politica intesa come gioco delle rappresentanze, cioè delle formazioni partitiche, oggi spesso manca di contenuti, funziona sugli slogan. In Italia però, e non solo in Italia, si registra tanta partecipazione civica di varia natura, interpretabile come traduzione della necessità del popolo di partecipare a ciò che lo interessa. Intorno a me sento parlare di piccole, grandi cose tutti i giorni, dal come andare a prendere dell’acqua in un villaggio indiano o africano a come gestire le risorse del Pnrr in un piccolo comune, fino naturalmente a come influire sulle grandi allocazioni di denaro pubblico quali per esempio il reddito di cittadinanza, o l’intera legge di bilancio dello Stato.
La sfida, quindi, è?
Fare in modo che questo formicolio, questo interesse, questa presa in carico di responsabilità trovi adeguata rappresentanza nei luoghi istituzionali.
E qui arrivano gli ostacoli.
Prendiamo il caso di Chiara Saraceno e del suo lavoro. È coordinatrice di un comitato istituito direttamente dal Ministro del Lavoro per revisionare il Reddito di cittadinanza, lo strumento di welfare più importante e dotato di maggiori risorse che abbiamo oggi in Italia. Ebbene, di tutta la mole di raccomandazioni prodotta dal Comitato, il governo non ha preso praticamente nulla, nonostante le modifiche suggerite – alcune onerose, alcune no – fossero in gran parte sovrapposte con quelle dell’Alleanza contro la Povertà, un network di 39 tra grandi e piccole associazioni e tutti i maggiori sindacati. Come è possibile che le conoscenze degli esperti, combinate con la pressione dei cittadini organizzati (milioni di associati), non bastino a superare le resistenze di forze politiche che a questo punto paiono agire ignorando tanto le pratiche di cittadinanza attiva, quanto i dati prodotti dagli esperti? Così la disaffezione rispetto al ruolo, che dovrebbe essere fondamentale, del negoziato tra rappresentanze cresce.
Motivo per cui le piazze sono piene di ragazzi che si battono per il clima tenendosi però alla larga dalle sedi dei partiti.
Il fermento che si muove nelle piazze oggi è difficile da inquadrare, è molto diversificato. Sicuramente non è lo stesso in tutti i luoghi del Paese e non è lo stesso su tutti i temi “caldi”. Generazioni sempre un po’ differenti, in evoluzione rapida, si cimentano con la politica in maniera diversa: è diverso il modo di confrontarsi degli adolescenti già rispetto ai ventenni, non solo rispetto ai cinquantenni. Una qualsiasi analisi che provasse a essere valida per tutti mancherebbe di qualcosa.
La parte professionale delle organizzazioni civiche si pone, da tempo, varie domande. Quella centrale è: come raccogliere, senza pretendere di volerci mettere il cappello, le risorse in movimento che oggi sono molto frammentate ma chiedono luoghi e non solo metodi per esprimersi? Per questo è proprio sulla diversità dei territori e delle comunità che operiamo. I consigli comunali dei ragazzi, per esempio, sono luoghi che possono sembrare banali, ma non lo sono se riempiti di contenuti grazie al supporto di organizzazioni capaci di accompagnare queste esperienze. Discutere con i NEET (sigla di Not in education, employment or training, persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione, ndr) del futuro individuale e delle rispettive comunità è fondamentale per permettere di far sbocciare anche un interesse politico. Oggi servono luoghi, spazi nei quali si possano far scoprire ai ragazzi – in questo caso – degli strumenti adeguati alle loro battaglie, senza “imporre” le proprie ma accompagnando invece le loro.
Strumenti che i partiti non sono più in grado di dare.
Non solo i partiti sono in difficoltà. Ad esempio, anche soggetti strutturati come le organizzazioni ambientaliste hanno difficoltà a relazionarsi con i Fridays For Future. Nonostante il grande potenziale che c’è tra quei ragazzi, Legambiente, Wwf e le altre realtà non sono ancora riuscite davvero a produrre una vera saldatura tra le conoscenze e la capacità di advocacy di cui dispongono e il capitale politico generato dai ragazzi “dei venerdì”. Eppure, su giustizia sociale e ambientale è chiaro che ci vorrebbe unitarietà d’azione, di spinta e di pressione che il mondo associativo – solamente questo, non i partiti – ha la capacità di produrre.
Come?
Con l’autorevolezza e la credibilità che deriva dai contenuti. Oggi la “membership” alle associazioni non è un fatto identitario, semmai le associazioni devono prestarsi a essere considerate strumenti; i ragazzi non si sono iscritti in gran numero alle associazioni negli ultimi anni, ma da queste possono trarre contenuti che i partiti invece non producono più autonomamente. La capacità di fornire contenuti puntuali tanto alle istituzioni quanto all’attivismo civico occasionale, di piazza, giovanile differenzia grandemente le organizzazioni civiche dai partiti e continua ad avvalorare il ruolo dei cosiddetti corpi intermedi, risorsa vitale anche per i ragazzi.
Però, come ha detto, i ragazzi non si associano.
Lo dicono i numeri. L’adesione individuale è sempre più spesso alle cause, non alle associazioni in quanto tali. Le adesioni associative sono più volatili, anche se nel nostro caso sono decisamente durature visto che un sostenitore di ActionAid rinnova in media per circa sei, sette anni. Vero è che se facciamo una somma di tutte le iscrizioni di tutte le associazioni italiane contiamo decine di milioni. Non credo che i partiti arrivino ai due milioni nel loro insieme.
In questa fase in cui la rappresentanza è in crisi, in cui su molte questioni manca un interlocutore istituzionale, quanto sono importanti i vari network che sono nati in Italia negli ultimi anni? Penso al Forum Disuguaglianze Diversità, nato nel 2018 da un’idea della Fondazione Lelio e Lisli Basso, e di cui fa parte anche ActionAid.
Importantissimi. Ci credo tanto. Il lavoro di network è poi una caratteristica forte del modo di agire di ActionAid. Esistono criticità – voglio partire da qui – perché nelle reti la partecipazione è riservata alle leadership professionali delle varie organizzazioni dato che il ritmo di lavoro, i luoghi dell’incontro, il livello delle competenze non sono compatibili con un impegno esclusivamente volontario. Inoltre, non posso certo portare all’interno di ciascuna riunione del ForumDD i 160mila sostenitori di ActionAid. E allora è fondamentale che siano le leadership professionali a fare un salto logico esprimendo capacità di confrontarsi sui meta-temi che riguardano tutto l’associazionismo, non per interessi particolari, quanto piuttosto valorizzando la forza dell’agire insieme anche “per conto” delle rispettive basi sociali. Portando all’interno di una rete solo le battaglie specifiche e di conseguenza, i propri interessi, si perde qualsiasi valore dall’agire in ampie alleanze civiche. Non tutte le organizzazioni di cittadini hanno questa visione di un reale lavoro per l’interesse collettivo ed alcune (o i loro rappresentanti) entrano in rete solo perché lì, magari, circolano informazioni e competenze alle quali altrimenti non avrebbero accesso, in buona sostanza per convenienza. C’è poi di peggio, cioè chi entra in un network solo per occupare spazi di potere, un potere sempre relativo, e vi partecipa senza ambizioni di trasformazione reale della società in senso redistributivo (anche di potere negoziale) con un atteggiamento quasi esclusivamente corporativo. Ma tutti questi sono “difetti di esecuzione” sui quali bisogna lavorare senza mai dimenticare che ampie coalizioni civiche sono molto più efficaci dell’azione di singole organizzazioni. Ovviamente, se si lavora con lo spirito giusto come avviene di certo nel Forum Diseguaglianze.
Anche Alleanza contro la povertà è un network ed ActionAid è anche lì.
Sì, e con i migliori propositi. Purtroppo, anche all’interno di Alleanza contro la povertà ha fatto breccia una certa narrazione sul Reddito di cittadinanza. Nessuno ha messo in dubbio l’importanza dello strumento, sia chiaro, ma è differente lo spirito di alcune organizzazioni rispetto ad altre. Ad alcuni è apparso un successo il rifinanziamento della misura, altri hanno messo in luce con più vigore l’assurdità, per esempio, del dover essere residenti in Italia da dieci anni per potervi accedere. Eppure, anche chi è residente da due anni paga le tasse, concorre alla ricchezza nazionale: un’incongruenza logica. Visioni più o meno “movimentiste” si possono conciliare e lavoriamo per questo, ma sempre cercando di mantenere un’ambizione davvero trasformativa nel mirino, perché – come si diceva – consolidare posizioni prestabilite non giova a stabilire davvero un minimo di giustizia sociale, e con essa di “qualità della democrazia”.
A mio avviso alcuni soggetti si siedono a troppi tavoli e devono quindi discutere sottovoce a un tavolo per poter alzare il volume su un altro. A questo punto si rischia di fare come gli stessi partiti le cui posizioni vengono definite attraverso la ricerca di equilibri di forza relativi, piuttosto che attraverso l’assoluta lealtà agli obiettivi. A un network civico si partecipa – è il mio modo di vedere – per spingere alla trasformazione e non per diventare a propria volta incrostazione di un sistema che fa fatica a decidere su ogni cosa. Le reti sono importanti se vedono nel confronto vitale una risorsa e nel cambiamento atteso un obiettivo da perseguire senza compromessi. Se invece la spinta è a conservare, la stessa partecipazione a un network diventa quasi una perdita di tempo. Io spesso pongo questa domanda anche ai miei stessi colleghi: siete qui per cristallizzare posizioni o per produrre conoscenza, confronto e magari fare almeno un po’ di paura alla politica della rappresentanza, che poi si assesta banalmente a seconda di chi spinge di più? Non possiamo innamorarci dei luoghi di mediazione, bisogna invece sempre spingere i confini dell’ambizione d’impatto un po’ più in là.
ActionAid porta avanti molte battaglie a mio avviso fondamentali, come quella sulla cittadinanza, che muovono oggettivamente poco consenso. Le chiedo: come ci si muove per portare avanti una vertenza sulla quale si è da soli, o quasi?
Persuasione. E la persuasione passa per la conoscenza: portando dati, dimostrando certe oggettive incongruenze, se non assurdità, come appunto il paletto dei dieci anni di residenza in Italia per gli stranieri per avere accesso al Reddito di cittadinanza. Non c’è organizzazione, network, struttura civica che possa evitare di costruire capitale cognitivo se vuole davvero provare ad avere un impatto duraturo sulle norme e sulle pratiche che qualificano la democrazia.
Conoscere però non basta perché nessuno ti viene a cercare per chiederti come la pensi… La capacità di fare lobby è dunque fondamentale altrimenti si corre il rischio di riuscire a creare coscienza pubblica che non si trasformerà mai in norma, in allocazione di risorse, e via dicendo. In questo scenario l’associazionismo civico organizzato è essenziale, direi imprescindibile perché di sola conoscenza e di sola piazza non può evolvere alcuna norma o allocazione di spesa. E poi ci vuole tanta pazienza per arrivare fino a un Consiglio comunale, a un Consiglio regionale o al Parlamento. Lì passano decine di micro-norme dettate dagli interessi di micro-minoranze ogni giorno. Perché? Perché anche piccoli specifici interessi sono portati avanti a regola d’arte con persone che sanno come funziona il processo legislativo. Ecco, sui grandi temi la società civile non può essere da meno rispetto a un’azienda “x” che fa aggiungere un comma o una cifra per il proprio interesse specifico. Sapere come fare advocacy nei momenti e nei luoghi opportuni è essenziale.
Il risultato che ruolo gioca nella capacità di mobilitazione?
Fondamentale. Il risultato dà energia a chi lo ha perseguito ed evita che si finisca con l’avvitarsi sulle proprie posizioni o, addirittura, di innamorarsi del processo politico in quanto tale. L’obiettivo deve essere sempre il risultato, altrimenti stare nei processi diventa elemento di sclerotizzazione dello status quo, a tutto svantaggio dei grandi numeri di persone escluse e marginalizzate.
Quali sono le difficoltà maggiori che vede oggi per l’affermazione di alcuni diritti di base? Potrei fare decine di esempi, preferisco non farne nessuno.
La società civile fa fatica ad alzare la voce in maniera organizzata e coesa. In generale, in Italia c’è paura ad alzare il volume. Si gioca – come dicevo – su troppi tavoli. Spesso ci si perde a fare della lobby inutile e a quel punto è meglio rinunciare perché altrimenti si finisce solo per legittimare il decisore politico che ti ignora. Penso alle ong che fanno salvataggio in mare – tema non di mia competenza, premetto –: per diverso tempo hanno partecipato a incontri e riunioni con il ministro dell’Interno. Riunioni alle quali non c’era nessuno che, dall’altra parte del tavolo, volesse davvero ascoltare. Alla fine, hanno smesso di andarci e si sono concentrate solo e soltanto sul salvataggio delle persone. E hanno fatto benissimo, in una determinata fase. Certe volte è necessario far saltare i tavoli inutili per tirare una riga che separi quanti stanno al gioco delle parti e quanti vogliono davvero i risultati.
E fuori “dai palazzi”?
Serve cambiare il senso comune. Come avete discusso sempre con Chiara Saraceno oggi il senso comune dipinge il povero come colpevole e il ricco come colui che si è meritato le sue fortune come se a queste non avesse contribuito in maniera fondamentale l’ambiente, sempre abilitante per chi ha soldi a disposizione. Il migrante? Brutto e cattivo. E via dicendo. Per poter legiferare in maniera più appropriata e con impatti stabili, le organizzazioni devono esercitarsi nella lobby, ma prima o contemporaneamente devono lavorare a modificare certe percezioni della realtà che invece i partiti rincorrono.
Molte delle vostre battaglie, però, si muovono lontano non solo dal consenso ma anche dai riflettori. Se la politica non è interessata ad agire laddove non c’è consenso perché dovrebbe esserlo laddove non c’è nemmeno un ritorno, diciamo così, di immagine? Penso al lavoro che fate nelle aree interne, nelle zone del Centro Italia colpite dal sisma.
La politica è schiava dei numeri, questo è chiaro. Dei numeri e delle maggioranze. Noi guardiamo ai luoghi e alle persone anche quando sono lontane o poche. Non c’è una ricetta per lavorare su zone come quelle del terremoto, ogni volta dobbiamo reinventarci. Operiamo ormai da anni in zone che si stanno spopolando, con le persone che non si stanno muovendo verso le città ma verso centri da diecimila, ventimila abitanti. Qui lavoriamo con amministratori locali che si prendono responsabilità assurde, pur pagati pochissimo, e con altri che invece sono dei veri e propri capibastone, dei piccoli potentati locali.
In questi anni di “ricostruzione”, dopo il terremoto dell’Aquila prima e del Centro Italia poi, abbiamo assistito a sindaci farsi la guerra per vedersi costruite due scuoline da due aule anziché una sola da quattro. Sono cose che rispondono solo al consenso del proprio micro-paese. La sfida è quindi permettere a questi piccoli centri e ai loro abitanti di acquisire una visione di sistema in cui magari una frazione ha la scuola e l’altra ha l’impianto sportivo ed entrambe hanno i trasporti pubblici che funzionano. E questo si può fare solo radunando le persone e creando degli spazi e dei luoghi per discutere. L’obiettivo è costruire e sostenere un processo democratico, ecco perché parliamo di “qualità della democrazia”: la democrazia non è un momento ma un processo, richiede tempo e tra l’altro non ci sono molti donatori che ti finanziano per questo lavoro fondamentale ma non direttamente visibile.
Soprattutto, non è il modo in cui si muove oggi la politica.
Non è così che si muovono gli amministratori pubblici. Innanzitutto, hanno poca discrezionalità e quindi sono i primi a essere imprigionati dalle regole; hanno un’età media decisamente alta e questo non si accompagna a una voglia di innovare; si concentrano spesso, guidati da politica di basso profilo, a favorire sempre la maggioranza. Noi investiamo sul processo e non sul puro momento decisionale e crediamo che così facendo chi decide avrebbe meno paura di essere criticato e sarebbe più a proprio agio nell’esercitare maggiore discrezionalità.
Alle ultime elezioni, però, con Ti candido avete puntato anche sul voto. E avete contribuito a far eleggere diversi consiglieri, e qualcuno è anche diventato assessore.
Con Ti candido abbiamo contribuito all’elezione di 16 persone. La nostra è un’operazione, come già analizzammo proprio su MicroMega, volta a testimoniare il fatto che la classe dirigente degli enti locali in Italia può essere selezionata in un modo diverso, un’operazione per mostrare che, volendo, si può fare. Il problema è che non dovremmo essere noi a farlo. Abbiamo però lanciato un messaggio. Abbiamo costruito un legame con gli eletti e, ovviamente, anche con chi non è stato eletto. E i candidati hanno costruito un legame tra di loro. Alcuni sono andati al governo, altri all’opposizione. Abbiamo però creato un “network” di amministratori locali. Ma la partita non è finita con le elezioni: abbiamo già fatto formazioni agli eletti su come funzionano i bilanci, visto che solitamente tra il momento dell’elezione e l’approvazione del bilancio preventivo passano sei mesi, mentre in questo caso sono passate appena due settimane. In primavera o comunque prima dell’estate vorremmo poi organizzare un momento di incontro, un raduno, in cui ritrovarci con tutti gli eletti e iniziare a lavorare in un’ottica di sistema che produca qualcosa di positivo oltre i 16 comuni interessati direttamente da questo sforzo.
Dove può arrivare il progetto di Ti candido?
Al momento è un seme gettato che sta germogliando. Ci siamo dati un anno di tempo per capire cosa crescerà, se riuscirà ad esempio a produrre un’aggregazione sul piano nazionale che riesca a dare rappresentanza a chi oggi non è rappresentato adeguatamente. Certo, non potrà essere il ForumDD o una delle associazioni che lo compongono a proporsi come “federatore della sinistra”, come qualcuno ci invita a fare o sospetta che abbiamo intenzione di fare. Come ActionAid non potremmo peraltro farlo rimanendo un ente del cosiddetto terzo settore e non vogliamo comunque farlo perché la nostra vocazione è nella partecipazione cosiddetta “prepolitica”, ma se capiremo di poter essere levatori o co-levatori di un nuovo percorso anche per chi intende proporsi per la rappresentanza, avremo il dovere di renderci disponibili.
Per concludere: non ha la sensazione che anche ActionAid, così come il Forum o altre realtà, stanno facendo oggi in Italia quello che in teoria dovrebbe fare un partito?
Oggi i partiti stanno raccogliendo quanto seminato. Sono pavidi, certo, ma è anche una questione di capacity, come si dice. Una volta c’era il Pc, c’era la Dc, c’erano partiti che erano produttori in primis di conoscenza e che sapevano mobilitare persone. I partiti di oggi non hanno staff in grado di farlo, per questo si limitano solo ad aggregare e mobilitare in vista delle tornate elettorali con tecniche che sono legittimamente proprie del marketing sociale e anche banalmente perché qualcuno mette sempre un microfono davanti alla bocca del leader del momento. Ma questo non contribuisce alla qualità dell’impegno politico e alla qualità della democrazia. Noi quindi non guardiamo da un’altra parte, ma guardiamo più lontano.