Discorso tenuto da Palmiro Togliatti alla Camera il 7 dicembre 1952 contro la “legge truffa” presentata dal ministro dell’Interno Scelba
Si parlava di una nuova legge elettorale, che avrebbe dovuto sostituire quella strettamente proporzionale con la quale si era votato nelle prime elezioni politiche libere della Repubblica, nel 1948. Quattro anni dopo, in vista della nuova prova elettorale dell’anno seguente, la Dc di De Gasperi, nonostante avesse trionfato nel 1948 incamerando da sola il 48,51% dei consensi, di quella legge messa alla prova una sola volta era già stanca. La voleva sostituire con una nuova legge che attribuiva automaticamente il 65% dei seggi alla Camera, pari a 380 deputati per la lista (o l’alleanza dichiarata di liste) che avesse ottenuto più del 50% dei voti. Ove nessun partito o nessuna alleanza di liste superasse quel quorum, i seggi sarebbero invece ripartiti sulla base del sistema proporzionale in vigore.
Ricevo da Raul Mordenti e ne suggerisco, con la pacatezza tipica dei comunisti che non è moderazione ma tendenza al superamento dello stato presente delle cose, la lettura come riflessione sul presente e sul rapporto fra gli eletti e gli elettori. Insomma il discorso togliattiano risponde alla domanda: qual è il ruolo del Parlamento in una democrazia parlamentare come la nostra.
Lelio La Porta
[…] La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano. […] Questo è il nostro ordinamento, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente, e che certamente è essenziale, è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo? I dibattiti dottrinali sul contenuto giuridico di questo concetto – e i colleghi che hanno frequentato le università giuridiche come studenti o che tuttora le frequentano come professori lo sanno meglio di me – sono stati infiniti. Li lascio in disparte perché ritengo giusta l’opinione che se questi dibattiti davano scarso aiuto per il progresso delle dottrine politiche, ciò derivava dal fatto che in essi si confondevano rapporti di diritto privato con rapporti di diritto pubblico. Non possono confondersi i rapporti di rappresentanza e di mandato, quali sono definiti dal codice e dalle leggi civili, con il mandato e la rappresentanza politici. Si tratta di cose diverse. Il più noto e grande dei nostri costituzionalisti moderni, dopo aver dibattuto a lungo questo problema, giunge alla conclusione, che mi sembra la sola esatta, che nel diritto pubblico non si arriva a capire le cose se non si tiene continuamente presente la storicità dei fatti e del diritto stesso.
Lo so che una volta fui aspramente rimbrottato da quella parte, perché la nostra visione del mondo sarebbe storicistica. […] Vorrei replicare, ad ogni modo, che è vero, sì, che la nostra visione del mondo è storicistica, ma che non bisogna mai dimenticare che cosa ciò vuol dire e che cosa è la storia. La storia è l’umanità nel proprio sviluppo. La storia è l’uomo, quale si afferma e realizza nelle sue relazioni e con la natura e con la società. […] Se guardiamo, allora, alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Di qui la composizione bizzarra, ma in quel momento storicamente giustificata, data l’organizzazione della società, dei parlamenti medioevali. Qualcosa di questa composizione rimane anche in alcuni ordinamenti che pretendono di presentarsi come costituzionali e rappresentativi, ma non lo sono. Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando il quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.
Tutti però, finora, sono stati d’accordo che un siffatto sistema di scelta degli organi rappresentativi non ha nulla a che fare non dico con la democrazia, ma neanche con il liberalismo. I parlamenti liberali, quando sorgono, affermano il principio della rappresentanza politica, il quale “si fonda – è ancora Vittorio Emanuele Orlando che parla – sull’ipotesi che i bisogni e i sentimenti politici dei cittadini abbiano una maniera diretta, esterna di manifestarsi”. Queste manifestazioni vengono raccolte; da esse esce la rappresentanza di tutto il paese. Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, si, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però – e la Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.
La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi oggi appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla. Quanto male, onorevole Tesauro, ci ha fatto il fascismo! Perché, veda, c’è stato chi al fascismo – e fu il re – sottomise la nazione, sacrificandogli la carta costituzionale. Vi è stato un onorevole De Gasperi che al fascismo sacrificò il proprio partito, mandandolo disperso. Vi è stato chi ha sacrificato al fascismo interessi vitali del popolo, e così via. Tutti, dunque, hanno peccato, tutti coloro che sottomisero al fascismo ciò che era degno di vivere per sé, che aveva un valore, che doveva essere difeso fino all’ultimo; ma chi ha sottomesso al fascismo il pensiero, la scienza, ha commesso il peccato più grave. Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa! La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa – dice sempre Vittorio Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un “fatto esterno e visivo”. Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo. Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. “Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori”. Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.
A questo concetto si riferiscono i grandi pubblicisti il cui pensiero, successivamente, contribuisce a far progredire tutto il sistema delle istituzioni liberali e democratiche. Ecco Cavour, per il quale “il grande problema che una legge elettorale deve risolvere si è di costituire un’assemblea che rappresenti, quanto più esattamente e sinceramente sia possibile, gli interessi veri, le opinioni e i sentimenti legittimi della nazione” 1. Potrei abbondare nelle citazioni. Desidero osservare che esse vengono anche da uomini che non furono di parte democratica avanzata o di parte liberale del tutto conseguente. Ecco il barone Sidney Sonnino, per esempio. “L’Assemblea elettiva – egli dice – dovrebbe stare alla intiera cittadinanza nella stessa relazione che una carta geografica al paese che raffigura. Come le carte si fanno in proporzione di 1 a 20 mila o di 1 a 50 mila, così la Camera dovrebbe potersi dire il ritratto fotografico della nazione, dei suoi interessi, delle sue opinioni e dei suoi sentimenti, nella proporzione del numero dei deputati al numero dei cittadini” 2. Così si arriva alla visione, insita fin dall’inizio nella concezione degli istituti rappresentativi, ma elaborata pienamente con una certa lentezza, del Parlamento come specchio della nazione. Fu un costituzionalista inglese, il Lorrimer, che per primo formulò questa idea nel titolo stesso di un suo trattato famoso che parla del Costituzionalismo del futuro o del Parlamento come specchio della nazione 3. Un filosofo inglese, Stuart Mill, sviluppando lo stesso concetto, nel suo scritto assai noto di Considerazioni sul governo rappresentativo, asseriva, con piena coscienza, che, arrivati a questo concetto, arrivati cioè a stabilire questa proporzionalità fra la rappresentanza e il paese, si giunge a dare “al governo rappresentativo un lineamento che corrisponde al suo periodo di maturità e di trionfo” 4. Ruggero Bonghi, da noi, in un articolo sulla Nuova antologia del 16 gennaio 1889, incalzava affermando che se si riesce a ottenere che una nazione si specchi “tutta com’è e quanta è nel suo Parlamento”, allora “il governo rappresentativo sarà assicurato in perpetuo”.
Dal Parlamento liberale, per quale ancora poteva prevalere il vecchio principio del diritto pubblico romano, valido per le decisioni ma non per la rappresentanza, che volontà della maggioranza è volontà di tutti, si giunge così, non per ciò che si riferisce al diritto di decisione, che sempre è della maggioranza, ma per ciò che si riferisce alle basi dell’istituto rappresentativo, ad asserire il grande principio nuovo. E veramente qui si apre un nuovo periodo storico: passiamo dall’epoca liberale all’epoca democratica, dai parlamenti liberali passiamo ai parlamenti e agli ordinamenti democratici. La natura di questo passaggio è chiara, sia nella scienza che nello sviluppo storico. Occorre dire che i costituzionalisti non erano partiti, nella loro indagine, dalla ricerca di un principio nuovo. Erano partiti, piuttosto, da una ricerca di equità. Il Guizot, che esprime questa ricerca di equità nel modo più chiaro, lo asserisce: “Se la maggioranza è spostata per artificio, vi è menzogna; se la minoranza è preliminarmente fuori combattimento, vi è oppressione. Nell’un caso e nell’altro, il governo rappresentativo è corrotto” 5. Partiti dalla ricerca dell’equità non si poteva però non arrivare alla elaborazione di tutta una nuova concezione politica. Lo sviluppo storico seguiva, d’altra parte, lo sviluppo del pensiero, che lo accompagnava e rischiarava. È uno sviluppo storico che comprende tutto il secolo XIX e nel quale gli anni decisivi furono il 1848 e il 1871. Il 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato. Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie.
La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.
Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme […]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.
Quali sono, ora, le conseguenze che debbono derivare da questa nozione dell’ordinamento costituzionale rappresentativo? Prima conseguenza è l’uguaglianza del voto, che la nostra Costituzione solennemente stabilisce, e l’uguaglianza del voto non può ridursi al fatto che tutte le schede siano eguali, messe nell’urna con lo stesso gesto della mano. Non si tratta di questo. L’uguaglianza deve essere nell’effetto che ha il voto per la composizione dell’assemblea come specchio della nazione. Se non vi è questa uguaglianza, cioè l’uguaglianza negli effetti, non vi è più sistema rappresentativo, vi è un’altra cosa, si ritorna addietro. Di qui deriva, poi, la funzione politica del Parlamento. Soltanto quando il Parlamento sia organizzato come specchio della nazione, in modo oggettivamente rappresentativo, esso può diventare e diventa quel centro di elaborazione della vita e dell’indirizzo politico della nazione, che esclude o dovrebbe escludere le sopraffazioni, gli scontri violenti, gli urti sanguinosi, le rivoluzioni. Anche in questa concezione del parlamentarismo vi è fra i politici una unanimità che va da Turati ad Amendola, dai vecchi rappresentanti del partito popolare ai liberali più in vista del secolo scorso e del secolo attuale. Secondo la legge attuale, la fisionomia del Parlamento diventa un’altra, diventa quella che Giovanni Amendola (e mi riferisco a lui perché la sua formulazione è particolarmente evidente) prevedeva respingendo la legge Acerbo. “Non esiste, disse, una maggioranza precostituita. Il paese è costituito da tante forze, di tante unità morali quanti sono i partiti, i gruppi, le tendenze. Ognuna di queste forze, ognuna di queste unità non può da sola avere la maggioranza. Ma esiste la possibilità della costituzione di un edificio più complesso, nel quale le singole volontà, le singole idealità entrino, non già per sovrapporsi meccanicamente e per determinare una coalizione morta, ma per essere un elemento necessario alla vita e all’unità del governo, capace di manifestarsi in un’azione governativa”. Ecco la visione delle funzioni dell’istituto parlamentare che corrisponde alla esatta concezione dell’assemblea rappresentativa e del modo come essa deve corrispondere alla struttura del paese […].
Vi è poi un ultimo richiamo che pur occorre fare […]. La nostra Costituzione è una delle poche che […] introduce nel quadro costituzionale il partito politico e gli attribuisce determinati diritti in rapporto con determinati doveri. Al partito politico è attribuito il diritto di partecipare a determinare la politica nazionale con metodo democratico. E’ evidente che il metodo democratico esclude l’anatema […] contro un partito, qualunque esso sia, a meno che non sia il ricostituito partito fascista, e che è la sola esplicita eccezione. Tutti i partiti politici hanno dunque questo diritto, e hanno la facoltà di esercitarlo in modo eguale. Essi debbono partecipare in modo eguale a determinare la politica nazionale. Quando però voi abbiate messo un gruppo di partiti nelle condizioni in cui li vorrebbe mettere la legge Scelba (e in questo momento prescindo dalla qualificazione di questi partiti, siano essi di sinistra, di destra o di centro), partecipano essi ancora, con metodo democratico e con eguaglianza di diritti, alla determinazione della politica nazionale? No, una parte dovranno diventare partiti propagandisti, potranno usare della tribuna parlamentare come mezzo di propaganda; ma il principio nuovo che tutti i partiti partecipano a determinare la politica nazionale scompare, è cancellato. La Costituzione è violata, la Costituzione è messa sotto i piedi […]. In conseguenza di tutto questo e assieme con tutto questo (e forse non se ne sarebbero accorti tutti, se non fosse intervenuto l’estensore della relazione di maggioranza a particolarmente e imprudentemente sottolinearlo) da questa legge si modificano i rapporti che passano tra la base dello Stato, che è il popolo, nel quale risiede la sovranità, e il governo, attraverso le assemblee rappresentative. Il carattere stesso del governo qui viene cambiato.
Che cosa è il governo? È la espressione della maggioranza. Chi designa il governo, chi registra la maggioranza? Il Parlamento. Dove si forma la maggioranza? Nel Parlamento. Anche questa è una nozione elementare. Soltanto in questo caso un ordinamento costituzionale è parlamentare. Ricordatevi le discussioni che avemmo alla Costituente, quando si trattò di scegliere tra un regime parlamentare e un regime non parlamentare. A grande maggioranza e senza esitazione scegliemmo un regime parlamentare, cioè volemmo un ordinamento costituzionale nel quale la maggioranza e quindi il governo e la designazione di esso uscissero dalle assemblee rappresentative, che debbono essere a loro volta lo specchio della nazione. Con questa legge Scelba le cose cambiano, e cambiano radicalmente, come del resto cambiavano già con la legge Acerbo. Anche qui, onorevole Tesauro, i fatti si corrispondono…
TESAURO (relatore per la maggioranza): non è esatto!
TOGLIATTI: attenda, e mi scusi se faccio qualche volta il suo nome. Veda, quando tra i presenti a un’assemblea si muove uno spettro, è inevitabile che quello spettro attiri l’attenzione e ad esso ci si rivolga. Onorevole Tesauro, lei qui è lo spettro del regime fascista […]. Giovanni Amendola, nel suo così profondo discorso sulla legge Acerbo, già aveva rilevato il punto cui in questo momento mi voglio riferire, e la cosa era evidente: “Con la legge in discussione, diceva, noi trapiantiamo nel campo elettorale il problema più propriamente politico, cioè quello della costituzione della maggioranza. Si richiede al paese direttamente di designare la maggioranza, di investirla della facoltà di governare. Noi arriviamo, attraverso queste formule dissimulate, le quali tuttavia non possono nascondere la sostanza, al governo plebiscitario”. L’estensore della relazione di maggioranza non poteva confermar questo, a proposito della legge Scelba, in modo più chiaro, e forse non si è nemmeno accorto di dire enormità quando è giunto a scrivere che “la singolarità del sistema proposto non sta, di conseguenza, nell’introdurre il principio del potere conferito alla maggioranza, principio già accolto dal nostro come da altri ordinamenti democratici, ma nel determinare che la maggioranza, alla quale spetta il potere, non è quella voluta dagli eletti al Parlamento, ma quella che al Parlamento è indicata dallo stesso corpo elettorale”.
Qui usciamo dall’ordinamento parlamentare, qui siamo in regime plebiscitario, qui si modifica e perfino si confessa di modificare un altro dei lineamenti fondamentali del nostro ordinamento costituzionale. A questo punto mi si permetterà di inserire un’osservazione relativa al tema politico di fondo. L’argomento con il quale tutto si volle giustificare al tempo della legge Acerbo, e tutto si cerca di giustificare anche ora, è che sia necessario fare queste violazioni della Costituzione per creare una possibilità di buon funzionamento delle Assemblee. È evidente che le Assemblee debbono funzionare, chi lo nega? Le Assemblee non possono funzionare se non vi è una maggioranza, perché solo da una maggioranza sorge un governo, anzi da una maggioranza sorge anche il potere supremo del Presidente della Repubblica, per cui voi, proponendo questa legge, tendete a modificare anche la figura del Presidente. Ripeto, nessuno nega che vi debba essere una maggioranza e che si debba governare fondandosi sopra una maggioranza. Però, come si risolve questo problema? In regime parlamentare questo problema si risolve nell’Assemblea parlamentare, attraverso la capacità politica di colui il quale governa.
Voi avete avuto nel 1948, il 18 aprile, la maggioranza per il Parlamento. La vostra maggioranza, anzi, è stata nel Parlamento leggermente superiore a quella che avevate nel paese. Non ne facciamo questione, perché ciò derivava da imperfezioni che sono di tutti i sistemi elettorali rappresentativi. Il nostro sistema elettorale non era però allora preordinato per costituire una maggioranza e per far eleggere dal paese il governo. Comunque: avete avuto il governo e avete governato. Bene o male? È problema politico. Oggi avete ancora quella maggioranza? Se l’avete ancora, a che scopo una legge come questa, che sovverte l’ordinamento costituzionale dello Stato? Prendetevi un’altra volta la maggioranza, se affermate di averla, e cercate di governare meglio di quanto non abbiate governato finora, mi auguro io, nell’interesse dei lavoratori italiani e di tutta l’Italia. Se non avere più quella maggioranza, ciò nondimeno continuate a essere una forza notevole nel paese, come nessuno nega nel momento attuale. Accettate di essere nell’Assemblea quello che siete nel paese in realtà. Allora, quando il Parlamento sarà specchio reale di quello che è il paese, proprio allora dovrà manifestarsi la vostra capacità politica, si vedrà cioè se abbiate o non abbiate quel tanto di capacità e di onestà, per cui dovete tener conto dell’esistenza e della forza di determinate minoranze, tener conto che esse rappresentano un bisogno, un interesse, un programma, una spinta ideale non trascurabili e non sopprimibili. Voi questo problema lo volete scartare. Forse perché sia in voi la coscienza di non avere uomini atti a risolverlo? Può darsi. Non nego che sia nei vostri dirigenti questa coscienza. Ma l’ordinamento costituzionale è quello che è. E’ rappresentativo, non plebiscitario. Non potete spingerci addietro, a un regime plebiscitario, dal quale uscirebbe non più un ordinamento democratico, ma, per il primo istante, uscirebbe un regime oligarchico. Oligarchia infatti è quell’ordinamento, nel quale è precostituito il gruppo che deve governare; e voi l’avete precostituito, servendovi dei mezzi a disposizione del potere esecutivo, e che non voglio più né definire né qualificare […].