Capitale disumano. All’aspirazione a trasformare gli studenti in performer del mercato del lavoro va contrapposto il diritto all’esistenza che si sostanzia anche in un reddito di base a partire dalla scuola e, ovviamente, dopo la scuola
di Roberto Ciccarelli – “il manifesto” del 23 gennaio 2022
Dopo l’apertura delle indagini per omicidio colposo dello studente stagista diciottenne in alternanza scuola lavoro, morto travolto da una putrella nello stabilimento della Burimec di Lauzacco in provincia di Udine, non è sufficiente chiedere la ragionevole abelliolizione dell’alternanza scuola lavoro.
Bisogna proporre un’alternativa che può essere ispirata a una potente idea di Antonio Gramsci. Nei Quaderni del carcere possiamo trovare una critica alla scuola di classe e a quella imprenditoriale.
Gramsci parla di una «scuola unitaria» in senso largo, capace cioè di elevare le studentesse e gli studenti alla «creazione intellettuale e pratica e di autonomia nell’orientamento e nell’iniziativa».
Lo studio è «un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso».
In quanto lavoro, questa idea di studio intreccia la teoria con la pratica, indipendentemente dall’identità sociale «borghese» e «operaia» dello studente, cioè in maniera ugualitaria.
Questa «unitarietà» è solo fittizia nell’alternanza scuola-lavoro, ribattezzata ipocritamente con un acronimo che suona come uno sputo: P.c.t.o, cioè «Percorsi per competenze trasversali e l’orientamento». In questo caso l’istruzione è ridotta a un’agenzia di formazione interinale, un sistema che riproduce il realismo capitalista.
È la scuola del capitale disumano che rovescia la forza lavoro nel suo opposto: il capitale. Questa logica va rovesciata a sua volta. Per farlo ci sarebbe bisogno di una politica ispirata a un’altra «scuola unitaria», gramscianamente intesa, centrata su questa idea: ciò che accomuna gli studenti è la facoltà che crea l’uso di tutto i valori del mondo, quella della forza lavoro, comune a tutti, indipendentemente dal ruolo, dalla nazionalità e dalle appartenenze.
Tale facoltà può essere affermata al di là della divisione sociale del lavoro e quella tecnica della produzione, contro e non in funzione dello sfruttamento attuale o futuro dell’essere umano in quanto «manodopera».
Se l’alternanza scuola-lavoro riduce la forza lavoro a mera capacità di lavoro, l’altra scuola possibile afferma la forza lavoro in quanto libera facoltà cooperativa che rende capaci i suoi soggetti di maturare e difendere la propria autonomia di esseri umani. Non solo dunque l’obbligo a partecipare all’alternanza scuola-lavoro va cancellato come si è tornati a chiedere, dopo anni, in queste ore.
Va cambiata la logica imposta dal Pd di Renzi che l’ha creata ed è stata confermata anche dal governo Draghi, una logica comune a tutte le riforme del lavoro, delle pensioni o del Workfare (il «reddito di cittadinanza» che tale non è). A chi aspira a trasformare gli studenti in performer del mercato del lavoro va contrapposto il diritto all’esistenza che si sostanzia anche in un reddito di base a partire dalla scuola e, ovviamente, dopo la scuola.
Una trasformazione dello studio e del lavoro di questo genere renderebbe evidente che la condizione dello studente non è separata da quella della forza lavoro in potenza e indurrebbe a prospettare un’esperienza di formazione, qualora fosse scelta su base volontaria, liberandola dall’addestramento allo sfruttamento e dall’idea di essere occupabili, facendosi concavi e convessi rispetto all’impresa. La scuola potrebbe invece essere libera di insegnare a diventare liberi e a resistere sul lavoro e nella società a partire da una capacità critica. Che si lavori, o meno, l’autonomia è un valore in sé, e va riconosciuta indipendentemente che si faccia o meno un tirocinio o si possieda un contratto, ma perché si studia, si pensa, si vive.