intervista di Nataša Šušteršič a Eric Gobetti su “Patria Indipendente”
“Possibile solo sulla base della realtà dei fatti e dell’ammissione delle colpe” perché “non fu pulizia etnica né genocidio ma una sorta di resa dei conti come avvenne contemporaneamente in tutta l’Europa liberata, e la Jugoslavia non dimenticò i 10.000 caduti italiani nella loro Resistenza”
Pubblichiamo in anteprima un estratto dell’intervista a Eric Gobetti realizzata da Nataša Šušteršič come prefazione della versione slovena del libro “E allora le foibe?” (Laterza, 2021), che verrà pubblicato in Slovenia dalla casa editrice Sophia nel febbraio 2022 come edizione speciale della rivista “Borec”
Guardando globalmente a ciò che è accaduto nella Venezia Giulia tra le due guerre mondiali, il cosiddetto fascismo di confine e il genocidio culturale contro le minoranze slovena e croata perché ha poco spazio all’inizio del suo lavoro?
Il libro è incentrato sulle foibe, sull’esodo e sul loro uso politico. Sono vicende che si svolgono durante e alla fine della seconda guerra mondiale, e vengono spesso raccontate facendo cominciare la storia dal 1943, come se tutto ciò che è accaduto prima non contasse. Si tratta di un uso strumentale della storia. Per comprendere quelle vicende (come per qualunque altro evento storico) è necessaria una contestualizzazione storica e geografica. Qualcuno fa partire questa storia da epoche molto antiche, dall’Impero romano, da un ipotetico “scontro di civiltà” fra italiani e slavi risalente alla Repubblica di Venezia, o dal presunto appoggio dato dall’imperatore Francesco Giuseppe alla causa slava. Io credo che il 1918 rappresenti una svolta epocale: la fine di un governo superpartes, che incentivava la convivenza fra popoli e culture differenti, e il passaggio di quei territori multietnici a uno stato-nazione come l’Italia. Quindi ho scelto di partire da qui, da questo momento storico, per comprendere lo stato di tensione e di violenza già esistente in quelle terre da molto prima del 1943. Il fascismo di confine e l’oppressione dello Stato italiano contro le popolazioni jugoslave nei vent’anni precedenti sono dunque fondamentali per comprendere ciò che avviene dopo. Ma poi si sviluppano altre dinamiche, e le foibe del 1943 non possono essere considerate semplicemente la conseguenza diretta dei crimini commessi dal fascismo tra il 1920 e la seconda guerra mondiale.
Lei scrive che nel vostro Paese il fascismo viene spesso assimilato all’italianità in generale e si attribuisce tutta la responsabilità delle foibe agli sloveni o ai croati, rappresentati globalmente come “barbari” e comunisti. Tale visione è, ovviamente, razzista e reazionaria, ma è al centro dell’attuale interpretazione mainstream delle foibe in Italia. Come è possibile?
Nel 2004, quando è stata approvata la legge che istituisce il Giorno del Ricordo, non c’era la volontà di provocare dissapori con Slovenia e Croazia. L’obiettivo politico era la condanna del comunismo e dei suoi “crimini”, ma sono stati i “barbari” partigiani jugoslavi a essere rappresentati in maniera grottescamente razzista nei film e nelle celebrazioni pubbliche di questa vicenda. E questo ha provocato comprensibili reazioni in Slovenia e Croazia. Negli anni successivi, diversi presidenti della Repubblica italiana si sono adoperati per ricucire i rapporti con i loro omologhi sloveni e croati, fino all’incontro del luglio del 2020 a Trieste tra Mattarella e Pahor. Questa visione “razzista e reazionaria” è resa possibile dalla permanenza di una percezione autoassolutoria degli anni del fascismo. L’immagine degli “italiani brava gente” e di un regime che “ha fatto anche cose buone” sono ancora prevalenti nell’opinione pubblica.
È davvero così diffusa la convinzione che l’Italia abbia perso una parte del “suo” territorio alla fine della Seconda guerra mondiale o lo è solo di una parte politica, cioè della destra?
La destra italiana si avvantaggia di un contesto globale di paura (globalizzazione, migrazioni transcontinentali, crisi economica…), ma anche di una condizione particolare del nostro Paese. L’Italia non ha mai fatto i conti con il suo passato coloniale, imperialista e fascista, non ne ha mai preso seriamente le distanze, non ha mai condannato apertamente i crimini commessi. È un fenomeno di lunga durata: i criminali fascisti non sono stati puniti nel dopoguerra; il fascismo è stato sminuito nei mass media e nei manuali scolastici nei decenni successivi; gli ex fascisti hanno continuato a fare politica, arrivando al governo con Berlusconi nel 1994. Così la propaganda nazionalista e fascista continua a essere predominante nel nostro Paese, per esempio sul tema del confine orientale. Si continua a sostenere che con la fine della guerra l’Italia abbia perso ingiustamente i suoi territori, si ignorano i crimini commessi in quelle terre dal fascismo nei vent’anni precedenti; addirittura si tace l’invasione della Jugoslavia da parte dell’Italia nel 1941, come accade nella maggior parte dei manuali scolastici. Fino a qualche decennio fa c’erano ragioni di realpolitik, ma oggi sarebbe necessario liberarci finalmente di quel passato oscuro, le nostre istituzioni democratiche dovrebbero finalmente riconoscere i crimini commessi dal fascismo (spesso in nome dell’italianità), ad esempio in Jugoslavia. È ciò che ho chiesto, insieme ad altri 134 storici sloveni, italiani e croati, inviando il 6 aprile 2021 una petizione alle principali autorità italiane. Purtroppo finora non abbiamo avuto risposta.
In Italia ci sono ancora molte strade intitolate alle partigiane e ai partigiani caduti, oltre che ai comunisti. Ciò significa che la storiografia è continua a essere in gran parte antifascista e il neofascismo rappresenta una sorta di reazione antielitarista dei ceti più poveri?
Sulla toponomastica si sta combattendo una vera e propria battaglia della memoria. Certo, esiste ancora una toponomastica dedicata alla Resistenza, ma le nuove intitolazioni vanno frequentemente in direzione neofascista o neonazionalista e i tentativi opposti sono stati spesso fallimentari. Per esempio, sono sempre di più le vie intitolate ai “martiri delle foibe” o a qualche fascista ucciso dai partigiani o morto in battaglia. A Torino, come in molte altre città, esiste una via dedicata all’isola di Arbe, ma senza alcuna indicazione relativa all’esistenza del campo di concentramento. Qualche anno fa la mia richiesta di intitolare in quelle vicinanze un giardino alle “vittime del campo di concentramento di Arbe” non ha avuto successo. Nel frattempo sono stati dedicati quasi 200 luoghi della memoria in tutta Italia a Norma Cossetto, una giovane donna uccisa nel 1943, in Istria, perché ritenuta fascista.
Uno dei punti più importanti del suo libro descrive lo slittamento del termine “pulizia etnica” dal contesto delle guerre balcaniche degli anni Novanta del 900 a quello delle foibe; inoltre rappresentate come qualcosa di barbaro, selvaggio, slavo e, dunque, sanguinario per natura. Seppure il tema è stato strumentalizzato dai neofascisti, spesso è anche accettato dalla maggioranza, che pure non si può definire fascista. E a una tale maggioranza si rivolge il suo testo: Perché?
Il concetto di pulizia etnica è inesatto storicamente, ma è inoltre connotato in senso razzista e anche come tale va respinto. Le violente contrapposizioni identitarie che esistono o sono esistite nell’Europa occidentale (penso all’Irlanda del Nord, alla Catalogna o ai Paesi Baschi) non vengono mai definite “etniche”, termine evidentemente dispregiativo che va bene per popoli inferiori: serbi e croati sono “etnie”; mentre catalani e baschi, irlandesi e inglesi sono “popoli”, “nazioni”. Ecco, qui stanno simbolicamente tutte le contraddizioni del racconto di questa storia in Italia: un episodio di violenza politica e militare nel contesto della seconda guerra mondiale diventa una “pulizia etnica” con connotati particolarmente sanguinari solo perché commesso da slavi, cioè da popoli inferiori, ovvero da “etnie”. Quello che vorrei comunicare alla “maggioranza”, ai politici non fascisti del nostro Paese, è che usare termini storicamente corretti e non razzisti è il primo indispensabile passo per non strumentalizzare in senso pericoloso e potenzialmente aggressivo una qualunque vicenda storica.
Le opinioni mainstream sulle foibe, secondo cui esse furono un genocidio, non sono solo revisioniste, ma sono anche poco convincenti. Lei scrive che nelle foibe non ci sono molte donne o bambini, ma la quota di gran lunga maggiore è probabilmente composta da collaboratori e soldati fascisti, quindi non civili. È così?
Dipende dal periodo preso in considerazione. Nel 1943, quando le vittime sono alcune centinaia, i militari sono una minoranza. In questo caso si scatena la rabbia della popolazione croata che vuole vendicare i soprusi subiti in precedenza, colpendo soprattutto funzionari pubblici. Nel 1945 la situazione è diversa: le vittime sono di più, in uno spazio più ampio e identificate in gran parte dalle autorità jugoslave e non dalla popolazione. In quel contesto non si opera per vendetta, ma per ragioni politiche e militari, punendo i collaborazionisti ed eliminando i possibili oppositori politici. Le vittime, dunque, sono soprattutto militari che hanno combattuto fino all’ultimo coi nazisti, o funzionari statali che hanno collaborato con essi. In entrambe le fasi, in ogni caso, la quota di donne è minima (solo alcune spie o vittime di specifiche ritorsioni) e i bambini non figurano tra le vittime. Tutto ciò dimostra, in breve, perché è impossibile parlare di pulizia etnica e tantomeno di genocidio. Lo scontro sul confine orientale fra 1943 e 1945 ha soprattutto caratteri ideologici, militari, socio-politici e nazionali solo come conseguenza. L’identificazione tra fascismo e italianità era stata voluta e imposta dal regime nei decenni precedenti, per cui è chiaro che le vittime dei partigiani sono in grandissima parte persone che si considerano e si rappresentano come italiane. Ma non vengono uccise “solo perché italiane”, come invece viene ripetuto in maniera ossessiva da chi vuole equiparare questi eventi alla Shoah, con un intento di fatto “riduzionista” nei confronti dei crimini razziali nazisti.
Nel libro si sostiene come “questo fenomeno, che è una sorta di resa dei conti col passato regime, avviene contestualmente in tutta l’Europa liberata”. Dunque quando la destra o l’estrema destra parlano di “riconciliazione” lo fanno solo per giustificare il fascismo o la collaborazione e di conseguenza favorirne un qualche ritorno al potere? In altre parole, la riconciliazione è il cavallo di Troia della destra o è un obiettivo a cui dovrebbe tendere anche la sinistra?
Un processo di riconciliazione delle divisioni della seconda guerra mondiale non è solo utile, ma anche necessario dopo 80 anni. Credo però che dovrebbe avere caratteristiche transnazionali e non solo nazionali, ovvero riconciliare avversari politici all’interno degli Stati, ma anche gli Stati e i popoli fra loro. I processi di riconciliazione sulla base delle appartenenze nazionali sono pericolosi perché finiscono per giustificare ogni cosa in nome della nazione e mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, colpevoli e innocenti, e quindi fascisti e antifascisti, collaborazionisti e partigiani, o gente comune non schierata: in fondo erano tutti italiani, o sloveni, o croati… Così non funziona, ci sono delle responsabilità che vanno identificate, come è stato fatto ad esempio con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica: si può perdonare, ma sulla base della realtà storica e dell’ammissione delle colpe. Una “memoria condivisa” fra chi ha condotto le violenze e chi le ha subite è impossibile. È possibile però provare a riconoscere le rispettive sofferenze, prima di tutto umanamente. Da un punto di vista politico si possono riconoscere torti e ragioni degli schieramenti che si sono combattuti, ma sulla base di valori che dovrebbero essere accettati da tutti i soggetti coinvolti in questo processo, ovvero i valori della democrazia e dell’antifascismo. La condanna del fascismo (che ha scatenato la violenza in tutta Europa e ha condotto brutali guerre di invasione) deve essere la condizione di partenza per il dialogo di riconciliazione. E questo non sta accadendo da nessuna parte in Europa. Si pretende una condanna del comunismo da parte delle sinistre, ma non la condanna del fascismo da parte delle destre. Questa non è una riconciliazione accettabile democraticamente. Non è nemmeno una riconciliazione, in effetti: ciò che cercano di fare è semplicemente far riconoscere alla Repubblica Italiana che il regime fascista è stato giusto, buono e patriottico, che ha difeso i confini e il Paese dal comunismo, unico vero colpevole della Storia. È un imbroglio retorico di matrice ideologica che purtroppo anche molti politici democratici faticano a identificare come tale. Peraltro oggi i neofascisti governano molte regioni d’Italia e non è escluso che possano governare l’intero Paese dopo le prossime elezioni.
Lei rammenta che c’erano meno liquidazioni lungo il confine con l’Italia che altrove in Jugoslavia a causa delle preoccupazioni diplomatiche circa il destino di quest’area e in particolare di Trieste e Gorizia. È questa l’unica motivazione?
A mio avviso è il motivo principale. Poi va detto anche che era molto diffusa una percezione positiva degli italiani, considerati “nemici di serie B” rispetto ai tedeschi ma anche ai collaborazionisti interni, più pericolosi in una prospettiva di lungo periodo. La partecipazione di decine di migliaia di italiani alla Resistenza jugoslava ha certamente contribuito al migliore trattamento riservato agli italiani residenti nei territori di confine, e questo è un altro elemento che si dimentica. Credo sarebbe assolutamente necessario che lo Stato italiano celebrasse degnamente i circa 10.000 caduti italiani nella Resistenza jugoslava: sono il doppio delle vittime delle foibe e sono morti combattendo contro il nazismo, non a favore, come purtroppo molte delle vittime della resa dei conti, oggi omaggiate dall’Italia.
Molti programmi televisivi, anche della Rai, offrono la vulgata di foibe ed esodo che lei descrive nel suo libro e la visione nazionalista-populista di destra è spesso condivisa anche dai moderati. Crede che questo sia un modo, per l’Italia, di normalizzare il fascismo?
Molti programmi televisivi anche non ideologicamente orientati seguono l’impostazione che definirei neo-nazionalista. Questo approccio, che non mostra le precedenti responsabilità del fascismo, finisce per rappresentare i fascisti come vittime e quindi anche le vittime come fasciste. Con ciò si dimentica però che tutti i drammi del confine orientale provengono proprio dalla violenza innescata dal regime fascista e dal suo fallimento, con la sconfitta in guerra. Invece l’approccio di cui lei parla finisce per equiparare fascismo e antifascismo, ossia solo due modi diversi di difendere l’italianità: i fascisti lottavano contro i comunisti stranieri (jugoslavi) e gli antifascisti contro i nazisti stranieri (tedeschi). Una ricostruzione inaccettabile storicamente, ma soprattutto pericolosa politicamente, perché giustifica il fascismo e lo mostra come del tutto innocente, anzi vittima. Credo che sia il frutto di un tentativo politico di pacificazione, forse animato da buone intenzioni, che però si è rivelato problematico, e oggi se ne vedono i frutti.
Lei racconta la storia di un fascista dichiarato costretto a rimanere in Jugoslavia che poi si è costruito una carriera come giornalista. Ha scritto anche che gli italiani rimasti hanno vissuto “come minoranza riconosciuta in un Paese multietnico quale è la Jugoslavia di Tito”. Ma questo fatto è noto oggi in Italia o si parla solo dell’esodo?
Credo che sia quasi del tutto ignoto. La percezione più diffusa è che gli italiani siano andati via tutti e chi è rimasto sia stato ucciso, secondo il modello appunto della pulizia etnica. Ovviamente la storia che racconto è una singola testimonianza: non dimostra che tutti gli italiani siano rimasti o che abbiano tutti vissuto senza problemi, ma ci ricorda anche che molti dei rimasti hanno avuto gli stessi diritti degli altri popoli jugoslavi.
Nel libro si parla dell’esplosione delle mine del 18 agosto 1946 a Pola come di una “strage” tipica delle violenze contro gli italiani. Lei esclude la possibilità di un incidente?
Sulla strage di Vergarolla esistono ricerche recenti che escludono del tutto l’ipotesi dell’incidente. Sulle reali responsabilità però è tuttora impossibile avere certezze. Era un momento di fortissima tensione, in cui a Parigi si stavano trattando i nuovi confini: chi aveva interesse ad alzare il livello della tensione? L’ipotesi della “pista” jugoslava è valida più che altro all’interno del paradigma che vede le autorità comuniste impegnate a espellere gli italiani in quanto tali, cosa che però non è confermata da altre fonti. Sembra più credibile il tentativo dei più accesi nazionalisti italiani di mostrare la “cattiveria” jugoslava e fare così pressioni sulla conferenza di pace di Parigi per il mantenimento di Pola all’Italia. Teniamo presente che questi sono individui senza scrupoli, ex fascisti abituati a ogni tipo di violenze e in seguito reclutati da strutture paramilitari segrete anticomuniste come Stay Behind e Gladio, coinvolte in episodi di omicidi e stragi in tutto il dopoguerra. Insomma, entrambe le ipotesi sono valide; la seconda mi pare più logica nel contesto storico precedente e successivo ai fatti, anche se purtroppo non ci sono le fonti per avere certezza.
Scrive che gli italiani “si sentono improvvisamente stranieri a casa propria. Se decidono di restare, sono costretti a imparare una nuova lingua, nuove leggi, una nuova socialità”, e poco dopo descrive il sentimento provato dagli esuli da Pola all’epoca come una “psicosi collettiva”, che ha portato alla fuga del 90% dei cittadini. Parla anche della ricollocazione degli esuli in zone miste di confine, che sembra un ritorno alla politica di snazionalizzazione fascista. Un processo simile è accaduto agli italiani in Jugoslavia dopo il 1945?
Il concetto di “psicosi collettiva” (che ha suscitato numerose critiche in Italia) è usato dalla maggioranza degli studiosi proprio per definire quel circolo vizioso, quel meccanismo “a valanga”, che porta sempre più italiani a scegliere di andarsene. Non è affatto denigratorio, non vuole far sembrare gli esuli dei “matti” che lasciano un paradiso, ma descrive semplicemente i meccanismi psicologici che si mettono in atto in contesti del genere. A conti fatti, ho la sensazione che io stesso avrei preferito andarmene, considerati i pro e i contro, le prospettive possibili in Jugoslavia e in Italia nel 1947. Per quanto riguarda i meccanismi di “sostituzione etnica”, questi vengono messi in atto in tutti i Paesi dove ci sono grandi spostamenti di popolazione alla fine delle guerre. Ci sono ragioni politiche, come assicurare i confini con popolazioni ritenute più affidabili; ma anche ragioni pratiche, di tipo economico e sociale. Pola resta letteralmente vuota nel 1947: c’è bisogno di gente che la abiti e in particolare di operai che facciano funzionare i cantieri navali. Alcuni arrivano dall’Italia (i famosi operai comunisti provenienti da Monfalcone), ma molti arrivano da altre parti della Jugoslavia, dove magari non hanno casa né lavoro. È logico, anche se può sembrare brutale.
Lei cita l’enorme numero di tedeschi e italiani che ha dovuto lasciare i territori precedentemente occupati da Germania e Italia, e parla di violenza contro i tedeschi. Qui tratta tutti i rifugiati come civili innocenti. Ma è d’accordo con la valutazione secondo cui molti di loro erano sostenitori del nazismo o del fascismo?
Su questo non ci sono dubbi. Però bisognerebbe intendersi su cosa voleva dire essere fascisti all’epoca. Oggi in Italia si tende a semplificare brutalmente le cose, rappresentando tutti gli italiani come fascisti, fino al 1943, e quindi di fatto parificando le scelte di campo compiute fino ad allora. Ma questa rappresentazione, che ricalca la stessa propaganda fascista, è vera solo in parte. In un regime totalitario come quello fascista il conformismo è la migliore strategia di sopravvivenza. Eppure nonostante la propaganda e la repressione c’erano migliaia di antifascisti condannati al carcere e al confino e centinaia di migliaia di critici, dubbiosi, oppositori silenziosi. Molti erano anche nell’esercito, ma non hanno trovato la forza né il modo di ribellarsi fino all’8 settembre 1943 e alcuni nemmeno dopo, perché caduti prigionieri o impossibilitati a scegliere. Distinguere quindi i “veri” fascisti dagli altri è oggettivamente difficile, ma anche non così utile. La categoria morale di “innocente” è comunque complicata da usare in un’analisi storica. Le responsabilità sono sempre individuali, non collettive. Certamente fra gli esuli e fra le vittime delle foibe c’erano alcuni “colpevoli”, chi aveva approfittato del suo ruolo di potere (armato o meno) per commettere reati (ad esempio furti) o veri e propri crimini di guerra (stragi, fucilazioni sommarie, torture…). Ma considerare tutti globalmente colpevoli di aver sostenuto il fascismo significa adottare un principio di colpevolezza collettiva che ritengo inaccettabile oggi.
Lei scrive: “La tragedia della fine della guerra sul confine orientale è stata a lungo ignorata dalle politiche della memoria ufficiali”. La destra, come lei ha detto, non sfruttava i profughi dell’Est per regolare i conti con gli oppositori politici?
La destra neofascista ha sempre utilizzato politicamente questa vicenda, in particolare contro i comunisti italiani. Ma le istituzioni democratiche e anticomuniste che hanno governato l’Italia per tutto il dopoguerra non avevano interesse a farlo, essenzialmente per ragioni di politica internazionale legate alla guerra fredda. Paradossalmente il peggior nemico della Jugoslavia di Tito, dopo la rottura con Stalin del 1948, era il Pci, che però non si è appropriato politicamente di questa storia per ragioni di politica interna. Così la memoria degli esuli è rimasta “ostaggio” dei neofascisti, e lo è anche oggi. Gli eredi del Partito comunista italiano hanno preso le distanze dal totalitarismo comunista anche se non ne avevano nessuna responsabilità diretta; anzi, in Italia il Pci aveva sempre promosso istanze progressiste e democratiche. Gli eredi del fascismo non hanno invece mai condannato quel regime e i suoi elementi fondanti: hanno continuato a fare politica e addirittura a governare ispirandosi a quel passato e sulla base di quegli stessi valori. Il problema mi pare tutto qui: la riconciliazione nazionale deve partire dal riconoscimento della rispettiva “umanità”, dalle diverse esperienze di sofferenza patite, ma non può prescindere dalla condanna di alcuni valori, che peraltro sono contrari allo stesso principio della riconciliazione. Se la guerra l’avessero vinta i fascisti, come ad esempio è stato in Spagna nel 1939, non ci sarebbe stata nessuna riconciliazione: allora sì che la Storia l’avrebbero scritta i vincitori e basta! Ma siccome da noi ha vinto la democrazia, la Storia l’hanno scritta tutti. I fascisti non sono solo in gran parte rimasti in vita, ma hanno continuato a fare politica, hanno mantenuto il lavoro e talvolta pure il controllo del potere. Oggi non si tratta di condannare o meno, a parole, un modello politico, ma di accettare i principi basilari della democrazia: riconoscere l’avversario, rispettarlo, consentirgli uguali diritti e libertà di pensiero e parola, non usare violenza contro di lui. Ecco, tutto questo i partiti politici neofascisti di oggi, persino quelli che si trovano in Parlamento, non lo fanno. Basta vedere come si comportano nei confronti di chi propone una interpretazione storica diversa dalla loro sul tema delle foibe: aggressioni verbali e fisiche, minacce, negazione di finanziamenti e spazi pubblici, licenziamenti… Queste sono pratiche fasciste, portate avanti da partiti fascisti che non hanno mai condannato il fascismo. Ciò che davvero non comprendo è come fanno gli altri partiti a non accorgersene e a continuare ad accettarlo, consentendo a questa gente di continuare a fare politica con questi metodi. Pare che possa bastare una sorta di “lottizzazione” politica della memoria: i fascisti celebrano le loro vittime il 10 febbraio, giorno del ricordo delle foibe; gli antifascisti hanno la loro celebrazione il 25 aprile, giorno della Liberazione dal nazifascismo.
A proposito di questo, lei scrive che c’è il pericolo che “il 10 febbraio si trasformi in una vera e propria giornata dell’orgoglio fascista”. Non è stato così fin dalla sua istituzione?
Diciamo che la forma in cui è stata pensata la giornata commemorativa è ambigua e pure sbagliata storicamente, perché si è voluta costruire una narrazione incentrata sugli italiani vittime (come popolo) della violenza jugoslava. Negli ultimi anni la vicenda viene sempre più spesso interpretata come una violenza ideologica, quindi in maniera più corretta storicamente, continuando però a “dimenticare” le colpe precedenti del fascismo e finendo così per condannare solo i partigiani e la Resistenza. Di fatto nella stessa logica della propaganda fascista.
Alla fine lei scrive che la storiografia accademica o la politica potrebbero etichettarla come un negazionista, il che significherebbe solo che Lei rifiuta o nega il “falso storico”. Lei ha scritto per il Piccolo di Trieste: qual è la sua esperienza con questo giornale? Sulla questione del fascismo e delle foibe, questo e altri giornali italiani sono molto ambigui. Lei cosa ne pensa?
Non mi ritengo affatto un estremista (né tantomeno un negazionista!) e ciò che scrivo nel libro è sostanzialmente condiviso (pur con qualche comprensibile variante) da quasi tutti gli studiosi, anche quelli accademici. Esiste invece una grande distanza rispetto al discorso politico e mediatico. Il Piccolo si differenzia solo perché dedica più spazio alla vicenda, per ovvie ragioni di vicinanza geografica, ma con toni identici ad altri giornali o programmi televisivi. Ciononostante, ritengo importante riuscire a collaborare con i media mainstream, raggiungere un pubblico non schierato politicamente e anche riuscire a farmi ascoltare dalle istituzioni. Lo scorso anno ho pubblicato articoli e interviste su quasi tutti i giornali più venduti d’Italia. Spesso i miei interventi sono stati accompagnati o seguiti da altri che ribadivano le tesi che ironicamente definisco “negazioniste” della realtà storica. Il che fa parte del “gioco” democratico e lo accetto, anche se mi preoccupa il predominio di quella visione errata.
Nataša Šušteršič, autrice dell’intervista-prefazione all’edizione slovena di E allora le foibe? ( Laterza, 2021) dello storico Eric Gobe