Reporters Sans Frontières (RSF) (nella originaria denominazione francese) è un’organizzazione non governativa e no-profit che promuove e difende la libertà di informazione e la libertà di stampa. L’organizzazione ha sede principale a Parigi ed ha lo status di consulente delle Nazioni Unite.
Ogni anno questa organizzazione pubblica una classifica che tiene conto delle libertà di stampa in tutti i paesi del mondo, negli ultimi anni noi italiani siamo scivolati sempre più in basso, lo scorso anno eravamo al 73° posto ora siamo addirittura al 77° posto, e questo nonostante la classifica non tenga conto dell’assoluto potere che esercita l’attuale governo sui mezzi di comunicazione di massa, soprattutto sulla televisione, ma anche sui giornali. C’è veramente da preoccuparsi.
Ma come sono cambiati i giornali italiani negli anni? Per quanto alcuni sono sempre stati a proprietà padronale (la Stampa giornale di casa Fiat) o il Corriere della Sera progressivamente scivolato di mano in mano a imprenditori rampanti (l’ultimo esempio è Cairo) altro ha radicalmente cambiato la loro impostazione.
Prendiamo ora ad esempio la Repubblica, quando nacque era in ogni rassegna stampa, perché considerato un giornale di approfondimento, diciamo che ha mantenuto questo ruolo per svariati anni (sicuramente al di la di come uno la possa pensare almeno finché a dirigerlo c’è stato Scalfari).
Poi è subentrata la scelta che in fondo un giornale deve rispondere esclusivamente ad un modello di mercato, così messa via la deontologia professionale, e aggiungiamo riposta in cantina, “si è badato al sodo”, una parte delle notizie selezionata in base ai possibili click e “mi piace” da ottenere sui social così da iniziare ad annacquare via via quel profilo così impegnato che potrebbe danneggiare il lettore, stimolandolo a pensare con la propria testa. Una operazione questa che ha costi enormemente vantaggiosi anche per l’editore, basta una redazione composta da un capo-redattore e per il resto da stagisti (praticamente questi ultimi a costo vicinissimo allo zero), che badi a cercare le notizie più curiose sul web e quelle che attirano di più l’attenzione degli utenti social e in questo c’è il fondamentale contributo di Google Analitics e la prima parte del giornale è fatta, poi si passa all’utilizzo di mercato pubblicando sui social titolo e primi dieci righe dell’articolo, rimandando l’utente, curioso di sapere la notizia completa a sottoscrivere un abbonamento se vuole sapere il resto. Poi c’è la parte “politica” di Repubblica e per quella ci ha pensato Molinari il nuovo direttore del giornale (onnipresente nei salotti talk-show), che ha ridimensionato drasticamente gli approfondimenti per lasciare spazio alle veline governative, e se proprio ci si deve scagliare contro qualcuno basta scatenarsi contro le opposizioni, contro qualsiasi voce diversa dal coro. Si potrebbe continuare col Corriere della Sera e coi pezzi del caffè di Gramellini, ma vorrei risparmiare ai compagni di accendere riflettori su uno dei personaggi più insulsi del giornalismo italiano, figlioccio non a caso prediletto di Fazio e Veltroni e del loro sciagurato politically correct o buona politica che dir si voglia la tabloidizzazione del giornale, è ormai compiuta.
C’è poi da fare una ulteriore riflessione, da prodotti del genere un aspirante giornalista, stagista sottopagato, quale professionalità può acquisire? Sicuramente quella di coloro che non si pongono problemi di serietà professionale e che hanno alle spalle solide basi economiche da potersi permettere di vivere per periodi medio lunghi senza un adeguato stipendio, ma soprattutto chi manca completamente di capacità di pensiero critico e analitico.
Nello scadimento del giornalismo italiano ha sicuramente inciso la crisi dell’editoria, e l’avvento dei social che hanno diminuito di molto il numero di lettori che ha spinto sempre più a sacrificare la qualità dello scritto, per suscitare la curiosità del fruitore, ma rimane intatta la responsabilità degli editori e della categoria giornalistica di aver scelto come sempre in queste società liberiste, in cui il mercato detta legge la strada più semplice, e ai giornalisti con qualche hanno in più resta la responsabilità enorme di porsi come cattivi maestri verso la nuova generazione che cresce.
Fortunatamente ancora vi sono delle voci discordanti e sono spesso quelle più autorevoli che hanno, al di là delle opinioni personali, levato la loro voce, contro questa acquiescenza al potere e ai suoi metodi di condizionamento dell’opinione pubblica.
Di recente abbiamo pubblicato la lettera di 11 corrispondenti di guerra, recitava così l’inizio di quella lettera aperta : “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin”.
E’ quanto effettivamente accaduto in questi giorni in Italia, un attacco denigratorio e violento a chiunque provasse ad analizzare le cause del conflitto tra Russia e Ucraina con un punto di vista diverso; bandito ogni approfondimento, sulla stampa, nei talk-show e sui social: storici, giornalisti, forze politiche e chiunque provasse a fare un commento diverso o a manifestare dubbi sul ruolo svolto dalla Nato, dall’Europa e sui farneticanti messaggi favorevoli all’intervento europeo e all’invio di armi, si sentiva bollato di essere un traditore e un amico di Putin. Ne sa qualcosa il presidente dell’ANPI Pagliarulo oggetto di una vergognosa campagna denigratoria.
Un quadro a tinte fosche quello che abbiamo tratteggiato, ma forse un raggio di luce si è acceso, la sfiducia manifestata nei sondaggi dai lettori e dagli utenti social verso la categoria, motivata nelle accuse delle tante fake-news pubblicate e nelle tante notizie “costruite”. Con un briciolo di ottimismo vogliamo continuare a pensare che alla fine la ragione prevalga sull’economia.
Foto di Luisella Planeta da Pixabay