Oggi ricorre l’anniversario della morte di Antonio Gramsci.
Come ogni anno, la International Gramsci Society invita, compatibilmente con gli impegni di lavoro o di altro tipo, quante e quanti vorranno a portare un fiore rosso sull’urna che raccoglie le ceneri del grande comunista presso il cimitero acattolico della Piramide Cestia (appuntamento alle 12,30 all’ingresso di via Zabaglia).
Prenderanno la parola Guido Liguori, Presidente della International Gramsci Society, e Fabrizio De Santis, Presidente dell’ANPI regionale.
La nostra Associazione, che sarà presente con alcuni associati, pensa di ricordare colui che abbiamo individuato come nostro riferimento politico, teorico, storico e morale, con la seguente riflessione.
Nel numero 48 della rivista “Current Comments” del dicembre del 1986 compare una ricerca a firma di Eugene Garfield dal titolo The 250 Most-Cited Authors in the Arts & Humanities Citation Index, 1976-1983, nella quale ci sono soltanto cinque autori italiani dal XVI secolo in poi: Giorgio Vasari, Giuseppe Verdi, Benedetto Croce, Umberto Eco, Antonio Gramsci.
Commentando i risultati di questa ricerca Hobsbawm osservava che “in questo elenco non è compreso né Vico né Machiavelli, mentre invece è citato Antonio Gramsci”. Inseriamo un breve commento alle parole dello storico inglese: “Se questo era vero quindici anni fa, oggi una classifica del genere farebbe di certo scalare qualche altra posizione al politico e intellettuale comunista italiano che trascorse quasi dieci anni nelle prigioni di Mussolini” (M. Filippini, Gramsci globale. Guida pratica alle interpretazioni di Gramsci nel mondo, Odoya, Bologna, 2011, p. 7).
Torniamo a Hobsbawm che aggiungeva: “Essere citati non significa ancora garanzia di conoscenza e neppure di comprensione per l’autore in questione, tuttavia è pur sempre indizio di una presenza intellettuale” (E. J. Hobsbawm, Per capire le classi subalterne in “Rinascita-Il Contemporaneo”, Gramsci nel mondo, 28 febbraio 1987). Lo stesso Hobsbawm, alcuni anni dopo, presentando una serie di saggi sulla conoscenza e la diffusione di Gramsci nel mondo, scriveva: “Gramsci è divenuto ‘importante’ (…) persino fuori dal suo Paese, dove la sua statura nella storia e nella cultura nazionale è stata riconosciuta praticamente fin da subito. Adesso è riconosciuta nella maggior parte del mondo. La fiorente scuola di ‘studi subalterni’, che ha il suo centro a Calcutta, sostiene anzi che l’influenza gramsciana sia tuttora in espansione. Gramsci è sopravvissuto alle congiunture politiche che furono alla base del suo primo successo internazionale. È sopravvissuto allo stesso movimento comunista europeo. Ha dimostrato la sua indipendenza dagli alti e bassi delle mode ideologiche (…). È sopravvissuto a quella chiusura nei ghetti delle accademie che pare essere il destino di tanti altri pensatori del ‘marxismo occidentale’. È persino riuscito ad evitare di divenire un ‘ismo’” (E. J. Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, a cura di Antonio A. Santucci, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. IX-X).
Quindi Gramsci è sicuramente un classico ma è un classico molto “inattuale” e, per questo, scomodo, soprattutto nei tempi che viviamo, in quanto pone al centro dell’attenzione le questioni della grande politica che si collocano al di là della semplice amministrazione e vanno a coinvolgere temi e trasformazioni di portata inaudita: “La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, addirittura l’elementare diritto alla vita, non sono infatti capitoli di filosofia morale, ma finalità specifiche della democrazia politica non ancora acquisite ovunque. Se continueranno a restare ai margini, allora sì che le idee di Gramsci saranno definitivamente sconfitte” (Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937, Sellerio, Palermo, 2005, p. 173).
Proprio nel tentativo di cogliere l’“inattualità attuale” di Gramsci, vogliamo proporre la lettura di passi tratti dai suoi scritti pur nella consapevolezza di rendere una comunque incompleta idea dello spessore umano, etico, politico e intellettuale di Gramsci per giungere, comunque e credo unanimemente, alla stessa conclusione a cui pervenne anni fa Raul Mordenti: “Antonio Gramsci era comunista” (R. Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Editori Riuniti, Roma, 2007, p. 11).
“Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire” (Margini in “La Città Futura”, numero unico pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese, 11 febbraio 1917, in A. Gramsci, La Città Futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1982, pp. 23-24).
“… io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico ed è qui tutta la differenza. Ciò mi ha fatto male, per molto tempo: per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di enormemente complicato, una moltiplicazione o una divisione per sette di ogni sentimento reale, per evitare che gli altri intendessero ciò che io sentivo realmente. Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: ‘Al mare i continentali!’ Quante volte ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia. Ma quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario?” (Lettera del 6 marzo 1924 da Vienna alla moglie Giulia in A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino, 1992, pp. 271-272).
“Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio” (Lettera dal carcere al figlio Delio in A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di F. Giasi, Einaudi, Torino, 2020, p. 1069).
Dalla lettura di questi tre estratti emerge l’importanza fondamentale della storia nella vita e nel pensiero di Gramsci e la centralità che in essa, nel suo processo, occupano le grandi masse, la classe operaia, protagoniste della grande politica a cui oggi pochi prestano attenzione attratti come sono dalle questioni di infimo profilo politico quotidiano e di bottega partitica, ma si coglie anche la dimensione intellettuale della battaglia da lui combattuta nei suoi aspetti più particolari legati alla coerenza etica, morale e politica. Per questo, come ha sostenuto Giuseppe Prestipino, studiarlo è necessario (A. Gramsci, Contro l’indifferenza, antologia per la scuola media superiore, a cura di L. La Porta con un saggio di G. Prestipino intitolato Studiare Gramsci è necessario, Edizioni SEAM, Roma, 2008).
Un’ultima osservazione. In una lettera alla cognata Tania (19 marzo 1927), Gramsci dice di voler scrivere für ewig, ossia per l’eternità. Molti hanno per troppo tempo inteso ciò come il tentativo di nascondere all’aguzzino fascista il vero obiettivo dell’opera che Gramsci stava per intraprendere in carcere e da cui avrebbero preso vita i Quaderni. In realtà, c’è stato, fra gli studiosi gramsciani, chi ha invece notato che il für ewig è l’essenza stessa dell’opera di Gramsci al punto che deve essere sottratto alla dimensione di pura neutralità teorica per divenire il carattere distintivo del fare politica gramsciano al cui soggetto storico rivoluzionario “la ricerca dei Quaderni tenta di fornire voce e pensiero, egemonicamente. Quel soggetto storico rappresenta dunque per Gramsci il vero autore e, al tempo stesso, il vero destinatario della sua scrittura für ewig” (R. Mordenti, cit., p. 170). Nel für ewig si manifesta in modo limpido ciò che Gramsci intende, riprendendo il concetto da Marx e da Labriola, per filosofia della praxis, ossia quel nesso inscindibile fra pensiero e prassi che fa in modo che il soggetto operi in direzione della trasformazione dell’oggetto; in sostanza, la prassi rivoluzionaria che trasforma il mondo.