Centenari. Il 25 maggio del 1922 nasceva a Sassari una delle personalità che hanno segnato la storia della sinistra. Dopo il compromesso storico compì un’autocritica reale, lanciando l’«alternativa democratica»: la prospettiva era un vasto cambiamento intellettuale e morale, senza trascurare le radici economiche
di Guido Liguori su “il manifesto” del 24 maggio 2022
Si torna periodicamente a parlare di Enrico Berlinguer, soprattutto della sua onestà, della sua denuncia della corruzione e del clientelismo, insomma della «questione morale». Il richiamo a questo aspetto quasi profetico del suo pensiero (la denuncia della corruzione dei partiti italiani, che risale a una celebre intervista a Scalfari del luglio 1981), rischia però di risultare fuorviante se non si aggiunge che esso si situa all’interno di un discorso più ampio e complesso, quello del «secondo Berlinguer», successivo alla stagione della solidarietà nazionale (e del compromesso storico).
DOPO LA FALLIMENTARE esperienza dei governi emergenziali guidati da Andreotti a partire dal 1976, dopo l’uccisione di Aldo Moro, dopo la sconfitta elettorale nelle amministrative del ’78 e nelle politiche del ’79, Berlinguer compie un’autocritica reale, anche se non esibita – lanciando nel 1980 l’«alternativa democratica». Isolato nella politica italiana dalla Dc anti-morotea e dal Psi di Craxi, Berlinguer si rivolge alla società. Da Togliatti a Gramsci, si potrebbe dire. Perché l’idea è quella di dar vita a una «riforma intellettuale e morale», senza trascurarne le radici economiche. Di scrivere nei fatti un nuovo «programma fondamentale». Di proporre un modo rinnovato di essere comunisti.
Le prime basi di questo programma erano state poste già negli anni precedenti, in campo internazionale innanzitutto, con l’eurocomunismo e la solenne dichiarazione, fatta a Mosca nel 1977 davanti ai partiti comunisti di tutto il mondo, che la democrazia è «un valore storicamente universale»: bisognava trovare una «terza via» tra socialismo dispotico e socialdemocrazia inconcludente, una «terza fase» dopo l’esaurimento dell’eredità della II e la III Internazionale.
In quello stesso anno, al convegno del Teatro Eliseo, Berlinguer lancia l’idea dell’«austerità» (già avanzata anni prima da Palme): un nuovo modello di sviluppo, un nuovo tipo di società basato più sui consumi pubblici che su quelli privati. E che riconosceva le buone ragioni dei popoli del Terzo mondo, stanchi di essere asserviti per garantire lo sfrenato consumismo dei paesi più ricchi.
SEMPRE CONTRO gli egoismi dei privilegiati, Berlinguer andrà alla Fiat nel 1980, per schierare il Pci a fianco della classe operaia in lotta, perché i lavoratori non erano i soli a dover pagare la crisi. Una battaglia che continuerà con la difesa della scala mobile: se non fosse morto nell’84, il referendum conservativo di questo meccanismo di salvaguardia dei salari sarebbe stato vinto.
È in tale quadro che si colloca l’intervista a Scalfari dell’81: la «questione morale» per Berlinguer sta dentro una visione di denuncia dei meccanismi della società basata sul profitto e di affermazione della necessità di fuoriuscita dal capitalismo. Questa è la «diversità comunista»: non un fatto antropologico, ma l’affermazione di una politica che evitasse l’interesse clientelare e fosse lotta per una società più giusta ed eguale.
Non basta però solo essere fedeli alle proprie radici e agli ideali della propria giovinezza, come pure rivendicò con orgoglio. Bisognava rinnovare la politica e il Pci, scrive ancora nel 1981. Ciò significa in primo luogo aprire il partito alla società e dialogare con i movimenti.
NEGLI ULTIMI ANNI della sua vita Berlinguer ricostruisce il rapporto coi giovani, appoggiando il grande movimento per la pace di quegli anni; mostrando una sensibilità inedita per la nascente questione ecologica e per le nuove tecnologie (specie quelle informatiche), che non andavano demonizzate ma che non potevano sostituire la politica collettiva e partecipata. È il primo comunista (e forse il primo politico) a dialogando seriamente col movimento delle donne, non solo con la sua tradizionale componente emancipazionista, affermando che «se non c’è rivoluzione femminile, non ci sarà alcuna reale rivoluzione».
Un politico moderno e rivoluzionario, dunque, che negli ultimi suoi anni seppe cercare temi e modi nuovi. Non fu seguito dalla maggioranza del gruppo dirigente del suo partito, ma lasciò un ricordo indelebile nel «popolo comunista» e in milioni di italiani. Della sua «terza fase» di ricerca del socialismo vi è ancora bisogno.
Appaiono su “il manifesto” di oggi e nella rubrica di Alberto Leiss, una serie di articoli interessanti su Enrico Berlinguer che vi invito a leggere