La scuola di formazione politica di Sinistra Italiana, diretta da Giorgio Mele, ha organizzato lo scorso 24 marzo presso Roma Tre un incontro intitolato “Antonio Gramsci e le interpretazioni del fascismo”, in occasione dell’uscita del n. 6/2022 di “Critica Marxista”. Presero la parola Guido Liguori, Presidente della International Gramsci Society, che relazionò sul tema “L’analisi gramsciana del fascismo”, e l’autore dello scritto qui proposto che parlò sul tema “Le interpretazioni del fascismo”. Il testo che segue vuole essere una riflessione per il 25 aprile ed è una rielaborazione dell’intervento del 24 marzo.
Ringraziamo Giorgio Mele, le compagne e i compagni impegnati nell’impresa della scuola di formazione politica di SI per averci consentito di pubblicare lo scritto.
Tre devono essere considerati i filoni di interpretazione del fascismo: quello intellettuale, quello sociale e quello etico[1].
L’antifascismo intellettuale si basa sulla teoria crociana della parentesi, ossia del fascismo inteso come malattia morale che, in virtù dei processi di crescita della Zivilisation, soppianta e supera la Kultur europea. Possono essere considerati come autori e testi di riferimento Ortega y Gasset (La ribellione delle masse, 1930), Meinecke (L’idea di ragion di stato nella storia moderna, 1924), Huizinga (Le ombre del domani, 1935).
Sulle circostanze che condussero Croce all’antifascismo va fatta qualche considerazione. Intervistato da Francesco Dall’Erba il 27 ottobre del 1923 per il «Giornale d’Italia», quindi a distanza di un anno dalla marcia su Roma, Croce, temendo il pericolo di un «ritorno all’anarchia del ‘22», continuava: «Nessuno che abbia senno augura un cangiamento». E proseguiva sostenendo che tra la sua «fede liberale e l’accettazione e giustificazione del fascismo» non c’era contraddizione alcuna. Il 1° febbraio del 1924, intervistato dal «Corriere Italiano», ancora riteneva «così gran beneficio la cura a cui il fascismo aveva sottoposto l’Italia, che si dava pensiero piuttosto che la convalescente non si levasse presto di letto, a rischio di qualche grave ricaduta». Il 24 giugno del 1924, due settimane dopo il sequestro di Matteotti, il Senato fu chiamato a votare la fiducia al governo Mussolini: Croce, con Gentile, fu tra i 225 che votarono la fiducia. Pochi giorni dopo, per la precisione il 9 luglio, intervistato dal «Giornale d’Italia», il filosofo affermava:
Abbiamo deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci, fiducia condizionata. Nell’ordine del giorno che abbiamo redatto è detto esplicitamente che il Senato si aspetta che il Governo restauri la legalità e la giustizia, come del resto Mussolini ha promesso nel suo discorso. A questo modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data. Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di Mussolini al potere è condizionata al nostro beneplacito[2].
Un giudizio difficilmente discutibile sull’atteggiamento del filosofo abruzzese rispetto al fascismo è stato espresso da Antonio A. Santucci: «… riguardo al fascismo l’atteggiamento di Croce si presenta in chiaroscuro. Alcuni storici hanno ad esempio evocato la sua presenza nell’aula del Senato per parlare, nel ’29, contro il Concordato, ma non per condannare dieci anni dopo le leggi razziali»[3]. E se è documentato il controllo poliziesco cui fu sottoposto, «magari nel corso di un innocuo viaggetto a Campobasso nei primi anni Trenta (…) basta questo a cancellare qualche infortunio che, data l’epoca, si fatica ad archiviare come semplice gaffe? Celebre quello contenuto in un saggetto del ’24, dove si apprende come non possa escludersi che una “eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente ed opportunamente somministrata”»[4]. Non a caso, a distanza, il passo crociano verrà riprodotto pure da Gramsci nei Quaderni, in impietoso parallelo col coevo discorso palermitano di Gentile sul «bastone e il pugnale»[5]. Eppure, concludeva Santucci, è «innegabile che Casa Croce, a Napoli, nei giorni cupi del regime, sia divenuta un crocevia dell’antifascismo europeo»[6]. Si tratta di fasi e di cicli, aggiungeva Santucci. Peraltro l’atteggiamento di accondiscendenza nei confronti del fascismo venne meno, a detta dello stesso Croce, «in qualche settimana di crisi del 1925»[7]. Nessuno dimentica che Croce fu il redattore del cosiddetto Manifesto degli intellettuali antifascisti (il cui titolo era Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani, al manifesto degli intellettuali fascisti) pubblicato il 1° maggio del 1925 su «Il Mondo», il giornale di Giovanni Amendola, in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile e pubblicato il 21 aprile dello stesso anno. Nel 1931, quando fu imposto il giuramento al regime, dei 400 firmatari del Manifesto crociano si erano dissolti in molti.
Giuseppe Prestipino, a proposito della continuità fra liberalismo e fascismo e del peso che Croce ebbe in Italia nel consolidamento di questo processo, afferma che lo specifico liberalismo che prese piede nel nostro Paese è
un insieme di ordinamenti o atteggiamenti politici o intellettuali che (…) precedono o preludono il fascismo, si predispongono a confluire nel fascismo o propendono a tollerarne anche gli eccessi, come minor male rispetto alla lotta di classe o come necessaria “parentesi” (Croce) illiberale nel quasi fatale andare di una storia della libertà (in quanto “religione” conservatrice)[8].
La posizione di Prestipino trova un antecedente altrettanto illustre nell’intervento tenuto da Ferruccio Parri, nella sua funzione di Presidente del Consiglio, nella seduta della Consulta del 26 settembre 1945[9]; pur continuamente interrotto da rumori e commenti, Parri affermò quanto segue:
Tenete presente: da noi la democrazia è appena agli inizi. Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo … (Interruzioni- Scambio di apostrofi- Commenti- Rumori) Non vorrei offendere con queste mie parole quei regimi (Commenti- Interruzioni- Rumori). Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un senso preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali[10].
A lui replicò il giorno seguente Benedetto Croce[11]. Pur mettendo in evidenza i meriti di Parri in quanto combattente antifascista, il filosofo da subito sottolineò il suo disaccordo sul giudizio relativo all’Italia prefascista:
… questa asserzione urta in flagrante contrasto col fatto che l’Italia, dal 1860 al 1922, è stata uno dei Paesi più democratici del mondo (Applausi) e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa nella democrazia[12].
Croce continuò sostenendo l’opera delle compagini al governo nell’Italia postunitaria per garantire istruzione e miglioramento economico al popolo, o meglio alle “plebi”, creazione di sempre maggiori spazi di libertà (assemblee e camere di lavoro), salvaguardia dell’uso dello sciopero, «… consecutivi allargamenti dell’elettorato … fino al suffragio universale», nonché la nascita di partiti politici, in primis quello socialista, la cui crescente rappresentanza alla Camera dei Deputati, consentì la difesa dei diritti dei lavoratori; fra questi deputati «era Giacomo Matteotti, che con l’Amendola e col Gramsci, morirono per l’Italia democratica. (Vivi applausi)»[13]. Il filosofo, poi, dopo aver ricordato la scomparsa dei «lazzari», soprattutto a Napoli, grazie all’opera dei governi dell’Italia postunitaria, mise bene in evidenza il ruolo esercitato da questi ultimi nel concedere a molti (evidente qui il riferimento autobiografico) la possibilità di formarsi ed entrare in contatto con le voci più diverse della cultura internazionale. Altro che «Italietta» di cui blaterava il Duce del fascismo, ma Italia reale in cui stare «libero in libero popolo»[14].
Il discorso crociano rimanda a diversi luoghi della Storia d’Italia della quale, pubblicata la prima volta nel 1927, Croce si apprestava a licenziare la nona edizione, nel 1947, nella cui Avvertenza si metteva in evidenza la presenza di «lievi ritocchi» rispetto alle precedenti edizioni e la necessità di rimetterla in circolazione «quando ormai, da circa quattro anni, l’Italia, crollato il funesto regime che è stato una triste parentesi nella sua storia, respira di nuovo – pure tra le difficoltà del presente e i pericoli – nella libertà…»[15]. L’unica vera novità del discorso rispetto allo scritto è la periodizzazione: nel primo dal 1860 al 1922, nel secondo dal 1871 al 1915. Soltanto retrodatando al 1860 il percorso di edificazione e di affermazione di quella da lui definita Italia democratica, Croce avrebbe potuto parlare, ad esempio, di garanzia dell’istruzione in quanto la legge Casati entrò in vigore proprio quell’anno per essere estesa a tutto il Regno dal 1861 e, salvo alcuni interventi, come quello del 1877 con la legge Coppino, rimanere di fatto in vigore fino alla riforma Gentile del 1923. Lo stesso anno di chiusura del periodo “aureo” della democrazia italiana viene posposto al 1922 proprio per garantire al filosofo la pregnanza, ovviamente dal suo punto di vista, della definizione del fascismo come «triste parentesi» che veniva a porre fine alle «magnifiche sorti e progressive» dell’Italia postunitaria. La lettura crociana della storia d’Italia, quindi, si pone da un punto di vista conservatore che pur approdando, fra notevoli tentennamenti, all’antifascismo, peraltro mantiene un atteggiamento di assoluta cautela, se non addirittura di sdegnoso rifiuto, rispetto alle esigenze delle classi subalterne italiane che rimangono comunque “ai margini della storia”[16]. Ne sono esempio alcuni passaggi della Storia d’Italia:
Il socialismo era considerato come una minaccia che si addensava sull’Europa, ma lontana assai dall’Italia, la quale doveva darsene pensiero solo in quanto apparteneva anch’essa alla società europea. Si trascinarono quei conati talvolta nelle forme di iniziate e presto fallite rivolte con bande armate (…) più spesso, con la costituzione di circoli sovversivi, repubblicani e internazionalistici (…). Qualche straniero (…) osservava che all’Italia (…) mancava una “capitale rivoluzionaria”, tale non essendo Roma; ma, in verità, mancava ancor più la materia rivoluzionaria[17].
Lo stesso Partito socialista, la cui attività viene da Croce, nel discorso alla Consulta, ricondotta alla liberalità dei governi postunitari, in realtà «si venne facendo sempre più riformista o liberale» al punto che
… nel congresso di Firenze del 1908 non si poté impedire la vittoria dei riformisti sopra i sindacalisti, né la condanna dello sciopero nei pubblici servizi. Era non la sconfessione, ma l’estenuazione del socialismo…
Tale «estenuazione» scaturì un esito molto ben accetto alle classi dominanti:
Radicalismo, socialismo e massoneria erano termini che facilmente si permutavano l’un l’altro e tutti insieme confluivano in un liberalismo democratico, assai più conservatore e cauto che non si sarebbe creduto da chi avesse dato soverchia importanza ai modi dell’oratoria[18].
Nella sostanza le politiche dei governi dell’Italia postunitaria avevano fagocitato lo stesso Partito socialista. E questa per Croce è democrazia e democratici vanno definiti quei governi! Il passo che segue, invece, mette in evidenza cosa Gramsci intendesse effettivamente con il lemma governo, riferito alle «così dette dittature di Depretis, Crispi e Giolitti nonché al trasformismo»:
… il governo ha (…) operato come un “partito”, si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere “una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo” (Q3, 119, 387).
Quindi l’«estenuazione» di cui scriveva Croce era stata, nella realtà, l’esito di una capillare opera, da parte delle classi dominanti, di prosciugamento delle capacità politiche dei socialisti in Italia che preparava il terreno ad una vera dittatura, quale sarebbe stata il fascismo, la quale, perciò, in questa prospettiva, non può essere considerata una parentesi così come l’Italia postunitaria (dal 1861, nascita del Regno d’Italia), proprio in quanto si adoperò a neutralizzare l’azione del movimento operaio e del Partito che lo rappresentava, non può essere definita «democratica».
L’antifascismo sociale è la seconda forma di antifascismo, si basa sulla teoria classista e, molto sinteticamente, trova la sua anima nella seguente analisi gramsciana:
Perché da noi, dato lo scarso sviluppo della industria e dato il carattere regionale dell’industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe “territorialmente” nazionale: la crisi capitalistica aveva assunto negli anni dopo la guerra anche la forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e aveva quindi favorito il rinascere di una ideologia confusamente patriottica e non c’era altra soluzione che quella fascista, dopo che nel 1920 la classe operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana.[19]
Alla voce di Gramsci va aggiunta quella di Togliatti che, nelle Lezioni sul fascismo[20], introduce la definizione del fascismo come partito nuovo della borghesia che aveva dato vita ad un regime reazionario di massa. Questa lettura si presentava come alternativa rispetto a quella fornita dalla stessa Internazionale e si poneva nell’ottica della ricerca di quali potessero essere le politiche da mettere in pratica per contendere al fascismo il consenso di cui indubbiamente godeva e metterne, perciò, in discussione l’egemonia.
All’interno dell’antifascismo sociale può essere ricondotta anche una voce esterna rispetto a quella dei comunisti. Si tratta di Silvio Trentin (1885-1944). In un carteggio con Ruggero Grieco, segretario del Pcd’I dal 1934 al 1938, dell’inizio del 1936
il giellista veneto si diceva critico nei confronti della politica decisa dopo il VII Congresso del Comintern dell’estate 1935 dal Partito comunista, quando quest’ultimo, constatato il venir meno dell’ipotesi rivoluzionaria in seguito alla crisi del 1929 e al temporaneo consolidamento del regime fascista con la guerra di Etiopia, lancia le parole d’ordine dell’unità antifascista in nome della sola riconquista delle libertà democratiche – e non più del governo operaio e contadino – e, con il famoso «appello ai fratelli in camicia nera», tende la mano addirittura alla dissidenza fascista sulla base della ripresa delle rivendicazioni sociali presenti nell’originario fascismo “sansepolcrista” del 1919. Mentre per il dirigente del PCd’I non esistevano allora le condizioni per una rivoluzione socialista ed era necessario pertanto trovare un punto d’accordo con tutte le forze dell’antifascismo (anche con quelle borghesi) e persino con quei fascisti “antiplutocratici” sempre più critici nei confronti della politica mussoliniana, secondo Trentin, invece, il fronte unico antifascista, se avesse voluto evitare di cadere in una posizione sterile e attendista, non poteva che avere un carattere «programmaticamente proletario e antiriformista». L’idea di Trentin secondo cui il fascismo, rappresentando lo sbocco di un capitalismo in crisi, non poteva essere abbattuto senza una rivoluzione sociale (convinzione che l’antifascista veneto matura negli anni dell’esilio mutando le sue precedenti posizioni, come ricorda lui stesso in una lettera a Grieco dichiarandosi su questo punto un «allievo ritardatario» dei comunisti) lo portava quindi a concepire GL – allo stesso modo di Carlo Rosselli sia pure con sfumature diverse – come forza coagulante di uno schieramento antifascista in quanto rivoluzionario e quindi alternativo ai cedimenti “compromissori” delle forze tradizionali dell’antifascismo tanto borghese quanto operaio. Al tempo stesso, però, proprio la consapevolezza delle ben maggiori capacità di radicamento dei comunisti presso le masse lavoratrici e delle difficoltà incontrate su questo fronte da GL, frutto delle origini intellettuali del movimento, spingeva Trentin a ricercare l’unità d’azione con i partiti tradizionali del movimento operaio[21].
La terza forma di antifascismo è l’antifascismo etico basato sulla teoria della rivelazione, di origine gobettiana, secondo la quale il fascismo rivela, in forma patologica,
un male antico della storia italiana, un male destinato a durare, è l’autobiografia della nazione che attesta i suoi vizi originari, fra cui la tradizione trasformista, unanimista, moderata, conformista e ministeriale; l’Italia priva di spirito di responsabilità, nemica delle contrapposizioni nette, dei conflitti chiari, legalista e leguleia, corrotta nel suo gusto del quieto vivere e nel suo rifiuto della chiarezza, adoratrice della mediazione e dell’annacquamento[22].
Attraverso brevi citazioni da Gobetti è facile evincere il senso profondo di cosa vada inteso per antifascismo etico.
«Odio gli indifferenti»[23], scriveva Gramsci nel febbraio 1917. «Non può essere morale chi è indifferente»[24], scrive due anni dopo Piero Gobetti: l’indifferenza è scelta di non scegliere, di non impegnarsi per una metamorfosi morale dell’umanità: e di fronte al fascismo tale minaccia si fa ancora più grave
«C’è un solo valore incrollabile al mondo: l’intransigenza, e noi ne saremo, per un certo senso i disperati sacerdoti»[25];
«Noi abbiamo una sola sicurezza: la responsabilità, ed un solo fanatismo: la coerenza. Preferiamo Cattaneo a Gioberti, Marx a Mazzini»[26].
Da qui nascerà una generazione di antifascisti, non particolarmente numerosa ma molto tenace: la generazione di Ernesto Rossi, di Rosselli, di Ginzburg: la generazione del confino e della galera. Quella generazione a cui appartiene, pur nella sua originalità in quanto, rispetto ai prosecutori dell’opera di Gobetti, il suo antifascismo si rivolge alle masse e non solo alle élites intellettuali, anche lo stesso Gramsci.
[1] Vanno tenuti presenti i contributi di Claudio Pavone (Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2007), Giaime Pintor (Le tre forme dell’antifascismo in Id., Doppio diario (1936-1943), a cura di Mirella Serri, con una presentazione di Luigi Pintor, Einaudi, Torino 1978) e Giorgio Amendola (Il Tribunale speciale e l’antifascismo all’interno in Fascismo e antifascismo (1918-1936). Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano 19713, vol. I; dello stesso Amendola si veda anche Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, Laterza, Roma-Bari 20083 la cui prima edizione è del 1976).
[2] Intervista di Croce al «Giornale d’Italia» del 9 luglio 1924 riportata da Giorgio Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Neri Pozza, Vicenza-Venezia 1966. A proposito di quest’intervista, così si espresse Norberto Bobbio: «…deluso ma non ravveduto, [Croce] deplora ma accetta come fatto politico il delitto Matteotti, riconosce che il fascismo ha risposto a reali bisogni e ha fatto molto di buono: quanto al suo voto di fiducia in Senato, lo considera non come un voto di entusiasmo ma di dovere, e auspica il ritorno al regime liberale come unico modo di salvare il fascismo quale elemento forte e salutare della futura gara politica» (N. Bobbio, Politica e cultura, introduzione e cura di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 20053, p. 184; la prima edizione del testo di Bobbio è del 1955).
[3] Se Croce si fosse recato in Senato quel 20 dicembre del 1938, avrebbe dovuto votare, insieme alla conversione in legge dei cinque decreti recanti i “provvedimenti per la difesa della razza”, anche il Regio decreto che istituiva il monopolio statale delle banane: “La commistione tra banane somale ed esseri umani finiti nei campi di sterminio nazisti è terribile ed emblematica di un Paese che all’epoca era capace di legiferare con disinvoltura, nella stessa data, sulle banane così come sul destino cruento di migliaia di persone” (S. Salvi, Banane fasciste. Breve storia della banana italica ai tempi dell’autarchia, affinità elettive, Ancona 2017, p. 55).
[4] La citazione è da Fatti politici e interpretazioni storiche in B. Croce, Cultura e vita morale, Laterza, Bari 19262, pp. 269-270.
[5] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975; il testo di Gramsci è citato utilizzando il numero del Quaderno, della nota e della pagina. Q6, 112, 782-783. Il discorso di Gentile a Palermo è del 31 marzo del 1924, pubblicato l’anno successivo nel volume Che cosa è il fascismo. In possesso di Gramsci in carcere risulta il volume di Gentile Fascismo e cultura, Treves, Milano 1928.
[6] Antonio A. Santucci, Affermare la verità è una necessità politica. Scritti di Antonio Santucci, a cura di D. Giannone, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 104-105. Il riferimento ai Quaderni del carcere è relativo a Q6, 112, 782-783.
[7] Lettera a Piero Calamandrei ne «Il Ponte», ottobre 1952.
[8] G. Prestipino, Tre voci nel deserto. Vico, Leopardi, Gramsci per una nuova logica storica, Carocci, Roma 2006, p. 185.
[9] La Consulta nazionale fu istituita con Decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146 ed operò tra il 25 settembre 1945 e il 1° giugno dell’anno seguente. Ferruccio Parri ricoprì la carica di Presidente del Consiglio dal 21 giugno al 24 novembre del 1945.
[10] Atti della Consulta nazionale, Discussioni, seduta del 26 settembre 1945, p. 18.
[11] Croce era stato nominato Consultore nazionale in quanto “ex membro di governi costituiti dopo la liberazione di Roma”. Il suo intervento in Atti della Consulta nazionale, Discussioni, seduta del 27 settembre 1945, p. 37 ed anche in B. Croce, Discorsi parlamentari, con un saggio di M. Maggi, il Mulino, Bologna 2002, pp. 179-181 (le citazioni dell’intervento di Croce saranno da quest’ultimo testo).
[12] Ivi, p. 179.
[13] Ivi, p.180.
[14] Ibidem.
[15] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1966, p. VIII.
[16] Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni) è il titolo del Quaderno 25 dei gramsciani Quaderni del carcere.
[17] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cit., pp. 43-44.
[18] Ivi, pp. 241-242.
[19] Relazione al CC del Pcd’I del 13-14 agosto 1924 in L’Ordine Nuovo, 1° settembre 1924 ora in A. Gramsci, Sul fascismo, a cura di E. Santarelli, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 248.
[20] P. Togliatti, Sul fascismo, a cura di G. Vacca, Laterza, Roma-Bari 2004.
[21] L. Bufarale, recensione di C. Verri, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939), XL Edizioni, Roma 2011 in Diacronie. Studi di Storia contemporanea, 12, 4/2012. La corrispondenza fra il giellista veneto e il segretario comunista in C. Verri, Trentin-Grieco. Un carteggio nel mezzo della guerra d’Etiopia in Italia contemporanea, 246, 1/2006, pp. 95-120.
[22] G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/Antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova Italia, Firenze 1995, ppp. 48-49.
[23] A. Gramsci, Indifferenti in La Città futura, numero unico pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese, 11 febbraio 1917, orain Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Scritti (1910-1926), 2/1917, a cura di L. Rapone, con la collaborazione di Maria L. Righi e il contributo di B. Garzarelli, Treccani, Roma 2015, pp. 93-94.
[24] P. Gobetti, La nostra fede, in Energie Nove, serie II, n.1, 5 maggio 1919, pp.1-8; ora in Id., Scritti politici (1960), a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1997, p. 626.
[25] P. Gobetti, Elogio della ghigliottina in La Rivoluzione Liberale, I, 34, 23 novembre 1922 ora in Id., La Rivoluzione Liberale, Saggio sulla lotta politica in Italia, a cura di E. Alessandrone Perona, con un saggio di P. Flores d’Arcais, Einaudi, Torino 19953, p. 164.
[26] P. Gobetti, Per una società degli Apoti in La Rivoluzione Liberale, I, 31, 25 ottobre 1922 ora in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1969, p. 412.
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