L’inflazione – e l’incremento delle bollette di luce e gas – ha ridotto salari e stipendi del 10-11% circa. Prendendo il caso di un lavoratore dipendente under 36 del Lazio senza figli né moglie a carico egli con un reddito di 25.000 lordi pari a circa 20.000 netti annui ha perso 2.000 euro. Con un reddito di 35.000 pari a circa 24.902 euro netti ha perso 2.490 euro.
L’intervento della Meloni sul cuneo fiscale da luglio a dicembre, esclusa la tredicesima, vale circa 40 euro netti nel primo caso e tra i 55 e i 60 nel secondo. Ovvero, essendo un taglio di 4 punti non strutturale, sarebbe come un bonus di 240 euro nel primo caso e tra i 330 e i 360 nel secondo. Niente da buttar via per carità ma neanche da osannare se si considera quel 10-11% di salari e stipendi tagliati dall’inflazione. I dati, comunque, sono approssimativi perché di questo provvedimento ancora non si ha la precisione di un testo scritto. E non a caso, non permetterebbe le strombazzate propagandistiche della destra al governo.
Di sicuro ci sono due bugie stratosferiche che la Meloni e i suoi gazzettieri hanno già diffuso urbi et orbi: non è il più grande taglio di tasse nella storia recente dell’Italia e non sono 100 euro netti mensili in busta paga. Che erano quelli, strutturali per altro, che chiedevano i sindacati dall’anno scorso. Del resto se nove anni fa per gli 80 euro netti – allora definiti dalla Meloni una “marchetta elettorale”- Renzi impegnò 10 miliardi circa, appare difficile che con i 4,1 miliardi la Meloni ne possa dare 100. A meno che non sia abilitata al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Inoltre, occorre aggiungere il mancato rinnovo dei contratti dei lavoratori pubblici perché il governo non ci ha stanziato un euro. Il divario con il tasso di inflazione, che sta registrando una ripresa, rimane perciò drammatico. Assoutenti, commentando i recenti dati Istat sul commercio, dice che “per affrontare il caro-prezzi le famiglie continuano a tagliare le spese primarie come gli alimentari”.
Il resto del decreto riguarderebbe – sempre in mancanza di un testo definitivo – altri due punti cardine: la precarietà, che viene allargata sui contratti a tempo determinato e l’allargamento del ricorso ai voucher; e la riduzione drastica del Rdc che si divide in due: il “reddito di inclusione” per gli inabili al lavoro e il cosiddetto “supporto per la formazione e il lavoro” per quelli abili, cioè i disoccupati. Tutti e due per una durata limitata senza spiegare come farà l’inabile a non essere più tale dopo 18 mesi e un prolungamento di altri 12 e come farà il disoccupato ad avere un lavoro come dio comanda dopo 12 mesi di “supporto”. Obbligandolo, per non perdere quei pochi euro, ad accettare qualsiasi lavoro in giro per l’Italia. Le cifre sono poi da fame: 500 euro per gli inabili più 280 euro per eventuale affitto e 350 euro per i disoccupati. Naturalmente le condizioni per potere accedere all’uno o all’altro sostegno sono ferree: in pratica non da indigente ma da morto di fame.
La Meloni e camerati della destra in ogni sua variazione invitano a festeggiare, stappando champagne. Per ora solo i padroni hanno accolto l’invito.
Il piattino ai lavoratori la premier l’ha preparato con cura anche se ha dovuto subire l’imprevista defaillance dei suoi che per insipienza e ingordigia di vacanze l’hanno mandata sotto in Parlamento. Cosaccia subito recuperata. Intanto ha fatto approvare all’uopo uno scostamento di Bilancio, il che vuol dire che i 4 miliardi per il cuneo li ha messi in conto al nostro debito pubblico e, soprattutto, alle generazioni future che poi ha provveduto a bastonare con ulteriore precarietà. Un invito efficace a promuovere la natalità.
Poi ha convocato Cgil, Cisl e Uil per domenica sera senza un testo scritto che continua a mancare. Quindi, con consumata teatralità, ha cercato di rubare la scena a sindacati e lavoratori il primo maggio con i provvedimenti sopra descritti e facendo un video divulgativo da Minculpop. Si è guardata bene dal fare una conferenza stampa per evitare domande imbarazzanti di qualche giornalista non ligio a sua maestà. La scusa è stata risibile: il 2 maggio i giornali non escono, ma i mass media sono sempre attivi e comunque la Conferenza stampa poteva farla benissimo anche il giorno dopo.
Ma, si sa, la Meloni non va d’accordo con i giornalisti e con le loro domande e se può evita gli uni e le altre.
Preferisce il Minculpop.
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