Seguo con interesse lo sforzo che Elly Schlein sta facendo per ridefinire a sinistra il Pd partendo dai temi del lavoro, dell’ambiente, dei diritti. Questo sforzo non è esente da critiche specifiche, ma la direzione strategica è giusta e la sua efficacia si misurerà con l’obiettivo di fondo di riportare alle urne proprio quei settori popolari sfiduciati che non le frequentano più.
Credo che l’atteggiamento di chi si sente di sinistra e viene dalla storia del Pci, non sia tanto quello di almanaccare se ce la farà o meno a ricostruire quella “connessione sentimentale” con i lavoratori e i socialmente deboli venuta meno via via nel corso degli ultimi anni – per lo meno dalla fondazione del Pd, ma se si vuole germi robusti c’erano già prima -, quanto quello di incalzare la Schlein, insieme anche agli altri soggetti progressisti in campo, a darsi da fare con l’urgenza necessaria di atti politici unitari e programmatici per battere questa destra post fascista al governo.
Tutto questo però è solo una parte del problema, l’altro corno della questione, per nulla secondario e per nulla facile, riguarda il contributo dem alla costruzione di una forza politica di ispirazione socialista, pluralista e nuova, in grado di rifondare – utilizzando tutti gli strumenti di comunicazione messi a disposizione dalla rivoluzione tecnologica e per fargli fare politica e non solo propaganda – le strutture organizzative dem al centro come in periferia oggi molto spesso ridotte a comitati elettorali a sostegno personale di questo o di quello. Si tratta, in sostanza, di debellare la vera e propria incrostazione burocratica, di ceto politico anche trasformista che oggi occupa e definisce il Pd nella maggioranza di comuni e Regioni. “Vasto programma” direbbe qualcuno, ma intento strategico ineludibile se si ha in mente la rifondazione di una sinistra degna di questo nome i cui tempi non saranno brevi e la cui realizzazione per niente scontata. In questa direzione può soccorrere la memoria, in termini essenzialmente di ispirazione politica, di quanto Togliatti fece ai suoi tempi negli anni della Resistenza e della Guerra di Liberazione: linea politica nuova, democratica e unitaria e “partito nuovo” come suo strumento popolare di inveramento nel paese.
Sul piano della linea politica la Schlein presenta un buco nero: la politica sulla guerra in Ucraina. Per ora si è limitata a riconfermare la posizione del Pd sull’invio delle armi agli ucraini per fronteggiare l’aggressione di Putin. Dice che non ci vogliono solo le armi ma anche l’iniziativa diplomatica per far cessare la guerra; si è pure richiamata a quanto detto in proposito dal Presidente Mattarella in visita di Stato in Norvegia. Però non risulta che in questa direzione – rivolta all’Ue e anche a marcare una differenza col governo ultratlantista della Meloni – abbia finora preso o proposto nessuna iniziativa unitaria rivolta agli altri soggetti di un campo progressista – che per altro hanno fatto lo stesso – volta a concretizzare questa propensione al di là delle diverse posizioni sugli aiuti militari. Per inserirsi, se non altro, nelle iniziative e i movimenti diplomatici in corso da parte Vaticana – con scarso successo stando ai risultati della visita di Zelensky da Bergoglio – e anche della Cina; la quale, finora, è stata l’unica a presentare non un piano ma 12 punti di principio, una sorta di cornice, su cui avviare una trattativa per il “cessate il fuoco”. Tanto è bastato, per esempio, perché il vecchio Kissinger dicesse l’altro giorno che “Ora che la Cina è inclusa nel processo di negoziazione, tutto dovrebbe cambiare”. Aggiungendo, forse un po’ ottimisticamente, che “Penso che entro la fine dell’anno potrebbero esserci negoziati reali”.
La Schlein si dice pacifista e sulla corsa al riarmo dei paesi europei ha detto di trovarla “preoccupante” preferendo, in alternativa “La difesa comune [che] dovrebbe servire a ottimizzare, a razionalizzare la spesa militare dei singoli Paesi, non ad aumentarla” (“La Repubblica” 18 marzo).
Alcuni giorni fa, però, è accaduto che l’europarlamento su sollecitazione del gruppo del Ppe, ha votato a stragrandissima maggioranza, compreso il gruppo socialista di cui è parte il Pd, l’accelerazione per il piano europeo di munizioni presentato la scorsa settimana dalla Commissione Ue, per assegnargli una corsia preferenziale e accelerarne l’approvazione. Con il “consiglio” della Commissione europea ai paesi della Ue di utilizzare allo scopo armigero anche i Fondi strutturali europei e quelli del Recovery plan (in Italia Pnrr). Su questa cosa scandalosa, ovviamente, c’è stato anche il sì della destra italiana sparsa fra Identità e democrazia (Lega) Ecr (FdI) Forza Italia (Ppe). Il voto finale ci sarà il 31 maggio.
Il Pd dice di non essere d’accordo con l’utilizzo del Pnrr per le armi, (il gruppo dem all’europarlamento afferma, solenne, che si attiverà “per apportare le modifiche al testo” onde evitare “inaccettabili sviamenti dagli obiettivi Pnrr [di] risorse già destinate a fondi europei”) ma poi vota la risoluzione con qualche dissenso nel gruppo (Smeriglio). Su queste questioni i contorcimenti politicisti sono quanto mai deleteri e segno di una transizione nel Pd nemmeno avviata sul grande problema di una politica di pace e di disarmo.
Un cambiamento di linea politica comincia con la chiarezza dei voti e delle enunciazioni e con la chiarezza delle posizioni e degli atti conseguenti anche dentro al gruppo socialista europeo. Le distinzioni politiche che assomigliano alle arrampicature sugli specchi infittiscono una nebbia già troppo spessa.
In questi casi è d’obbligo il Vangelo: “Sia il vostro parlare:’sì, sì’, ‘no, no’ ” perché “il di più viene dal Maligno”.