Lo scritto che segue vuole proporre un’analisi del percorso di formazione del gruppo dirigente del partito comunista nel periodo 1923-1924 attraverso una ricostruzione che si avvale di diversi documenti, soprattutto lettere, per capire come Gramsci, operando da Vienna, costruì intorno a sé il nucleo di dirigenti che guidò il Pcd’I. L’autore si è avvalso di parti, da lui stesso tradotte, di un volume appena pubblicato in francese (Romain Descendre e Jean-Claude Zancarini, L’oeuvre-vie d’Antonio Gramsci, Éditions La Découverte, Paris, 2023; si tratta di due studiosi di Gramsci), integrate da riflessioni personali intorno al “pensiero vivente” (possibile traduzione del titolo del volume) che proietta sul nostro presente lo sforzo di ricerca dell’unità della sinistra compiuto da Gramsci in quegli anni di ferro e di fuoco. Mi auguro che il tedio non assalirà quante fra le nostre compagne e quanti fra i nostri compagni vorranno affrontare la lettura dello scritto, necessariamente ponderoso, visto l’argomento, credendo, in quanto autore, di essere stato ponderato.
Gramsci arriva a Vienna il 4 dicembre 1923. Vi resterà fino al maggio del 1924 quando rientrerà in Italia dopo essere stato eletto deputato alle elezioni del 6 aprile. In una lettera inviatagli da Scoccimarro, che scrive da Roma il 17 novembre 1923, vengono definite le sue funzioni:
L’Ufficio di Vienna dovrà essere il centro dei nostri collegamenti con l’estero, nonché una fonte di informazione politica di cui noi qui difettiamo data la situazione in cui ci pone il governo fascista. I compiti di detto ufficio…possono così riassumersi: mantenere il collegamento fra il nostro partito e i partiti comunisti ed organizzazioni rivoluzionarie di tutti i paesi, raccogliere per conto del partito tutta la stampa almeno più importante e la letteratura comunista estera, informarci sullo sviluppo della situazione politica internazionale, sulle lotte dei vari partiti e viceversa informare questi sulla situazione politica italiana e l’attività del nostro partito[1].
Scoccimarro prosegue indicando uno dei compiti di Gramsci a Vienna: preparare la terza serie dell’«Ordine Nuovo» come rivista bimestrale che avrebbe dovuto completare l’insieme della stampa comunista con un nuovo quotidiano che avrebbe sostituito «Il Lavoratore», «L’Ordine Nuovo» torinese e «Il Comunista», proibiti dal governo fascista; peraltro Scoccimarro e la direzione del Pcd’I pensavano che fosse ancora possibile trasformare in un quotidiano «Lo Stato operaio», che era un settimanale. Si comprende che l’idea gramsciana di dar vita ad un quotidiano al quale collaborassero comunisti e socialisti favorevoli alla Terza Internazionale non incontrava l’approvazione della direzione comunista.
Infatti, il 12 settembre 1923 Gramsci aveva scritto da Mosca una lettera al Comitato esecutivo del partito italiano nella quale precisava il modo con cui attuare la decisione del Presidium dell’Internazionale di dar vita alla pubblicazione di un «quotidiano operaio redatto dal C. E. al quale possano dare la loro collaborazione politica i terzinternazionalisti esclusi dal P.S.»[2]. Proprio su questa questione Gramsci scrive di voler esporre le sue impressioni ed opinioni e, di fatto, nel fare ciò illustra il suo stato d’animo e la sua solida convinzione di tradurre in italiano le direttive dell’Internazionale. La lettera propone una concezione per nulla settaria del giornale in fieri:
Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti, e dirà il suo giudizio con tono disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista “scientifico”[3].
Con le altre forze di sinistra che dovessero partecipare direttamente alla redazione del giornale, in specie con i cosiddetti “terzini” (i “serratiani” favorevoli alla III Internazionale), Gramsci ritiene che «la polemica si farà necessariamente, ma con spirito politico, non di setta ed entro certi limiti»[4].
La direzione comunista italiana aveva accettato la proposta del Presidium facendo presente che «siamo però d’avviso che il P. C. debba avere un’influenza assolutamente predominante se non esclusiva»[5] nel giornale. Emerge la particolarità della concezione gramsciana del fronte unico che parte dall’accettazione dei punti di vista e del dibattito e non dalla preponderanza a priori del partito comunista.
Lo stesso titolo che Gramsci propone per il quotidiano che verrà e l’esigenza di tradurre per l’Italia la parola d’ordine dell’Internazionale sul governo operaio e contadino mostrano una sagacia che non verrà mai meno:
Io propongo come titolo “L’Unità”[6] puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’Esec.«utivo» All. «argato» sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale. Personalmente io credo che la parola d’ordine ‘governo operaio e contadino’ debba essere adattata in Italia così: ‘Repubblica federale degli operai e dei contadini’. Non so se il momento attuale sia favorevole a ciò, credo però che la situazione che il fascismo va creando e la politica corporativa e protezionistica dei confederali porterà il nostro partito a questa parola d’ordine[7].
Dunque già a questo punto della sua riflessione Gramsci insiste sulla necessità dell’unità delle forze antifasciste. Pensa che si debba lavorare nella prospettiva di possibili rapporti con le tendenze di sinistra del partito popolare e dei democratici, da cui la parola d’ordine dell’unità, e misurare i suoi effetti sui partiti «che rappresentano le tendenze reali della classe contadina e hanno sempre avuto la parola d’ordine dell’autonomia locale e del decentramento»[8]. Da questa lettera si può affermare che prenda il via una riflessione sul Mezzogiorno, ulteriormente chiarita nell’articolo Il Mezzogiorno e il fascismo, apparso il 15 marzo del 1924 nella terza serie dell’«Ordine Nuovo», fino allo scritto incompiuto sulla “quistione meridionale” del 1926. Il 24 febbraio del 1924, diretto da Ottavio Pastore, compare il primo numero de «L’Unità. Quotidiano degli operai e dei contadini».
A Vienna Gramsci intrattiene una serrata corrispondenza con alcuni compagni intorno all’attività passata del partito e a ciò che andrà fatto per il futuro nella prospettiva del fronte unico. Il primo gennaio del 1924, in una missiva alla compagna Giulia, che era a Mosca, le fa presente come mai in vita sua avesse scritto tante lettere.
La corrispondenza con Togliatti, Terracini, Scoccimarro, Leonetti ed altri ha la sua origine nella decisione di Bordiga di chiedere ai principali dirigenti della “maggioranza” del partito di firmare una lettera manifesto contro il modo, da lui considerato del tutto sbagliato, con il quale il Comitato esecutivo dell’Internazionale aveva trattato la questione italiana. Il testo di Bordiga è concepito durante il suo arresto[9]. Secondo Bordiga, proporre i massimalisti Serrati e Maffi all’interno di un fronte unico avrebbe significato dissolvere l’identità comunista e mettere il partito nelle mani di chi aveva fatto di tutto per impedirne la nascita.
Ai suoi compagni Gramsci scrive che l’intenzione di Bordiga è di lottare apertamente contro l’Esecutivo dell’Internazionale per dar vita, a questo scopo, ad una frazione: «Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza internazionale. Noi dobbiamo porci dal punto di vista di una maggioranza nazionale»[10].
I compagni a cui si rivolge Gramsci ritengono che sia il caso di firmare il manifesto di Bordiga facendogli, però, effettuare delle modifiche che attenuino le divergenze con l’Internazionale. Terracini, scrivendo a Gramsci, Scoccimarro e Togliatti, sostiene che questi compagni sono stati un ponte fra Gramsci e Bordiga al punto che quest’ultimo è giunto alla conclusione di rinunciare alla posizione di principio secondo la quale nulla era possibile fare con i massimalisti redigendo, a conferma, una seconda versione del suo testo. Quindi, secondo il futuro presidente dell’Assemblea costituente, Bordiga «era venuto sul nostro terreno». La sua irritazione di fronte al rifiuto di Gramsci di firmare il manifesto è evidente e si riassume nella metafora usata: «se manca una riva chiedo io a che serve il ponte»[11].
In una lettera del 5 gennaio del 1924 Gramsci spiega a Scoccimarro perché si rifiuta di firmare il manifesto di Bordiga:
U. 9. Vienna, 5 gennaio 1924
N. P. 76
Caro Negri,
ho ricevuto la tua lettera del 25 dicembre e la lettera di Palmi del 29 stesso mese. Rispondo a tutti e due insieme. Comunica a Palmi questa mia lettera e, se è possibile, anche a Lanzi[12] e a Ferri[13].
Ti dirò sinteticamente perché persisto nel ritenere impossibile che io firmi il manifesto, anche dopo averne letta la seconda redazione. Per il manifesto non esistono né l’Esecutivo allargato del febbraio ’22, né quello del giugno ’22, né il Quarto Congresso, né l’Esecutivo del giugno ’23. Per il manifesto la storia si conclude col Terzo Congresso e al Terzo Congresso bisogna riattaccarsi per continuare. Tutto ciò può essere plausibile come opinione personale di un singolo compagno e come espressione di un piccolo gruppo; è pazzesco semplicemente come direttiva di una frazione di maggioranza che ha amministrato dal Terzo Congresso in poi il partito e che continua ad amministrarlo. È pazzesco ed assurdo perché in tutti gli Esecutivi allargati e al Quarto Congresso i rappresentanti della maggioranza hanno fatto sempre le più ampie dichiarazioni in favore del centralismo, del partito unico internazionale ecc. Al Congresso di Roma era stato dichiarato che le tesi sulla tattica sarebbero state votate a titolo consultivo, ma che esse, dopo la discussione del Quarto Congresso, sarebbero state annullate e non se ne sarebbe parlato più. Nella prima metà del marzo 1922 l’Esecutivo del Comintern ha pubblicato uno speciale comunicato in cui le tesi sulla tattica del partito venivano confutate e rigettate e un articolo dello Statuto dell’Internazionale dice che ogni deliberazione dell’Esecutivo deve diventare legge per le singole sezioni. Ciò sia detto per la parte formale e giuridica della questione. La quale ha una sua importanza. In verità dopo le pubblicazioni del manifesto la maggioranza potrebbe essere squalificata del tutto e anche esclusa dal Comintern. Se la situazione politica dell’Italia non si opponesse a ciò io ritengo che l’esclusione avverrebbe. Alla stregua della concezione di partito che deriva dal manifesto la esclusione dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. Non voglio, firmando il manifesto, apparire un completo pagliaccio.
Ma io non sono neppure d’accordo nella sostanza del manifesto. Ho un’altra concezione del partito, della sua funzione, dei rapporti che devono stabilirsi fra esso e le masse senza partito, fra esso e la popolazione in generale. Non credo assolutamente che la tattica che si è sviluppata attraverso gli esecutivi allargati e il Quarto Congresso sia sbagliata. Né per l’impostazione generale, né per dettagli rilevanti. Così credo sia anche per te e per Togliatti e non posso comprendere perciò come voi, a cuore così leggero, vi imbarchiate in una galera così pericolosa. Mi pare che voi vi troviate nello stesso stato d’animo in cui mi sono trovato nel periodo del Congresso di Roma. Forse perché nel frattempo sono stato lontano dal lavoro interno di partito, questo stato d’animo è svanito; in realtà esso è svanito anche per altre ragioni. E una delle più importanti è questa: non si può assolutamente fare dei compromessi con Amadeo. Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli continuerà a lottare e ad ogni occasione ripresenterà sempre intatte le sue tesi.
Penso che abbia torto Palmi nel ritenere che il momento non sia propizio per iniziare una nostra azione indipendente e per dar luogo a una formazione nuova che solo “territorialmente” apparirebbe come di centro. È innegabile che la concezione che finora è stata ufficiale intorno alla funzione del partito ha portato a cristallizzarsi nelle sole discussioni di organizzazione e quindi a una vera e propria passività politica. Invece del centralismo si è ottenuto di creare un morboso movimento minoritario e se si parla coi compagni emigrati perché più attivamente partecipino all’azione esterna del partito si ha l’impressione che per essi il partito è in realtà ben poca cosa e che ben poco sarebbero disposti a dare per esso. L’esperienza della Scuola di Pietrogrado è molto espressiva. In realtà io mi sono persuaso che la forza maggiore che tiene insieme la compagine del partito è il prestigio e l’idealità dell’Internazionale, non già il legame che l’azione specifica del partito sia riuscita a suscitare e abbiamo creato una minoranza a fregiarsi della qualifica di vera rappresentanza dell’Internazionale in Italia.
È proprio oggi, quando si è deciso di portare la discussione dinanzi alle masse che bisogna assumere un posto definitivo e la propria esatta figura. Fino a quando le discussioni avvenivano in una cerchia ristrettissima e si trattava di organizzare cinque, sei, dieci persone in un organismo omogeneo era ancora possibile, sebbene non fosse neppure allora totalmente giusto, venire a dei compromessi individuali e trascurare certe questioni che non avevano una immediata attualità. Oggi si va dinanzi alla massa, si discute, si determinano delle formazioni di massa che avranno una vita non solo di poche ore. Ebbene, è necessario che questo fatto avvenga senza equivoci, senza sottintesi, che queste formazioni abbiano una organicità e possano svilupparsi e diventare tutto il partito. Perciò io non firmerò il manifesto. Non so ancora con esattezza che fare. Non è la prima volta che mi sono trovato in queste condizioni e Palmi deve ricordare che nell’agosto 1920 io mi sia staccato anche da lui e da Umberto. Allora ero io che volevo mantenere dei rapporti piuttosto colla sinistra che colla destra, mentre Palmi e Umberto avevano raggiunto Tasca, che si era staccato da noi fin dal gennaio. Oggi mi sembra che avvenga il contrario. Ma in realtà la situazione è molto diversa e come allora nell’interno del partito socialista bisognava appoggiarsi agli astensionisti, se si voleva creare il nucleo fondamentale del futuro partito, così oggi bisogna lottare contro gli estremismi se si vuole che il partito si sviluppi e che finisca di essere niente altro che una frazione esterna del partito socialista. Infatti, i due estremismi, quello di destra e quello di sinistra, avendo incapsulato il partito nella unica e sola discussione dei rapporti col partito socialista, l’hanno ridotto a un ruolo secondario. Probabilmente rimarrò solo. Come membro del CC del partito e dell’Esecutivo del Comintern, scriverò una relazione in cui combatterò contro gli uni e contro gli altri, accusando gli uni e gli altri di questa stessa colpa e ricavando dalla dottrina e dalla tattica del Comintern un programma d’azione per l’avvenire della nostra attività. Ecco quanto volevo dire. Vi assicuro che qualsiasi vostro ragionamento non riuscirà a smuovermi da questa posizione. Naturalmente voglio continuare a collaborare strettamente con voi e penso che l’esperienza di questi anni abbia servito a tutti almeno per insegnarci che si possono nell’ambito del partito avere opinioni differenti e continuare tuttavia a lavorare insieme col massimo di reciproca fiducia.
Sollecita i compagni che sono a tua portata di mano perché affrettino l’invio degli articoli da me domandati. Palmi dovrebbe farmi immediatamente una “Battaglia delle idee” di almeno tre colonne (tutta l’ultima pagina). Non so quale libro o serie di libri o di altre pubblicazioni indicargli. Potrebbe fare una critica del punto di vista sostenuto dalla Rivoluzione liberale del Gobetti dimostrando come in realtà il fascismo abbia posto in Italia un dilemma molto crudo e tagliente: quello della rivoluzione in permanenza e della impossibilità non solo di cambiar forma allo Stato, ma semplicemente di mutar governo altro che con la forza armata. E potrebbe esaminare la nuova corrente nata in seno agli ex combattenti e cristallizzata intorno all'”Italia libera”. Io penso che il movimento degli ex combattenti, in generale, essendo stato in realtà la formazione del primo partito laico dei contadini specie dell’Italia centrale e meridionale, abbia avuto una immensa importanza nel capovolgere la vecchia struttura politica italiana e nel determinare l’indebolimento estremo dell’egemonia borghese parlamentare e quindi il trionfo della piccola borghesia fascista reazionaria e inconcludente e piena tuttavia di aspirazioni e sogni utopistici di palingenesi. La nascita del movimento “Italia libera” quale significato esatto ha in questo quadro generale? Ciò mi sfugge e sarei veramente lieto che Palmi illuminasse anche me a proposito.
Naturalmente Palmi dovrà essere uno dei pilastri della rassegna e inviare articoli generali che rendano possibile anche sostanzialmente la rinascita del vecchio Ordine nuovo. Ho sempre trascurato di dare indicazioni per la collaborazione di Valle[14] perché penso che egli vorrà avere via libera in proposito. Digli che però vorrei avere un suo articolo sintetico sulla questione della riforma Gentile della scuola. Sintetico ha naturalmente un significato logico e non metrico decimale. L’articolo potrebbe anche essere di cinque colonne e diventare il nucleo centrale di un numero.
E Lanzi cosa fa? Anche egli deve collaborare. Specialmente sulla questione sindacale. Scrivigli e avvertilo che desidero sapere qualche cosa sulla attività e sulle sue opinioni dei fatti che si svolgono.
Saluti.
Gramsci[15]
Quindi Gramsci propone a Togliatti di curare la rubrica La battaglia delle idee dell’«Ordine Nuovo»[16] e fa presente che vorrebbe fra i collaboratori, nonostante faccia parte della minoranza, Angelo Tasca.
Il 12 gennaio risponde a Terracini:
Insisto nel mio atteggiamento perché lo ritengo il più opportuno e doveroso. La tua lettera non fa che confermarmi in questa decisione, specialmente per quello che dici a proposito del ponte che voi avreste rappresentato in questo periodo passato. Bisogna che anche tu, Negri e Palmi vi decidiate per la chiarezza, per una posizione che sia la più vicina ai vostri intimi convincimenti e non alla vostra qualità di «ponti». Potremo così insieme fare un grande lavoro e dare al nostro partito tutto lo sviluppo che la situazione gli permette[17].
Nella stessa lettera propone il progetto «di una rassegna trimestrale in grande formato (250-300 pagine ogni tre mesi) che potrebbe intitolarsi Critica proletaria»[18] con la partecipazione di tutti i dirigenti del partito, fra cui anche Bordiga, Graziadei e Tasca, animatori della minoranza.
In una lunga lettera del 9 febbraio 1924 a Togliatti, Terracini e altri compagni Gramsci chiarisce le sue posizioni in specie in relazione al manifesto di Bordiga. Bisogna evitare lo scontro con l’Internazionale, va intrapresa una nuova direzione di azione da parte del partito iniziando dall’organizzazione, carente e con scarsa propensione ad affrontare le questioni a partire dal movimento spontaneo delle masse:
Non si è concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualche cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell’ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all’azione[19].
La necessità di partire dal movimento spontaneo delle masse indica la differenza fra Gramsci e non solo Bordiga ma la maggior parte dei dirigenti comunisti dell’epoca. La riflessione sarà da Gramsci ripresa nei Quaderni del carcere:
Il movimento torinese fu accusato contemporaneamente di essere «spontaneista» e «volontarista» o bergsoniano (!). L’accusa contradditoria, analizzata, mostra la fecondità e la giustezza della direzione impressagli. Questa direzione non era «astratta», non consisteva nel ripetere meccanicamente delle formule scientifiche o teoriche: non confondeva la politica, l’azione reale con la disquisizione teoretica; essa si applicava ad uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezioni del mondo ecc., che risultavano dalle combinazioni «spontanee» di un dato ambiente di produzione materiale, con il «casuale» agglomerarsi in esso di elementi sociali disparati. Questo elemento di «spontaneità» non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna. Si parlava dagli stessi dirigenti di «spontaneità» del movimento; era giusto che se ne parlasse: questa affermazione era uno stimolante, un energetico, un elemento di unificazione in profondità, era più di tutto la negazione che si trattasse di qualcosa di arbitrario, di avventuroso, di artefatto [e non di storicamente necessario]. Dava alla massa una coscienza «teoretica», di creatrice di valori storici ed istituzionali, di fondatrice di Stati. Questa unità della «spontaneità» e della «direzione consapevole», ossia della «disciplina» è appunto la azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa[20].
Nel momento in cui sta proponendo una svolta radicale nella politica dei comunisti italiani, Gramsci ha in mente il processo dialettico fra la spontaneità delle masse e il ruolo di direzione che spetta al partito.
La lettera presenta alcuni temi che saranno rielaborati nei Quaderni del carcere, come la differenza fra Oriente ed Occidente[21], l’analisi dell’importanza dei rapporti di forza in Italia e da qui sono poste le basi per un accordo con i corrispondenti di Gramsci. Si va raccogliendo intorno a lui un nucleo di compagni, «un gruppo capace di lavorare e di iniziativa forte»[22], scrive a Scoccimarro e Togliatti il primo marzo 1924.
Lo stesso giorno compare a Roma il primo numero della terza serie dell’«Ordine Nuovo». Preparato e in parte redatto da Gramsci a Vienna, in esso il ruolo della cultura è riaffermato con forza, come si evince dal sottotitolo «Rivista di politica e di cultura operaia». Ne scrive a Giulia il 15 marzo dicendosi non del tutto soddisfatto ma segnalando l’attaccamento al giornale da parte di molti compagni che gli hanno inviato lettere. Sempre a Giulia, in una lettera di qualche giorno prima, aveva manifestato i suoi dubbi e i suoi timori circa la sua capacità di essere all’altezza della situazione:
Ricevo ora molte lettere dai compagni italiani. Vogliono da me la fede, l’entusiasmo, la volontà, la forza. Domandano troppo da me, si aspettano troppo e ciò mi impressiona sinistramente. La situazione del partito e molto peggiorata in questi ultimi mesi. Bordiga si è ritirato sull’Aventino e il suo atteggiamento aveva incantato tutto il meccanismo della vita comune dei compagni. Sono riuscito a tempo a strapparne qualcuno da questa situazione: ma basterà? [23]
Il 21 gennaio 1924 era morto Lenin e a lui Gramsci aveva dedicato un articolo, peraltro non firmato, sul primo numero della nuova serie dell’«Ordine Nuovo» intitolato Capo:
Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, nei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico?[24]
Nell’articolo Gramsci oppone la figura del capo legato storicamente ed organicamente al suo partito e alla sua classe a quella di Mussolini, capo soltanto nell’apparenza. Quest’ultimo non era stato il capo del partito socialista prima della guerra e aveva fallito nella direzione dei lavoratori durante la settimana rossa del giugno del 1914:
Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia…[25].
Il parallelo fra il leader della rivoluzione russa e il duce del fascismo consente a Gramsci di comparare le due forme di dittatura (comparazione significa individuare le differenze fra oggetti che possono apparire identici):
La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. Il capo che oggi piangiamo ha trovato una società in decomposizione, un pulviscolo umano, senza ordine e disciplina, perché in cinque anni di guerra si era essiccata la produzione, sorgente di ogni vita sociale. Tutto è stato riordinato e ricostruito, dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, cioè al governo e alla storia.
Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione più violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale d’ordine di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, più per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia…[26].
Nello stesso numero, sintetizzando la vita e l’attività di Lenin, Gramsci definisce per la prima volta il concetto di egemonia a partire dallo scritto leniniano del 1905 Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica:
Il bolscevismo è il primo, nella storia internazionale della lotta delle classi, che ha sviluppato l’idea dell’egemonia del proletariato e ha posto praticamente i principali problemi rivoluzionari che Marx ed Engels avevano prospettato teoricamente. L’idea dell’egemonia del proletariato, appunto perché concepita storicamente e concretamente, ha portato con sé la necessità di ricercare alla classe operaia un alleato: il bolscevismo ha trovato questo alleato nella massa dei contadini poveri. […]
Il contadino non può conquistare la terra senza l’aiuto dell’operaio; l’operaio non può rovesciare il capitalismo senza l’aiuto del contadino. Ma politicamente l’operaio è più forte, più capace del contadino: egli abita nella città, è concentrato in grandi masse nelle officine, è in grado non solo di rovesciare il capitalismo, ma anche di impedire, socializzando l’industria, che il capitalismo ritorni. Ecco perché la rivoluzione si presenta praticamente come un’egemonia del proletariato che guida il suo alleato, la classe dei contadini[27].
Questa è la prima occorrenza in Gramsci dell’espressione “egemonia del proletariato”, seppure nell’accezione di una necessaria alleanza fra operai e contadini. Da qui in poi fino alle Tesi di Lione del 1926 Gramsci utilizzerà continuamente quest’espressione che, poi, nei Quaderni, si trasformerà in “egemonia politica”.
Nel secondo numero della terza serie dell’«Ordine Nuovo» compare un articolo di Gramsci, Contro il pessimismo, all’inizio del quale vengono stigmatizzati gli atteggiamenti di arrendevolezza e di passività di quegli intellettuali che sembravano molto vicini al movimento dei lavoratori[28]. Proseguendo, la sua critica si rivolge a ciò che il partito ha fatto sotto la guida di Bordiga che seguì una linea formalista, come un qualsiasi militante comunista sarebbe stato in grado di comprendere. Scrive Gramsci che
non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20[29];
ossia i comunisti non erano stati in grado di tradurre «in un linguaggio storico italiano»[30] quello che era avvenuto in Italia.
L’intenzione di Gramsci non è soltanto quella di criticare la politica del partito comunista italiano seguita fino a quel momento affinché possa emergere un gruppo dirigente in accordo con l’Internazionale e deciso ad allontanarsi da Bordiga, ma pone anche la questione dei rapporti di forza fra i vari partiti dell’Internazionale proponendosi, in questo modo, non semplicemente come un esecutore delle direttive dell’Esecutivo. Scrivendo a Terracini il 27 marzo 1924, pone la seguente domanda: «Hanno i diversi partiti saputo applicare concretamente, nei diversi paesi, con loro speciali condizioni, questo indirizzo?», ossia la linea del fronte unico e del governo operaio e contadino. La risposta di Gramsci è molto poco ortodossa:
Una causa è indubbiamente il modo come viene inteso il cosiddetto centralismo del Comintern: finora non si è riusciti a ottenere che esistano dei partiti che sappiano fare una politica autonoma, creatrice, he automaticamente sia centralizzata, in quanto rispondente ai piani generali d’azione sbozzati nei congressi[31].
Si tratta della dialettica fra l’Internazionale che “sbozza” piani generali e la capacità dei partiti di tradurli trasformandoli «in politica autonoma, creatrice». La parte finale della lettera chiarisce meglio la questione. Gramsci, che scrive da Vienna, chiede a Terracini, che in quel momento rappresenta il partito italiano presso l’Esecutivo, di informarlo sulle lotte interne al partito russo, in modo particolare «sullo stato attuale della quistione Trotzki-Zinoviev», suscettibile di avere conseguenze sugli sviluppi del V Congresso, che si sarebbe svolto dal 17 giugno all’8 luglio:
Vorrei avere informazioni in proposito e il tuo avviso. In ogni modo io mi rafforzo sempre più in questa convinzione: che bisogna lavorare, noi, nel nostro paese, per costruire un partito forte, politicamente e organizzativamente bene attrezzato e resistente, con un bagaglio di idee generali ben chiare e ben ferme nelle coscienze individuali…[32].
Nel terzo numero dell’«Ordine Nuovo», Gramsci ne redige il programma mettendo in risalto il legame fra l’esperienza della rivista nel 1919-1920 e il suo compito con la terza serie. La traduzione delle esperienze internazionali è al centro dell’iniziativa così come la legittimità del gruppo che, nell’esperienza precedente del periodico, aveva tradotto “soviet” con “consiglio di fabbrica”:
La diffusione raggiunta dai primi due numeri non può che dipendere dalla posizione che l’«Ordine Nuovo» aveva assunto nei primi anni della sua pubblicazione e che consisteva essenzialmente in ciò: 1) nell’aver saputo tradurre in linguaggio storico italiano i principali postulati della dottrina e della tattica dell’Internazionale comunista. Negli anni 1919-20 ciò ha voluto dire la parola d’ordine dei Consigli di fabbrica e del controllo sulla produzione, cioè l’organizzazione di massa di tutti i produttori per l’espropriazione degli espropriatori, per la sostituzione del proletariato alla borghesia nel governo dell’industria e quindi, necessariamente, dello Stato. 2) Nell’aver sostenuto in seno al Partito socialista, che allora voleva dire la maggioranza del proletariato, il programma integrale dell’Internazionale comunista e non solo una qualche sua parte. Perciò, al secondo Congresso mondiale, il compagno Lenin disse che il gruppo dell’«Ordine Nuovo» era la sola tendenza del Partito socialista che rappresentasse fedelmente l’Internazionale in Italia[33].
Nella sostanza Gramsci sottolinea l’indispensabilità della traduzione in italiano delle parole d’ordine dell’Internazionale, ossia la necessità di tenere costantemente conto delle specificità nazionali. Ritorna, perciò, dopo quattro anni, allo stesso tema che aveva affrontato, sempre sull’«Ordine Nuovo», il 28 agosto del 1920, nei termini della «traduzione per la realtà storica italiana»[34], che diventerà la questione della traducibilità nei Quaderni.
L’articolo del 1924 prosegue invitando i militanti comunisti a formare scuole di partito per dar vita ad un apparato che prenda il posto di quello che esisteva nel 1919-1920 in un regime di libertà e attraverso il quale la rivista manteneva saldi rapporti con le masse nelle fabbriche e nei circoli operai. A questo apparato Gramsci aveva fatto riferimento scrivendo a Togliatti il 27 marzo del 1924:
Dovremmo cercare di ricostruire tra noi un ambiente come quello del ’19-’20 con i mezzi che abbiamo a disposizione: allora nessuna iniziativa era presa se non era stata saggiata con la realtà, se prima su di essa non avevamo sondato, con mezzi molteplici, l’opinione degli operai[35].
Uno dei compiti dell’«Ordine Nuovo» deve essere quello di fornire gli elementi e gli strumenti per realizzare questo lavoro di formazione e di studio:
Per aiutare le scuole di Partito nel loro lavoro ci proponiamo di pubblicare tutta una serie di opuscoli e qualche libro […] Vorremmo fare una edizione italiana del Manifesto dei Comunisti con le note del compagno D. Riasanof: nel loro complesso queste note sono una trattazione completa in forma popolare delle nostre dottrine. Vorremmo anche stampare una antologia del materialismo storico, cioè una raccolta dei brani più significativi di Marx ed Engels che diano un quadro d’insieme delle opere di questi due nostri grandi maestri[36].
Gramsci è consapevole che, in quel momento, pensare ad un progetto finalizzato all’emancipazione culturale delle masse non è possibile; meglio limitarsi al partito; infatti realizzerà le dispense per la scuola di partito per corrispondenza. Eppure l’emancipazione culturale delle masse come primo obiettivo di uscita dallo stato di subalternità in cui sono costrette, quindi un grande progetto politico- pedagogico, diventerà centrale negli anni del carcere.
Il 6 aprile del 1924 si svolgono in Italia le elezioni politiche. Gramsci viene eletto come deputato del Veneto. In una lettera del 16 aprile alla sua compagna Giulia analizzerà quel voto:
Pare che proprio questa volta il destino crudele abbia proprio voluto che io fossi deputato di… Venezia. Andrò quindi in Italia per qualche giorno, ma poi ritornerò a uscirne per andare all’E. A. Le elezioni sono andate molto bene per noi. Le notizie che il Partito ha ricevuto dai vari posti sono ottime: abbiamo preso 304.000 voti ufficialmente, ma in realtà ne avevamo certamente preso più del doppio e i fascisti hanno pensato di attribuirseli, cancellando con la gomma il segno comunista e tracciandone uno fascista. Quando penso ciò che sono costati agli operai e ai contadini i voti datimi, quando penso che a Torino sotto il controllo dei bastoni 3.000 operai hanno scritto il mio nome e nel Veneto altri 3.000 in maggioranza contadini hanno fatto altrettanto, che parecchi sono stati bastonati a sangue per ciò, giudico che una volta tanto l’essere deputato ha un valore e un significato. Penso però che per fare il deputato rivoluzionario in una Camera dove 400 scimmie ubbriache urleranno continuamente ci vorrebbe una voce e una resistenza fisica superiori a quelle che io abbia. Ma cercherò di fare del mio meglio: sono stati eletti alcuni operai energici e robusti che io conosco bene e conto di poter svolgere un lavoro non del tutto inutile. Qualche fascista di mia conoscenza si torcerà piú di una volta dalla rabbia. Ma di ciò parleremo a voce, perché ci sarà tempo, dato che la Camera si aprirà solo il 24 maggio e alle prime riunioni io non potrò assistere perché sarò vicino a te per mostrarti la lingua, in attesa di mostrarla a …Mussolini [37].
Protetto dall’immunità parlamentare (contro di lui c’era un mandato di arresto) rientrerà in Italia dopo due anni di assenza. Dovrà attendere molto tempo, al contrario delle sue speranze illustrate nella lettera del 16 aprile, prima di poter mostrare la lingua a Giulia.
[1] Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Epistolario 2 gennaio-novembre 1923, a cura di D. Bidussa, F. Giasi e M. L. Righi, con la collaborazione di L. P. D’Alessandro, E. Lattanzi e F. Ursini, Treccani, Roma 2011, p. 137.
[2] Ivi, p. 126. La Direzione del Psi aveva espulso Serrati, Buffoni, Maffi, Malatesta e Riboldi in quanto membri della rivista «Pagine rosse», accusata di attività frazionistica.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 127.
[6] Gramsci allude al giornale fondato nel 1911 (chiuso nel 1920) da Gaetano Salvemini e alle tematiche meridionaliste lì sviluppate. Va ricordato che nel 1914 i giovani socialisti torinesi, fra cui lo stesso Gramsci, avevano proposto a Salvemini di presentarsi alle elezioni a Torino per difendere gli interessi dei contadini della Puglia, della quale l’intellettuale era originario.
[7] Antonio Gramsci, Epistolario 2 gennaio-novembre 1923, cit., p. 127.
[8] Ibidem.
[9] Bordiga fu arrestato il 3 febbraio 1923, nel corso di una vasta operazione di polizia che ridusse nelle carceri fasciste numerosi dirigenti e militanti comunisti, ma, caduta in istruttoria l’accusa di cospirazione contro lo Stato e durante il dibattimento quella di associazione a delinquere, venne scarcerato il 26 ottobre.
[10] Lettera a Togliatti, Terracini e compagni del 9 febbraio 1924 in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Editori Riuniti, Roma 19844, p. 197.
[11] Lettera di Terracini a Gramsci, Togliatti e Scoccimarro, 2 gennaio 1924, in ivi, pp. 144-147.
[12] Tresso.
[13] Leonetti.
[14] Tasca.
[15] P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, cit., pp. 149-153.
[16] Togliatti sarà memore di questa indicazione gramsciana quando, ad iniziare dal n. 1 de «La Rinascita», nel giugno del 1944, intitolerà una delle rubriche proprio La battaglia delle idee.
[17] P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, cit., p. 158.
[18] Ivi, p. 159.
[19] Ivi, p. 195
[20] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 330.
[21] Ivi, pp. 865-867.
[22] P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, cit., p. 230.
[23] A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1992, pp. 272-273.
[24] A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1978, p. 12. Lo stesso articolo, intitolato Lenin, capo rivoluzionario, comparirà, con la firma di Gramsci, in «l’Unità» del 6 novembre 1924.
[25] Ivi, p. 15.
[26] Ivi, pp. 15-16.
[27] Vladimiro Ilic Ulianof in «L’Ordine Nuovo», terza serie, anno I, n. 1, marzo 1924.
[28] In una lettera a Togliatti, Scoccimarro, Leonetti ed altri del 21 marzo Gramsci aveva fatto esplicito riferimento a Sraffa e a Zini: cfr. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, cit., p. 245.
[29] A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 18.
[30] Ibidem.
[31] P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, cit., p. 261.
[32] Ivi, p. 263.
[33] 33A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 21. L’intervento di Lenin intitolato Tesi sui compiti fondamentali del II Congresso dell’Internazionale comunista in Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1967, v. XXXI, p. 192.
[34] A. Gramsci, Il programma dell’«Ordine Nuovo», in Id., L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino, 1987, p. 625.
[35] P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, cit., p. 257.
[36] A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 25. Gramsci aveva letto l’antologia a cui fa riferimento e aveva iniziato a tradurre le note di Riazanof, invitando la sua compagna Giulia a leggerle correggendo la sua traduzione (cfr. A. Gramsci, Lettere 1908-1926, cit., p. 157).
[37] A. Gramsci, Lettere 1908-1926, cit., pp. 324-325.