Antonio Gramsci oggi gode di una generale santificazione. Ma i conti con le categorie del suo pensiero si preferisce non farle. A tale intento dovrebbe attendere la sinistra italiana attuale in tutte le sue molteplici e spesso contraddittorie espressioni partitiche.
Faccio due esempi. La categoria dell’ “egemonia” e quella di “blocco storico”. Le due questioni si pongono nell’epoca nostra su un piano non solo nazionale ma anche europeo e perciò dovrebbero essere svolte ben diversamente dall’epoca del grande comunista sardo per riprenderne, tuttavia, il valore interpretativo e anche propositivo.
Scrivendo sull’egemonia Gramsci svolge questa riflessione che nella sinistra comunista della Prima Repubblica era assai nota: “Il fatto dell’egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei sacrifizi di ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifizi e tale compromesso non possono riguardare l’essenziale, poiché se l’egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica”.
Togliatti cercò con innegabile successo storico di realizzare sul terreno politico quel postulato teorico. Con notevoli innovazioni. Fu, detta in sintesi, la cosiddetta strategia democratica delle alleanze sociali e politiche che ebbe le sue evoluzioni e innovazioni. Su quel terreno si applicarono creativamente anche Longo e Berlinguer.
La questione delle alleanze sociali e politiche attraverso cui espletare la funzione nazionale della classe operaia e delle classi lavoratrici come premessa allo loro egemonia fu assillo costante dei comunisti italiani nella teoria e nella pratica politica. Sempre osservando i profondi cambiamenti sociali che intervenivano nel tessuto economico del paese e che lo avevano portato a trasformarsi negli anni ’50 e ’60 da paese agricolo-industriale a industriale-agricolo.
Oggi la questione preliminare – per dire come e quanto si è tornati indietro – è come la sinistra progressista riesce a riprendere la sua presa sugli operai, i lavoratori e, più in generale, sul mondo del lavoro per farli risentire classe e classe dirigente.
Ma questo sforzo primordiale dai risultati per niente scontati sarà facilitato se diventa chiara la prospettiva strategica delle alleanze che l’ “egemonia” gramsciana comporta, sia nella dimensione nazionale che in quella europea. E qui la nebbia è assai fitta.
L’altra categoria gramsciana molto complessa, non disgiunta dall’ “egemonia”, su cui riflettere proficuamente è quella di “blocco storico”. Essa fu utilizzata dal capo dei comunisti italiani ristretto nelle carceri fasciste innanzitutto per affermare in via teorica che le strutture socio economiche e le super strutture ideali e culturali si influenzavano reciprocamente e che potevano essere distinte solo per comodità di analisi ma non nella realtà effettuale e che a produrle era la storia nel suo svolgersi concreto.
Un’interpretazione “storicista” del marxismo che respingeva ogni fatalismo e determinismo positivista. Gramsci la usò non solo per via teorica ma anche per indagare a fondo le vicende del Risorgimento italiano e il “blocco storico” che lo diresse.
E a proposito del peso delle sovrastrutture sull’azione per creare un nuovo “blocco storico” ebbe ad avvertire: “Una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico-economico”.
Togliatti innovò, allargandola, la categoria di “blocco storico”. In una lezione sulle “classi popolari nel Risorgimento” tenuta a Torino nel 1962 definì “blocco storico” quello che aveva dato vita alla Resistenza. “Sono in prima linea, quindi, – disse – non le classi borghesi, inerti quasi sempre, quando non identificate col fascismo e con l’invasore straniero, ma gli operai, i contadini, il ceto medio lavoratore. Alla loro testa i comunisti, i socialisti, democratici radicali e cattolici d’avanguardia. È un blocco storico del tutto nuovo, che sancisce la vittoria sul fascismo, conquista una Costituzione repubblicana e democratica avanzata e apre la prospettiva di nuovi sviluppi progressivi”. Quel “blocco storico” era politicamente pluralista e non senza contraddizioni interne.
Ma oggi qual è il “blocco storico” che vuole la sinistra progressista? Anche qui si brancola nel buio più fitto.
Certo si mettono insieme le cose più diverse risultanti dalle contraddizioni della realtà socio-economica capitalistica: l’ambientalismo, il mondo del lavoro, l’europeismo, il pacifismo, la contraddizione fra produzione di merci e finanziarizzazione nel capitalismo globalizzatore, ecc.. Ma di una sistemazione anche teorica di tutte queste cose sacrosante se n’è persa memoria.
È necessario e urgente ritrovarla.