27 febbraio 2004 – 27 febbraio 2024
Sono passati venti anni da quando Antonio A. Santucci ci ha lasciato il 27 febbraio 2004 (era nato a Cava de’ Tirreni il 2 ottobre 1949) creando nella comunità gramsciana, e non soltanto in essa, un grande vuoto. La sua attività si è svolta soprattutto come curatore delle opere del grande sardo, per un lungo periodo a fianco di Valentino Gerratana. È stato direttore del Centro di studi gramsciani presso l’Istituto Gramsci di Roma dal quale fu licenziato in seguito allo scioglimento del Pci. Si era dedicato all’insegnamento universitario presso gli Atenei di Sassari, di Parma, di Napoli e, in ultimo, di Salerno dove era stato docente di Comunicazione Politica. Gli scritti di Antonio, in specie giornalistici, sono stati raccolti, su impulso di Carlo Ricchini, storico caporedattore all’«Unità», da Diego Giannone, allievo di Antonio a Salerno e attualmente professore ordinario di Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, in un volume (Affermare la verità è una necessità politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011). La sua intensa attività di studioso è documentata dalla Bibliografia in appendice al volume aggiornata nell’appendice al volume di Santucci Senza comunismo. Labriola, Gramsci, Marx, Editori Riuniti, Roma, 2017, seconda edizione.
Vorrei ricordare di Santucci, in quest’anno in cui ricorrono i 40 anni dalla morte di Berlinguer e i 60 da quella di Togliatti, un intervento del 29 ottobre 1999 – nell’ambito di un Dossier del settimanale «La Rinascita della sinistra» su Dalla Bolognina all’abiura – intitolato La radice del comunismo italiano. Con una lucidità pari alla chiarezza dell’esposizione, Antonio criticava aspramente, e con una punta di rammarico, le scelte culturali e politiche che determinarono la fine del Pci, mettendo in evidenza quello che a lui (ma condivido pienamente le sue parole, allora come ora, e penso di non essere il solo) sembrava l’aspetto più debole della svolta della Bolognina: «non aver tenuto debito conto di quanto il marxismo avesse contaminato la cultura nazionale restandone a sua volta contaminato». Ricordando i meriti dei comunisti italiani nella loro battaglia per l’affermazione della cultura e delle istituzioni democratiche, Santucci invitava «a ragionare sugli eventi davvero significativi del secolo» per non cadere in luoghi comuni e deformazioni della verità storica.
Vorrei si cogliesse il significato profondo di queste osservazioni, delle osservazioni di colui che, a buon diritto, seguendo un’indicazione di Hobsbawm, va ricordato come uno dei massimi studiosi di Antonio Gramsci, insieme alla sua lezione di metodo: scrupolo filologico, nessuna sollecitazione dei testi, nessuna concessione alle mode, nessun cedimento alle strumentalizzazioni politiche che, anzi, vanno combattute sempre e comunque in nome della ricerca e dello studio attento.
Da un articolo che scrisse per «Liberazione» nel 1997 in occasione del 60° anniversario della morte di Gramsci, mi piace riportare una citazione che riassume il punto di vista di Santucci intorno alla politica e alla cultura: «Secondo Gramsci […] “In politica si potrà parlare di riservatezza, non di menzogna nel senso meschino che molti pensano: nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente”. E a ben guardare questa “necessità politica” si collega strettamente alla principale categoria del suo pensiero, l’egemonia». Antonio ha sempre lottato per l’egemonia, schierato da una parte, convinto, come ha insegnato a molti di noi, di essere «semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde e non le baratta per niente al mondo». Aggiungerei, per disegnare un profilo ancora più prossimo a quello che Santucci fu, e resta nella memoria, un passo di Gramsci che Antonio citò nel corso di un Convegno tenutosi a Roma nel 1987: «Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire.»
Per ricordare l’amico e il compagno, viene proposto un suo articolo del 10 settembre 1999 pubblicato su «la Rinascita della sinistra» all’interno di uno Speciale Togliatti.
Togliatti e Gramsci, un ribaltone storiografico
di Antonio A. Santucci
in la Rinascita della sinistra, 10 settembre 1999
C’era una volta una popolare icona che rappresentava Marx e Engels nei panni di Dioscuri del socialismo. E difatti ai contemporanei il loro sodalizio politico e scientifico appariva indissolubile. Al punto che i due si facevano beffe di quei gazzettieri che li trattavano come un sol uomo, con tanto di verbi al singolare: «Marx e Engels scrive…», «Marx e Engels dice…». Ma l’ironia, sia pure quella dei maestri, non è musica per tutte le orecchie. Cosicché negli anni cupi della stalinizzazione del movimento comunista, l’ortodossia puntava tranquillamente al rialzo: «L’opera di Lenin e di Stalin, così come l’opera di Marx e di Engels, è un’opera di un solo pezzo» proclamava Giuseppe Berti. E non da solo.
Nel caso di Gramsci e Togliatti non s’è arrivato a tanto. Eppure, per un bel tratto di storia, quel binomio ha certificato l’identità pubblica dei comunisti italiani: militanti ed elettori, appunto, del partito di Gramsci e di Togliatti. Col tempo però le cose sono andate aggrovigliandosi. Il loro rapporto? Ottimo. Anzi, a ripensarci, catastrofico. Un vero ribaltone storiografico.
Ottimo rapporto finché, Togliatti vivo, questi s’era incaricato di far conoscere con successo gli scritti del compagno scomparso, le Lettere dal carcere, i Quaderni, i carteggi politici e gli articoli giornalistici del periodo “legale”. Ma anche di commemorarlo come Capo della classe operaia italiana. Pensatore e uomo d’azione capace, lui «primo bolscevico italiano», di guardare allo sviluppo democratico nazionale, di saldare l’ascendenza leniniana alla tradizione progressiva del paese, dal Risorgimento all’antifascismo e alla lotta di Liberazione. Di ispirare insomma la via italiana al socialismo. Una linea non sempre retta, certo, a momenti sofferta, che conduceva tuttavia il Pci da Livorno e Lione all’opposizione al regime, alla Resistenza e alla nuova Repubblica parlamentare. Era questo (e altro ancora) il Gramsci di Togliatti, comunista esemplare e insieme patrimonio morale e intellettuale dell’intero popolo italiano.
A rafforzare il senso della passione costante con la quale a partire dal dopoguerra Togliatti si sarebbe richiamato all’eredità politica gramsciana, e il peso della sapiente operazione culturale organizzata attorno all’autore dei Quaderni, contribuiva poi il dato autobiografico di un’amicizia antica, nata durante gli studi universitari nella Torino operaia dei primi anni dieci. Un legame destinato a diventare collaborazione proficua all’epoca dell’Ordine Nuovo settimanale e dei Consigli di fabbrica, nonché nel corso della comune battaglia antibordighiana in vista della formazione del gruppo dirigente che si affermerà al terzo congresso nel gennaio 1926. È questo l’anno cruciale in cui i rapporti personali fra Togliatti e Gramsci si interrompono. Il primo, dal febbraio, è inviato in Unione Sovietica a rappresentare il partito presso il Comintern; il secondo viene arrestato in novembre dalla polizia fascista e rimesso in libertà, formalmente, pochi giorni prima di morire nell’aprile 1937.
Una vicenda, almeno in apparenza, tutt’altro che straordinaria in tempi di “ferro e fuoco”.
Due personalità di spicco del socialismo e del comunismo che s’incontrano, si allontanano a varie riprese per impegni politici internazionali, operano sul terreno incerto della repressione e della clandestinità, vengono in ultimo separati senza rimedio dalla sentenza di un tribunale speciale. Sorte condivisa del resto da centinaia di dissidenti e combattenti antifascisti soppressi, catturati o costretti all’emigrazione.
Dopo la caduta del regime, il ricongiungimento ideale di Gramsci con Togliatti e il suo partito sembrava dunque nell’ordine delle cose. Persino con qualche eccesso agiografico, dettato per altro dalla grammatica politica invalsa in quel periodo. Magari non «opera di un sol pezzo», la loro ma elaborazione teorica (e qui l’accento cadeva su Gramsci) e azione politica (accento su Togliatti) di forte complementarità.
Alcune voci in controcanto non mancavano. Schematizzando: sul fronte anticomunista, qualcuno si provava a contrapporre la sottomissione a Mosca, i sedimenti dottrinari marxisti-leninisti e un realismo politico prossimo al cinismo del partito diretto da Togliatti, all’apertura verso la verità, alla dignità della tragedia umana e alla finezza intellettuale di Gramsci. Fra i primi, nemmeno in forma molto velata, Benedetto Croce lettore e recensore nel ‘47 delle Lettere dal carcere. All’interno del Pci, le frange maggiormente legate al dogmatismo staliniano stentavano invece ad accogliere senza riserve “l’eresia” gramsciana della guerra di posizione come strategia del movimento operaio occidentale, della costruzione paziente dell’egemonia attraverso il consenso democratico e smaniavano nell’attesa dell’ora X della rivoluzione armata, perseverando nel tentativo di risospingere Togliatti verso il miraggio di una spiccia instaurazione della dittatura proletaria. Ad aprire inoltre qualche crepa nella fin troppo armonica identità e continuità di vedute fra Gramsci e il segretario comunista, provvedevano di tanto in tanto testimonianze e memorie di ex compagni in vena di regolare vecchi conti, riaprendo controversie del passato o denunciando torti subiti ad opera di esponenti della maggioranza attuale del partito. Nel complesso normale polemica politica, accesa ma di sicuro insufficiente a riscrivere la storia della relazione fra Togliatti e Gramsci con l’occhio al dramma di Caino e Abele. Il contesto per il salto mortale (proprio così: mortale) non era ancora maturo. Forse a causa della cautela della storiografia marxista d’allora, un eufemismo che alludeva alla sua reale “doppiezza” nell’esibire e interpretare le fonti degli archivi comunisti, alcuni fatti restavano tuttavia irrefutabili. In cima, quello che Gramsci fosse comunque da mettere nel conto delle vittime illustri di Mussolini. E riguardo alla responsabilità dell’atroce destino del rivoluzionario sardo, neanche i reazionari più faziosi si sarebbero azzardati a mischiare le carte di seme nero con quelle di seme rosso. Nel mondo diviso in blocchi, saltare al di qua e al di là dello steccato non era sport di successo, e la stessa pubblicistica neofascista si limitava a rilevare come in fondo il duce avesse opportunamente rinchiuso in cella il temibile teorico di un totalitarismo assai più barbaro del suo.
Negli anni Sessanta e Settanta la ricerca intorno alla storia del Pci si arricchisce di contributi importanti, merito soprattutto dell’opera generale di Paolo Spriano, ma anche di lavori specifici di grande interesse. E inizia a sollevarsi il velo di retorica che aveva avallato l’intreccio solidale dell’azione e delle idee di Togliatti e di Gramsci. La seconda edizione pressoché integrale delle Lettere dal carcere evidenzia il disagio politico del prigioniero di Turi, il disaccordo sulla “svolta”, l’isolamento e il sospetto di abbandono. Si torna a parlare della famosa lettera gramsciana del 14 ottobre 1926 al Comitato centrale del partito comunista sovietico e del dissenso del compagno Ercoli, vengono rimessi in discussione scopi e responsabilità dello spinoso episodio. Cadono con l’edizione critica dei Quaderni le residue censure che sfocavano il giudizio dell’autore su protagonisti e passaggi delicati degli scontri ritornanti in seno al movimento comunista.
La fioritura di questa storiografia che ha per oggetto il maggior partito comunista dell’Occidente gioca un ruolo di rilievo nella stagione dell'”eurocomunismo”. Ed è ulteriormente stimolata dalle nuove strategie politiche della sinistra internazionale, che guarda con attenzione alle ragioni del primato del Pci sia rispetto ai piccoli partiti europei, sia al Pcf e al Pce. Si affermano e si diffondono all’estero in primo luogo la conoscenza del pensiero gramsciano e di conseguenza quella della sua “applicazione” da parte di Togliatti. Sfrondato dei gloriosi orpelli di una volta, i ciclisti ciascuno sulla propria sella, il tandem continua ad andare. Ora come modello per la costruzione delle vie nazionali al socialismo, che prelude a una crescente esigenza di autonomia dall’Urss. Ma anche in precedenza, nella fase del compromesso storico, come autorevole viatico all’ipotesi di un’alleanza con le masse cattoliche.
Ma i ruggenti Ottanta sono alle soglie. Nel decennio che culminerà con il crollo del comunismo mondiale si consuma anche la catastrofe del rapporto fra Togliatti e Gramsci, che viene immerso dentro una micidiale miscela dalla quale riemergerà sfigurato. Il revisionismo storico rampante allenta gli argini dell’antifascismo, confonde i campi, concentra il dibattito sulla sequela di orrori inaugurata dalla rivoluzione d’Ottobre. In Italia decolla una poderosa campagna politico-scandalistica orchestrata dai socialisti. Già all’assalto di Gramsci e della teoria dell’egemonia (incompatibile con la democrazia) nel 1977, dieci anni dopo cambiano registro. «Nel cinquantesimo anniversario della sua morte – dichiara Craxi – i socialisti italiani rendono omaggio alla memoria di un profeta della rivoluzione impossibile, che armato di una formidabile intelligenza critica seppe dirigerla anche contro le degenerazioni e le involuzioni della rivoluzione comunista e dello stalinismo, avanzando l’idea di un’egemonia nel consenso quando trionfava la dittatura fondata sul sangue e sul terrore».
Basta quindi con Gramsci e Togliatti: «Gramsci o Togliatti, questo è il problema» titolerà amleticamente il Corriere della sera.
Nel corso del convegno sullo stalinismo promosso dal Psi nel marzo 1988, si spara a palle incatenate contro Togliatti complice dei crimini di Stalin. Fra le loro vittime anche Gramsci, il dissidente scientemente emarginato e condannato a morte con sentenza emessa al Cremlino. La direzione comunista prova ancora a contrattaccare.
Un titolo dell’Unità recita: «Il Pci sullo stalinismo e Gramsci “Reagiamo con sdegno alle speculazioni”». Sintomatico è però il soprattitolo: «Deplorevole» anche un articolo su l’Unità. È questo infatti l’ingrediente più corrosivo della suddetta miscela: la crisi di identità politica del partito comunista che si riverbera sulle posizioni di alcuni dei suoi stessi intellettuali, proclivi a inseguire le provocazioni di valenti corsivisti e a ignorare i risultati (di ben altro segno) degli storici seri. Un cupio dissolvi che andrà a buon fine l’anno seguente.
Catapultato a furor di popolo Togliatti nel libro nero del comunismo, Gramsci verrà proiettato verso un nebuloso avvenire da pensatore liberale. Questa la cronaca, la storia naturalmente è altra cosa.
La fotografia di copertina è stata gentilmente concessa dalla famiglia