Il 24 marzo per i romani, ma non solo, è un giorno particolare legato alla memoria di uno dei momenti più drammatici della nostra lotta di Liberazione dal nazifascismo di cui quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario. 335 massacrati alle Fosse Ardeatine, «la strage simbolo della Resistenza italiana» (M. Avagliano, M. Palmieri, Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell’eccidio simbolo della Resistenza, Einaudi, Torino, 2024, p. XXV), come rappresaglia per l’azione di guerra compiuta il 23 marzo a via Rasella nel corso della quale morirono 32 militari nazisti (il trentatreesimo spirerà dopo il ricovero). Periscono anche due civili (Pietro Zuccheretti, 12 anni, e Antonio Chiaretti, 48 anni). Contrariamente a quanto sostenuto dall’attuale Presidente del Senato, i nazisti, non essendo “una banda musicale di semi pensionati e non nazisti delle SS”, non diedero vita ad un concerto all’aperto ma iniziarono a sparare in tutte le direzioni (i fori dei proiettili sono ancora oggi ben visibili sui muri delle abitazioni fra via Rasella e via del Boccaccio) uccidendo 5 persone fra le quali Erminio Rossetti, di 20 anni, milite portuario del reparto speciale Ettore Muti e autista del questore Pino Caruso, che si adopererà attivamente per stilare una lista da aggiungere a quella già redatta da Kappler con i nominativi di quanti saranno assassinati alle Ardeatine. Vengono rastrellate sul posto 250 persone e allineate davanti palazzo Barberini. Quello che avvenne dopo non viene ripercorso in questa sede. La bibliografia è sterminata anche se corre l’obbligo di rammentare almeno un titolo, ossia Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma, 1999. Va ricordato che lo stesso Kesselring, testimoniando il 16 novembre 1946 al processo contro i generali Von Mackensen e Maltzer, ammise che nessuna procedura fu attivata prima della rappresaglia per rivolgere un appello alla popolazione o agli attentatori e nessuna richiesta di consegnarsi fu presentata ai partigiani. La rappresaglia finalizzata all’eliminazione di massa faceva parte del sistema di occupazione nazista, partecipato dai fascisti della Rsi. Qui l’ormai anziano studente del “Liceo-Ginnasio Pilo Albertelli” vuole richiamare alla memoria il profilo di colui che fu una delle vittime del massacro e quello di un suo allievo di cui soprattutto i giovani sanno poco.
Pilo Rosalino Albertelli era nato a Parma nel 1907. All’inizio non sembrava un ragazzo portato per gli studi ma ebbe insegnanti (nel senso proprio di coloro che lasciano il segno) che lo avvicinarono con crescente entusiasmo allo studio, motivandolo, in specie per la filosofia. Studiò all’Università di Roma e si laureò discutendo una tesi intitolata Problemi di gnoseologia platonica (relatore Guido Calogero, presidente della commissione Giovanni Gentile). Già dal 1928 la sua attività di “resistente” (voleva creare una rivista di storia del Risorgimento con la quale diffondere le idee liberali) diventò nota alla polizia fascista al punto che trascorse due mesi di carcere a San Vittore a Milano dividendo la cella con Ugo La Malfa. Condannato a 5 anni di confino, il provvedimento fu trasformato in un’ammonizione che prevedeva tre anni di vigilanza speciale. Nel modo seguente lo descrive un suo famoso studente presso il Liceo Classico “Vitruvio” di Formia, vicino l’attuale Latina: «Insegnò al Vitruvio per una breve supplenza un giovane da poco laureato: Pilo Albertelli. Si vedeva platealmente che era nuovo alla cattedra. Nemmeno lo nascondeva. (…) Lesse con noi il Fedone. Non ricordo, non so dire come ci spiegò Platone. Ma ci trasmise un senso dell’interrogarsi sul mondo. (…) Lo rividi a Roma, quando già ero nella cospirazione antifascista. Così fu anche con Gioacchino Gesmundo (…) mio insegnante di storia e filosofia, stavolta in terzo liceo. Ambedue quei maestri furono assassinati alle Fosse Ardeatine. (…) A Formia capimmo quasi subito che quei due, Gesmundo e Albertelli, erano antifascisti» (P. Ingrao, Volevo la luna, Einaudi, Torino, 2006, pp. 33-34). È da riportare il ricordo con cui Ingrao conclude le pagine della sua autobiografia dedicate al Liceo di Formia nel quale studiò: «Ci fu poi, per me, un episodio che non c’entra con la scuola (o forse, in altro senso, c’entra). Ho fisso il ricordo del giorno in cui mio padre, passeggiando con me per una via di Formia (quasi all’uscita verso Napoli), mi indicò un uomo, basso e un po’ curvo, come raggricciato. E mi disse: – Quello è Gramsci -. Non so se è una mia invenzione, o accadde davvero» (ivi, p. 35).
Dopo essere stato supplente al “Liceo Classico Tasso” di Roma, Albertelli superò il concorso per l’insegnamento e ottenne la cattedra a Livorno; nel 1935 iniziò il suo magistero presso il “Liceo Classico Umberto I” di Roma (dal 1954 intitolato allo stesso Pilo Albertelli) avendo fra i suoi alunni Giorgio Marincola. Padre italiano e madre somala, Giorgio fu “partigiano di pelle nera” e fu ucciso nel 1945 in Alta Italia da un gruppo di soldati nazisti in ritirata. Il suo perché? è nella quotidiana lezione del suo insegnante di filosofia, Pilo Albertelli, il quale lo avviò alla formazione di un’autocoscienza critica come atteggiamento di dissenso rispetto al regime fascista, unitamente ad una formazione culturale e politica di fondo: «Se ne trovano moltissimi indizi fra gli appunti di Marincola ritrovati nella casa paterna e conservati dai familiari…» (C. Costa – L. Teodonio, Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923-1945), Iacobelli, Albano Laziale, 2008, p. 54).
Il suo maestro combatte nella battaglia di Porta San Paolo, entra nella Resistenza e fonda le formazioni di Giustizia e Libertà. Partecipa a diverse azioni e viene catturato il primo marzo del 1944. Sottoposto a torture, per farlo parlare gli aguzzini minacciano di prendere la moglie, Amelia, e i figli, Guido e Sergio, e di torturarli davanti a lui. Tenta, invano, di togliersi la vita due volte. Dirà ai suoi torturatori: «Adoperate pure le vostre armi e i vostri mezzi, io uso l’arma che mi è rimasta: il silenzio». Verrà inserito nella lista predisposta da Caruso per essere inviato alle Ardeatine.
La forza del resistente si univa alla capacità dell’insegnante; Albertelli traeva dal testo che leggeva in classe il senso di qualcosa che, da un lato, istruiva e, dall’altro, educava e, quindi, formava al dissenso e alla resistenza nei confronti del regime fascista. In sostanza proponeva quella sommatoria di educazione ed istruzione che, nella lezione gramsciana, dà vita alla formazione e realizza, in modo concreto, la finalità principale dello studio come attività disinteressata, für ewig, per sempre.
Se lo studio non è finalizzato ad un obiettivo immediato e non prende origine dalla contingenza, il suo esito è il proporsi per l’eternità, intendendo con ciò il mantenere vivo nella coscienza un insegnamento che non è andato perduto dopo il momento del raggiungimento del traguardo valutativo ma che si proietta oltre trasformandosi in un valore, in un principio consolidato di riconoscimento di quel valore nel tempo lungo della storia riproponendolo ogni volta che la meraviglia della storia chiederà il suo intervento (nel caso di Albertelli e Marincola, il valore di riferimento è la libertà dall’oppressione materiale e intellettuale della dittatura fascista; oggi, un valore di riferimento potrebbe essere la conoscenza dei diritti e dei doveri dei cittadini garantiti dalla Costituzione repubblicana, democratica ed antifascista).
Scrive il giovane Gramsci: «L’uomo passa: una generazione è sostituita dall’altra. La storia degli uomini è una matrice feconda di coscienze sempre nuove, quantunque nutrite di vecchio, di tradizione. Ma la materia bruta non possiede in sé questa elasticità di rinnovamento. Sono gli uomini che gliela danno, quando hanno la coscienza di questo loro infuturarsi, di questo rivivere del loro sforzo attuale in una forza di domani» (A. Gramsci, Preoccupazioni in «Avanti!», 31 dicembre 1916, ora in Cronache torinesi, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1980, p. 678).
Questo giovanile appello alla continuità fra le generazioni lo si ritrova nello spirito della lettera al figlio Delio (ottobre 1935, dalla clinica Quisisana di Roma) nella quale il binomio scuola-storia costituisce l’ideale legame con l’insegnamento di Albertelli e con il senso profondo del suo sacrificio consegnato in eredità alle nostre giovani generazioni, e non solo a loro: «Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. ANTONIO» (A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di F. Giasi, Einaudi, Torino, 2020, p. 1069; per un uso didattico in A. Gramsci, Un Gramsci per le nostre scuole. Antologia, a cura di L. La Porta, Editori Riuniti, Roma, 2016, p. 238).
Postilla: nel corso di alcune recenti manifestazioni pro Palestina si sono uditi cori di equiparazione di Hamas con i partigiani. Invece di equiparare, facciamo una comparazione per individuare le differenze: il 23 marzo 1944 il Gap mise in atto un’azione di guerra contro un reparto di un esercito di occupazione e, purtroppo, fra gli effetti collaterali, ci furono due vittime civili. Il 7 ottobre 2023 Hamas ha messo in atto un’azione terroristica contro civili, anche se in un territorio occupato dall’esercito israeliano (Israel Defense Forces) dal 1967, ma sono stati colpiti soltanto i civili (sia nella forma dell’uccisione sia in quella del sequestro). La differenza è abbastanza evidente allo stesso modo della distinzione fra Stato nazista e attuale Stato d’Israele che, pur perseguendo una politica genocidiaria nei confronti dei palestinesi di Gaza, è comunque uno Stato democratico. Proprio la Corte internazionale di giustizia, il 26 gennaio di quest’anno, ha ritenuto plausibile l’accusa di genocidio nei confronti di Israele il quale, con le sue azioni militari, sta infrangendo gli articoli II e III della Convenzione sul genocidio (neologismo coniato nel 1944 dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin per descrivere la politica razzista del Terzo Reich e il genocidio armeno) entrata in vigore il 12 gennaio del 1951.
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