Premessa: chi scrive richiama espressamente quanto già detto nell’analogo caveat avanzato nel contributo del 20 maggio scorso. Questo nonostante sia perfettamente a conoscenza del noto principio secondo cui “excusatio non petita accusatio manifesta”. Qui aggiunge che, ovviamente, trattando di valutazioni opinabili, cercherà di mantenere un tono non solo continente ma anche obiettivo, senza per questo restare indifferente e non solo perché fa parte delle vittime ma soprattutto perché, come Gramsci “odia gli indifferenti”.
Quest’oggi sono quarantacinque anni da quel sabato in cui molti di noi hanno rischiato la vita, in questi giorni chi scrive ha avuto modo di molto riflettere, insieme alle altre compagne e compagni e molto, forse troppo, scrivere su questo evento. La riflessione collettiva continuerà il 19 giugno con l’incontro pubblico e anche nei mesi prossimi affinché la memoria, una volta ritrovata, non si perda.
Con questo intervento, si avvia a chiudere i propri contributi sul tema e lo fa con un filo, non troppo velato, di polemica.
In primo luogo una impressione, del tutto personale.
Mentre sulla stagione del terrorismo di sinistra abbiamo una copiosità di studi (anche di notevole impegno storico-scientifico) e memorialistica (quest’ultima, ovviamente, di parte per sua natura), sul terrorismo neofascista si registrano (a memoria di chi scrive) una manciata di scritti, per lo più di natura giornalistica e in alcuni casi, ad avviso di chi scrive, lacunosi e parzialmente assolutori.
Se poi dobbiamo fare il punto sulle ricostruzioni specifiche dell’attentato che si ritrovano in questa manciata di scritti, quando viene citato lo si fa con un tono tale da derubricare il tutto quasi ad una “ragazzata”, quasi un episodio da “Ragazzi della via Pal” con mezzi mortali, fors’anche giustificato dalla atroce agonia di Francesco Cecchin(1) che morì proprio la notte prima della strage dell’Esquilino(2).
Ma vediamo almeno la più eclatante tra le sottovalutazioni pubblicistiche, contenuta nel libro di Nicola Rao, Il Piombo e la Celtica. (3)
“Se la vendetta «mirata» (seppure con un obiettivo sbagliato) per Ramelli salta, quella indiscriminata per vendicare Francesco Cecchin andrà in porto. Militante missino della sezione Trieste-Salario, frequentatore di Sommacampagna, Cecchin è anche amico dei rivali di Terza Posizione, che proprio in quel quartiere hanno la loro roccaforte. La sera del 28 maggio, mentre sta passeggiando con la sorella, viene riconosciuto e inseguito da un gruppo di militanti del Pci della sezione locale. Lo ritrovano, già in coma, riverso in un ballatoio cinque metri sotto il livello della strada. Nessuno saprà mai se è stato spinto dagli avversari o ci è caduto da solo, ma il fatto rimane: Cecchin è in fin di vita a causa di una tentata aggressione dei compagni. Morirà il 16 giugno. La vendetta scatta immediata, il giorno stesso. Al Fuan, a spingere per la rappresaglia sono soprattutto l’ex gruppo Prati e Dario Pedretti. L’obiettivo: una sezione romana del Pci contro cui lanciare un paio di bombe a mano da esercitazione. Fare insomma un’azione spettacolare, ma senza morti. Fioravanti è contrario, tanto che per il pomeriggio in cui è programmata la rappresaglia si precostituisce un alibi, restando nel giardino di casa a cogliere albicocche con la fidanzata di allora. Oggi spiega: Non è che fossi contrario alla vendetta, ma solo contro la rappresaglia indiscriminata, gli spari nel mucchio. Alle 19.30 scatta il blitz. Alla sezione del Pci Esquilino, in via Cairoli 131, è in corso un’affollata assemblea di iscritti, quando all’improvviso entrano due giovani. Uno spara sei colpi con una 7,65 alle gambe dei presenti, mentre l’altro lancia all’interno due bombe a mano Srcm da esercitazione.
Poi i due fuggono su un Vespone e una moto, con due persone alla guida che li stanno aspettando. Il bilancio è di venticinque feriti, tre dei quali gravi. La rivendicazione arriva in piena notte, alle 3.30, con una telefonata al Messaggero: Ieri un Nucleo Armato Rivoluzionario ha colpito la sezione del Pci di via Cairoli. Eseguiamo così in parte la nostra sentenza di condanna nei confronti dei responsabili dell’omicidio del camerata Francesco Cecchin, ucciso davanti alla sezione del Pci di piazza Vescovio. Diciamo in parte perché ieri abbiamo colpito semplici attivisti del Pci, complici morali in quanto portatori dell’antifascismo più reazionario. Domani colpiremo i responsabili materiali, già individuati e condannati, questa volta a morire. Ribadiamo ancora una volta che i nostri veri nemici sono i rappresentanti dell’antifascismo di Stato, in quanto i loro mezzi subdoli (dai mass media alla magistratura) ci colpiscono certo di più di chi ci affronta apertamente in piazza. Ma chi oggi ha riempito le galere di camerati e ha insozzato sui giornali e alla televisione la memoria dei nostri caduti, sappia che, dopo averli distrutti, sapremo anche convincere la gente che quello che abbiamo fatto rientra nel giusto. Post scriptum: precisiamo che sono stati sparati sei colpi calibro 7,65 e lanciate due bombe a mano di tipo Srcm da esercitazione. Il gruppetto che realizza l’azione è composto da quattro persone a bordo della Vespa e della moto. Alla guida Di Vittorio e una persona mai identificata, mentre a entrare nella sezione sono due leader di via Siena: Pedretti e Aronica. Sentiamo Di Vittorio: Quando muore Cecchin, decidiamo subito di reagire. Il primo obiettivo che ci viene in mente è la sezione del Pci di Ponte Milvio, ma quando arriviamo là troviamo una marea di auto e blindati della polizia. Non lo sapevamo, ma quel pomeriggio c’era un’assemblea con un parlamentare importante del partito. Allora ce ne andiamo e decidiamo di attaccare un’altra sezione comunista: quella di via Cairoli, all’Esquilino. Dai manifesti affissi in città avevamo appreso che anche lì ci sarebbe stata un’assemblea, quindi non l’avremmo trovata vuota. Era una delle sezioni storiche del Pci in città e poi – altro particolare importante – era abbastanza vicina a via Siena. Tanto che partimmo dal Fuan e ritornammo in sede in pochi minuti. Si scendevano delle scale e c’erano diversi locali. Saranno state presenti una quarantina di persone. Tirammo due bombe a mano Srcm, tanto che la maggior parte di loro fu ferita da schegge. Sì, sparammo anche con le pistole, ma solo alle gambe di chi ci venne incontro. Non volevamo uccidere nessuno, e infatti non morì nessuno.
La cosa folle è che ci hanno condannati per strage. Secondo me, siccome Valerio era coimputato con noi in questo fatto (anche se se ne stava a cogliere le albicocche nel giardino di casa sua a Monteverde), a loro interessava presentarlo in quella messinscena del processo di Bologna come persona che aveva già una condanna per il reato di strage e avere quindi un appiglio in più, oltre a quella massa di «cantanti» che lo accusavano, per farlo condannare. Se spari a uno alla gamba non è tentato omicidio, ma lesioni. Se sparo a mille persone su un piede, sono lesioni plurime. Il reato di strage si configura quando c’è volontà omicida. Se avessimo voluto uccidere, saremmo entrati là con le mitragliette e bombe a mano non offensive, ma difensive. La bomba a mano offensiva è tirata dal soldato in avanti, quando va all’assalto, e fa solo un grande rumore per confondere il nemico. Quella difensiva è più potente, serve a proteggersi dagli assalti altrui, e se la tiri, uccide. Noi usammo volutamente quelle offensive, proprio per evitare di ammazzare gente. Era un attentato eclatante nella forma, ma misurato nella sostanza. Lo facemmo per dire ai compagni: «Fatevi i fatti vostri, non ci rompete più i coglioni». Ma penso che non sia stato recepito…
… Ma torniamo ai momenti seguenti all’attentato di via Cairoli, che segnerà il canto del cigno del Fuan-Nar, anche perché due giorni dopo Fioravanti viene arrestato e passerà tutta l’estate in carcere. Il 18 giugno la polizia svizzera blocca al valico di Ponte Chiasso un’auto targata Roma. A bordo ci sono tre giovani: Enzo Pallata, Francesco Borgogelli e Valerio Fioravanti. Saltano fuori una 7,65 con matricola limata, otto cartucce, un silenziatore e alcuni foglietti che raffigurano delle svastiche. I tre stavano andando oltreconfine per comprare dei pezzi di impianto stereo rubati, a prezzo stracciato, ma sono tempi in cui si va in giro armati per qualunque occasione… Vengono subito consegnati alla polizia italiana, che accusa Valerio di aver partecipato all’assalto di via Cairoli. Lui nega e chiama a testimoniare la sua fidanzata e una vicina di casa, che confermano: quel pomeriggio Valerio era a casa sua a raccogliere le albicocche. In più la perizia sull’arma trovata a Ponte Chiasso darà esito negativo: non è quella usata in via Cairoli. Inoltre Borgogelli dirà che l’arma era sua e non di Valerio. Alla fine, Fioravanti viene scarcerato per mancanza di indizi. È il 20 ottobre 1979.”
Chi avrà letto la ricostruzione dell’attentato(4) fatta sulla base dei nostri ricordi o la Sentenza di primo grado(5) non può non notare alcuni punti di contrasto, non secondari, con la ricostruzione del libro di Rao.
In primo luogo, il più importante: la volontà di compiere “un’azione spettacolare, ma senza morti”.
Sul punto Rao cita diffusamente le parole di Di Vittorio uno dei componenti del commando.
Di Vittorio era uno dei due motociclisti che attendevano fuori dalla Sezione Esquilino Pedretti e Aronica per la fuga.
Di Vittorio dice: abbiamo sparato alle gambe. Questo non è sicuramente vero.
Angelo, uno dei feriti più gravi, venne attinto da due colpi, uno al gomito come se, istintivamente, lo avesse alzato per proteggersi il viso, l’altro alla gamba destra. Da notare che Angelo stava seduto esattamente dalla parte opposta del salone rispetto alle scale ed un pochino più avanti, quindi poteva essere colpito solo da due proiettili che, dall’alto in basso, avevano attraversato tutto quel salone.(6)
Del resto tutti i compagni feriti erano seduti e davano le spalle alle scale o erano comunque talmente defilati che non potevano essere colpiti alle gambe se non sparando nel mucchio dall’alto in basso, quindi con una alta probabilità di colpire in parti vitali.
Quanto all’utilizzo delle bombe “da esercitazione”, la risposta sta nelle stesse parole di Di Vittorio. Le bombe da difesa (quelle più potenti che, secondo Di Vittorio, volontariamente non sono state usate proprio per non uccidere) vengono impiegate quando chi le lancia può ripararsi convenientemente dietro una fortificazione dopo averle innescate, cosa evidentemente impossibile se usate al chiuso in uno spazio ristretto, usarle in quello scantinato sarebbe stato un suicidio. Ma, in realtà, furono usate delle bombe da assalto semplicemente perché quelle Valerio Fioravanti aveva potuto trafugare durante il servizio militare.
Sta di fatto che delle due bombe una scoppiò in terra, sotto la sedia dove, fino ad un minuto prima era seduto un giovanissimo compagno, Mark B. di 17 anni, che se fosse rimasto dov’era sarebbe sicuramente morto. Chi scrive ancora ricorda lo stato del pavimento divelto dove esplose quella bomba che investì di schegge le compagne e i compagni. L’altra bomba distrusse una vetrinetta bassa, come quelle delle emeroteche, posta subito sotto alle scale le cui schegge moltiplicarono l’effetto della bomba stessa, per fortuna in un raggio relativamente limitato. Imperizia probabilmente si, volontà di non uccidere? Assolutamente no.(7)
Ma Di Vittorio dice altre cose che sono sicuramente false in merito alla scelta della nostra sezione, della prima chi scrive è testimone diretto, mentre la falsità dell’altra può essere facilmente documentata ed è intuitiva per chi conosce la vita del Partito.
La prima affermazione sicuramente falsa è che i NAR appresero dell’assemblea dai “manifesti affissi in città”. Come già scritto il 27 aprile, su queste stesse pagine, nessun manifesto era stato affisso per quella assemblea, anche perché chi aveva i soldi per farli stampare?
Inoltre l’assemblea di sabato, come già detto, era la prosecuzione dell’assemblea del giorno prima e nessuno, a parte i partecipanti di venerdì 15, poteva sapere che quel sabato sera ci sarebbero stati tutti quei compagni.
La seconda affermazione è quella secondo cui l’obiettivo originale sarebbe stata un altra sezione del PCI, quella di Ponte Milvio. I terroristi avrebbero trovato davanti alla Sezione “una marea di auto e blindati della polizia” perché “quel pomeriggio c’era un’assemblea con un parlamentare importante del partito”.
Come già detto nello scritto del 27 aprile, tutte le iniziative, le assemblee, le riunioni del Partito a Roma venivano pubblicate nella apposita sezione, tipicamente a pagina 11, dell’Unità.
Come potrete constatare, il giorno 16 giugno del 1979, in quella sezione del giornale, non c’era traccia né della nostra Assemblea né, tantomeno, di una “importante assemblea” a Ponte Milvio (per conoscenza dei più giovani e di chi non visse mai l’esperienza della militanza nel P.C.I., quelli tra parentesi sono i nomi dei compagni della federazione romana che presiedevano le assemblee di Partito).
Inoltre, ben difficilmente la Questura avrebbe concesso un presidio di Forze dell’ordine per una assemblea di Partito, svolta all’interno di una sezione, anche alla presenza di un “importante deputato”. Di assemblee in sezione con deputati e membri della direzione nazionale, anche parecchio importanti, chi scrive ne ha viste diverse e non ha mai visto un particolare schieramento, men che meno di blindati. Al massimo passava la macchina del distretto competente a dare una occhiata se qualcuno della sezione glielo aveva chiesto, quasi in via amichevole, quando come nel nostro caso i rapporti erano buoni.
Infine, sulla estraneità e la contrarietà di Valerio Fioravanti all’attentato.
Forse significativamente, il libro di Rao non cita la prima rivendicazione dei NAR, quella telefonica al Messaggero, alle ore 20,20, in cui viene dato per certo “l’abbattimento” di un compagno (8) ma solo il più lungo comunicato successivo, fatto trovare all’ANSA alle 3,30 di notte (facendo anche confusione tra i due eventi), in cui non si parla più di morti ma solo di feriti, quasi a voler minimizzare la portata dell’attentato.
Eppure è lo stesso fratello di Valerio Fioravanti, Cristiano (come riportato in Sentenza), a riferire della rabbia espressa dal “capo” dei NAR perché, nonostante agli avesse messo a disposizione di Pedretti e Aronica “armi particolarmente efficienti”, non c’era scappato il morto. È sempre Cristiano a riferire che le modalità dell’azione erano state suggerite da Valerio e che questi si era precostituito un alibi.
In questo mare di falsità testimoniali, a ben vedere, una cosa interessante il Di Vittorio la dice: “Si scendevano delle scale e c’erano diversi locali.”
Dato che Pedretti e Aronica compirono la loro azione stragista appena scesi dalle scale, anzi per quanto avete appena letto quasi sicuramente spararono dal pianerottolo, non ebbero certo il tempo di fare un giro turistico della sezione, come potevano sapere che c’erano diversi locali? Si sono trovati davanti un muro di compagne e compagni in assemblea sulla sinistra, l’angolo del ciclostile sulla destra e una porta chiusa (quella della stanza della FGCI) davanti, altro non hanno potuto vedere.
Questo, può significare una cosa sola, cioè che nella nostra sezione qualcuno dei NAR o vicino a quegli ambienti c’era già entrato e aveva avuto modo di vederla bene. La cosa non stupisce perché la nostra sezione e il nostro circolo della Federazione giovanile erano molto attivi nel quartiere, in quegli anni il Partito aveva, ad esempio, organizzato uno sportello di consulenza, tenuto da compagni avvocati, sulla applicazione dell’Equo Canone, il Circolo aveva organizzato, con tre compagni insegnanti, corsi per la preparazione all’esame di maturità per gli studenti delle tante scuole superiori del quartiere, i locali della sezione erano aperti tutti i pomeriggi, spesso anche oltre l’ora di cena e c’erano sempre almeno una decina tra compagne e compagni intenti in attività preparatorie, riunioni, ecc. anche di sabato, spesso anche di domenica. Stavamo vicino alla stazione Termini, il quartiere era frequentato da tanti disperati (la droga era sempre presente), capitavano spesso in quello scantinato clochard che cercavano una sigaretta, qualche spicciolo, semplicemente una parola e qualcuno che non li trattasse da lebbrosi.
Molto spesso, specie per noi allora molto giovani, la sezione era una sorta di ritrovo in cui incontrare compagni che erano diventati anche amici, in sezione sono nate storie d’amore che hanno avuto le loro evoluzioni, c’è chi si è lasciato subito, chi ha divorziato dopo pochi anni e chi sta ancora insieme dopo oltre quarant’anni.
Ci sono amicizie che durano anche oggi. Quel giorno, ad esempio, era la vigilia del compleanno di uno di noi e sicuramente ci saremmo trovati in sezione per organizzare quel poco che gli scarsi quattrini in tasca ci avrebbe consentito l’indomani. Insomma c’erano sempre parecchie persone, specie di noi più giovani.
Questa è una delle chiavi della scelta del bersaglio da colpire.
Secondo chi scrive, lungi da essere una scelta a caso, la sezione di Esquilino fu scelta per una serie di motivi.
In primo luogo era sempre aperta e c’erano sempre una decina di compagne e compagni fino alle otto, otto e trenta ogni sera.
Era una sezione simbolo, aveva un gruppo di giovani della FGCI compatto e coeso, che frequentavano o avevano frequentato le scuole del quartiere (alcune delle più grandi e problematiche di Roma, l’Istituto Tecnico Galilei, il Commerciale Pietro della Valle, i licei Sarpi e Newton) e, anche dopo il diploma, tutti noi continuammo a stare sotto quelle scuole.
Gli scontri verbali e, più raramente, fisici con l’Autonomia Operaia (fortissima al Sarpi e presente in tutte) furono frequenti e non arretravamo mai. Insomma un Circolo della FGCI e una Sezione visibili e molto particolari per essere nel centro storico di Roma.
Queste vicende erano sicuramente a conoscenza dei nostri avversari, non foss’altro per la presenza della Sezione del MSI di Colle Oppio cui ci legava una storica contrapposizione che datava al dopoguerra.
Infine, come dice Di Vittorio, la localizzazione della sezione, lungo una strada stretta, via Cairoli, ma a senso unico che allora (ora è cambiato) portava dalla Sezione a San Lorenzo in pochi secondi (e da li a Via Siena, sede del FUAN che ospitava quei criminali, erano una manciata di minuti).
Chi scrive si è fatta la convinzione che i NAR non si aspettassero di trovare così tante persone quella sera in sezione ma pensassero di trovare la solita decina di compagni e compagne e stavolta, contrariamente a quanto fatto pochi mesi prima a Radio Città Futura, portare a termine la strage programmata.
Sono convinto, ripeto, che l’attentato sia stato programmato, come possibile bersaglio, da tempo e che da tempo si fossero scelte le modalità operative.
Che l’occasione fu data dalla morte di Cecchin, ma avrebbe potuto essere qualsiasi altra, e che solo per caso si imbatterono nell’Assemblea e qui sì ci fu il miracolo o la straordinaria fortuna che ci assistette, non certo la bonomia dei criminali.
Però il fatto che l’assalto non era indirizzato, forse in origine, alla assemblea non fa venire meno la natura stragista di questo crimine e non solo per motivi giuridici.
Non si può, come fa, ad esempio, Luca Telese in “Giusva” (9), utilizzare la disparità dei mezzi impiegati per dire che il nostro attentato non poteva essere la “prova generale” di quello che il 2 agosto dell’anno successivo sconvolse la città di Bologna e il paese, con la strage più grave della nostra storia.
La tesi di Telese, in aperta polemica con Libero Mancuso(10), il PM del processo che condannò Valerio Fioravanti e Francesca Mambro per la strage di Bologna, è che la sproporzione di mezzi utilizzati, bombe a mano (11) e pistola a Esquilino e gli oltre venti chili di esplosivo di Bologna, rende incomparabili i due attentati.
Potremmo, se volessimo entrare in polemica, osservare che 1) uno utilizza quello che ha sottomano; 2) gli strumenti, anche quelli di morte, vengono usati secondo l’obiettivo prefisso, usare anche solo una frazione dell’esplosivo di Bologna nella nostra sezione sarebbe stato come (le compagne e i compagni feriti mi scuseranno il paragone) usare il proverbiale cannone per sparare ad una mosca. Ma non è compito nostro “difendere” la Sentenza di Bologna (che si difende benissimo da sola, visto che è diventata definitiva perché è passata allo scrutinio della Corte di Cassazione e perché è stata seguita da numerose altre Sentenze per la medesima strage verso altri colpevoli, da Gelli a Ciavardini).
La funzione di queste “note” o, volendo essere presuntuosi, “glosse” alla pubblicistica corrente è quella di contrastare una rilettura della storia, cui questa pubblicistica, in talune parti e forse inconsapevolmente, si presta. Rilettura in cui tutto sembra mescolarsi e che, dietro lo schermo degli anni che passano, dietro una pretesa volontà di pacificazione, favorisce una equiparazione tra vittime a carnefici. In fin dei conti, il retro pensiero sembra essere: entrambe le parti erano spinte da alti ideali e tutto sommato simili, essendo solo i mezzi diversi (lettura che fa il paio con l’infame ordine del giorno del Parlamento Europeo che equiparava, cinque anni or sono, nazifascismo e comunismo nella condanna).
A questa lettura, come a quella puramente vittimistica della destra che ora è al governo con i suoi macabri riti del “presente”, non ci pieghiamo e rivendichiamo la convinzione che chiunque ricorresse alla lotta armata in quegli anni si prestò invece alla restaurazione di un ordine imposto dalla collocazione internazionale del paese, che la lotta armata di sinistra e lo “spontaneismo” fascista (nelle loro differenze) si inquadrarono in una gigantesca eterogenesi dei fini talmente evidente da negare ogni buona fede a chi vi prese parte, al pari degli stragisti.
Non sono credente, il perdono e il pentimento li lascio a chi crede, la convivenza civile può esistere solo con chi ammette i suoi errori attivamente e non, semplicemente, dica “ho sbagliato ma ero giovane, gli altri facevano lo stesso”. Il paradosso sulla tolleranza di Popper ce lo impone.
1chi scrive non ha dubbi che quella di cui fu vittima Francesco Cecchin sia stata una aggressione efferata, vigliacca, che è sfociata in un omicidio e sicuramente auspica che, più prima che poi, si riaprano le indagini poiché il reato di omicidio è di fatto imprescrittibile. Che altrettanto avvenga per l’omicidio di Valerio Verbano, di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, di Ivo Zini, ecc.
2Alcuni ci hanno chiesto perché parliamo di strage quando non c’è stato nessun morto. Come premesso al primo dei contributi su questo blog, per il codice penale italiano (Art. 422 CP), il delitto di strage è quello che si chiama un reato di attentato e quindi a prescindere se dal fatto derivi la morte di una o più persone perché quello che conta è l’intenzione di chi commette il crimine: ≪L’elemento oggettivo del reato consiste nel compimento di atti violenti obiettivamente idonei a creare un pericolo per la vita e l’integrità fisica della collettività. La condotta è a forma libera in quanto le modalità dell’azione possono essere di varia natura, potendo integrare anche gli estremi di altri delitti. Il delitto non si configura se gli atti compiuti si sono limitati a offendere la vita di una singola persona. Il profilo soggettivo è integrato dal dolo specifico, identificabile nella coscienza e volontà di porre in essere atti violenti con l’intenzione di attentare alla vita di una o più persone.≫ (“strage” nell’Enciclopedia Treccani on line). Rinviamo anche alla motivazione della Sentenza già pubblicata su questo blog il 9 giugno scorso (https://www.parliamodisocialismo.it/2024/06/09/16-giugno-1979-ore-1930-esquilino-roma-la-sentenza/)
3Rao, Nicola. Il piombo e la celtica: Storie di terrorismo nero dalla guerra di strada allo spontaneismo armato (Le radici del presente). SPERLING & KUPFER. Edizione del Kindle. Il libro fa parte di una trilogia dedicata alla destra estrema.
4Pubblicata il 27 aprile 2024, https://www.parliamodisocialismo.it/2024/04/27/16-giugno-1979-ore-1930-esquilino-roma-strage-mancata-strage-dimenticata/.
5Pubblicata il 9 giugno 2024, https://www.parliamodisocialismo.it/2024/06/09/16-giugno-1979-ore-1930-esquilino-roma-la-sentenza/.
6Si veda la piantina pubblicata all’interno dell’intervento del 27 aprile scorso.
7Sulla capacità offensiva delle armi impiegate si vedano le risultanze delle perizie balistiche citate nella Sentenza già pubblicata.
8Vedi sentenza già pubblicata il 9 giugno;
9Telese, Luca, Negli Occhi dei NAR, in Giusva, Telese, Rao, Patierno, Colombo, Sperling & Kupfer, 2011, pag. 48 e seguenti (poi ripreso in “Cuori contro”, medesimi autore ed editore, 2017), tesi peraltro ribadita anche nella presentazione di quest’ultimo libro presso un negozio della Mondadori, il 10 ottobre del 2017 (video reperibile sul sito di Radio Radicale, https://www.radioradicale.it/scheda/522301/presentazione-del-libro-di-luca-telese-cuori-contro-le-ferite-sempre-aperte-di-una);
10Dossier “Quella indicibile verità”, Libero Mancuso, PM Processo Strage di Bologna, in La Voce delle voci, luglio 2007. “Fioravanti aveva già preso parte, come mandante, ad un’alta strage portata a segno a Roma contro la sezione Esquilino del Partito Comunista Italiano il 16 giugno 1979. Un assalto con lancio di bombe a mano e colpi d’arma da fuoco, diretti contro una cinquantina di persone intente ad assemblee di quartiere e di ferrovieri. Solo fortunosamente non si contano morti (circostanza di cui si lamenterà Fioravanti con il camerata Pedretti), ma “solo” 25 feriti. Fioravanti verrà condannato in via definitiva quale responsabile di questa stage ma anche questa volta, il “ragazzino spontaneista” che ha “sempre ammesso le proprie responsabilità”, negherà di esserne l’autore. […] Ma Valerio ha mentito anche circa la sua responsabilità nella strage portata a segno contro la sezione del Pci Esquilino di Roma, che rappresentava ai suoi occhi, per gli effetti di uccisioni indiscriminate, per la scelta politica dell’obbiettivo, una sorta di anticipazione della strage di Bologna, strage questa volta pienamente riuscita a solo un anno di distanza.”
11Nell’ultima versione della tesi di Telese, esposta durante la presentazione del libro (vedi nota 9 più sopra), le bombe a mano lanciate ad Esquilino diventano una sola;
Bravo Roberto.
Io quella sera passai in sezione subito dopo aver saputo dell’attentato. Allora frequentavo poco la sezione per motivi di lavoro (ero segretario provinciale della CNA). Mi spiace tanto non poter passare Giovedì e partecipare all’incontro che avete organizzato. in particolare mi sarebbe piaciuto tanto rivedere e salutare i compagni. Sto fuori Roma e non posso venire come invece avevo programmato. Un abbraccio a tutti i compagni.