Lo scontro fra Gramsci e Togliatti
Nell’ottobre del ’26, poche settimane prima di essere arrestato, Gramsci, in una lettera redatta a nome dell’Ufficio politico del partito, pur condannando recisamente le posizioni politiche dell’opposizione interna al Pc(b) dell’Urss1 di Zinoviev-Kamenev-Trotzkij di attacco alla Nep, rivolse una critica alla maggioranza guidata da Stalin e Bucharin, invitandola a non ”stravincere” nella lotta interna per non ”distruggere” con una divisione radicale la funzione di guida internazionale svolta dall’insieme del gruppo dirigente bolscevico.
La missiva era stata ricevuta da Togliatti, allora a Mosca, che, considerandola inopportuna, non la consegnò al Comitato Centrale del Pc(b) al quale era indirizzata, pur portandola a conoscenza di Bucharin e quindi dell’Ufficio politico del Pc(b). Temeva, consegnandola al C.C., di farne un fatto politico pubblico che avrebbe potuto aiutare l’opposizione trotzkista la cui linea politica i comunisti italiani, compreso Gramsci, non condividevano affatto. Viceversa, scrisse una lettera a Gramsci motivando il suo disaccordo. Gramsci aveva scritto: “I comunisti italiani e tutti i lavoratori coscienti del nostro paese hanno sempre seguito con la massima attenzione le vostre discussioni. Alla vigilia di ogni Congresso e di ogni Conferenza del Partito comunista russo, noi eravamo sicuri che, nonostante l’asprezza delle polemiche, l’unità del partito russo non era in pericolo (…) Oggi, alla viglia della vostra XV Conferenza, non abbiamo più la sicurezza del passato (…) Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l’elemento organizzatore e propulsivo delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi: la funzione che voi avete svolto non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la eguagli in ampiezza e profondità. Ma voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell’URSS aveva conquistato per l’impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale…”. La lettera proseguiva condannando recisamente le posizioni della minoranza: ”Eppure il proletariato non può diventare classe dominante se non supera col sacrificio degli interessi corporativi questa contraddizione, non può mantenere la sua egemonia e la sua dittatura se, anche divenuto dominante, non sacrifica questi interessi immediati per gli interessi generali e permanenti della classe. (…) ‘Sei tu il dominatore, o operaio mal nutrito e mal vestito, oppure è dominatore il nepman impellicciato e che ha a disposizione tutti i beni della terra?’ (…) E’ facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina dell’egemonia del proletariato, che storicamente si trova in una determinata posizione e non in un’altra (…) E’ in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l’origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente”. La missiva terminava con un appello all’unità: “(…) L’unità e la disciplina in questo caso non possono essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di convinzione e non quelle di un reparto nemico imprigionato o assediato che pensa sempre all’evasione e alla sortita di sorpresa. Questo, carissimi compagni, abbiamo voluto dirvi, con spirito di fratelli e di amici, sia pure di fratelli minori. I compagni Zinoviev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell’attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del C.C. dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive. L’unità del nostro Partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; (…) “.
La risposta di Togliatti e la replica di Gramsci
Togliatti aveva risposto invitando a tenere i “nervi a posto”‘: “(…) Il pericolo insito nella posizione che viene presa nella vostra lettera è grande per il fatto che, probabilmente, d’ora in poi l’unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo. Nel passato il più grande fattore di questa unità era dato dal l’enorme prestigio e dalla autorità personale di Lenin. Questo elemento non può essere sostituito. (…) Nella prima parte della vostra lettera, quella appunto in cui si espongono le conseguenze che può avere sul movimento occidentale una scissione del partito russo e del suo nucleo dirigente, voi parlate indifferentemente di tutti i compagni dirigenti russi, cioè voi non fate nessuna distinzione tra i compagni che sono a capo del Comitato Centrale e i capi della opposizione. A pagina due delle cartelle scritte da Antonio si invitano i compagni russi ‘a riflettere ed a essere più consapevoli delle loro responsabilità’. Non vi è nessun accenno a una distinzione tra di essi (…) Non si può concludere se non che il Politburo del Partito comunista italiano considera che tutti siano responsabili, tutti da richiamare all’ordine. E’ vero che nella chiusa della lettera questo atteggiamento viene corretto. Si dice che Zinoviev, Kamenev e Trotzkij sono i ‘maggiori’ responsabili della situazione e si aggiunge: ‘Vogliamo essere sicuri che la maggioranza del Comitato Centrale del Partito comunista dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive’. L’espressione ‘vogliamo credere’ ha un valore di limitazione, cioè con essa si vuol dire che NON SI E’ sicuri. Ora a parte ogni considerazione sulla opportunità di intervenire nell’attuale dibattito russo attribuendo un po’ di torto anche alla maggioranza del Comitato Centrale, a parte il fatto che una simile posizione non può che risolversi a TOTALE beneficio della opposizione, a parte queste considerazioni di opportunità, si può affermare che un po’ di torto sia della maggioranza del Comitato Centrale? (…) Vi è senza dubbio un rigore, nella vita interna del Partito Comunista dell’Unione. Ma vi deve essere. Se i partiti occidentali volessero intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo rigore, essi commetterebbero un errore assai grave (…) E’ giusto che i partiti esteri vedano con preoccupazione un acuirsi della crisi del Partito comunista russo, ed è giusto che cerchino per quanto sta in loro di renderla meno acuta. E’ però credo che, quando si è d’accordo con la linea del Comitato Centrale, il miglior modo di contribuire a superare la crisi è di esprimere la propria adesione a questa linea senza porre nessuna limitazione”. La replica di Gramsci è tagliente. Accusa Togliatti di “confusione” e “burocratismo” e di non aver capito che, sul merito del contrasto fra i dirigenti russi, “la nostra lettera era tutta una requisitoria contro le opposizioni, fatta non in termini demagogici ma appunto perciò più efficace e più seria”. Per Gramsci “La quistione dell’unità non solo del Partito russo ma anche del nucleo leninista, è pertanto una quistione della massima importanza nel campo internazionale; è, dal punto di vista di massa, la quistione più importante in questo periodo storico (…) E’ possibile e probabile che l’unità non possa essere conservata nella forma che essa ha avuto nel passato (…) Ciò non toglie che sia nostro dovere assoluto richiamare alla coscienza politica dei compagni russi, e richiamare energicamente, i pericoli e le debolezze che i loro atteggiamenti stanno per determinare. Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili se lasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità. (…) Questo tuo modo di ragionare perciò mi ha fatto un’impressione penosissima (…) Il bolscevismo consiste precisamente anche nel mantenere la testa a posto e nell’essere ideologicamente e politicamente fermi anche nelle situazioni difficili. (…) Oggi dopo nove anni dall’ottobre del 1917 non è più il fatto della presa del potere da parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti: oggi è attiva ideologicamente la persuasione (se esiste) che il proletariato una volta preso il potere può costruire il socialismo (…) “.2
Due preoccupazioni a confronto
Il nocciolo del contrasto non è di poco conto. La posizione di Togliatti, che è sul posto, cioè a Mosca, immerso nell’atmosfera dell’aspra battaglia politica che contrappone la maggioranza del partito comunista russo guidata da Stalin e Bucharin e la minoranza diretta da Trotskij, Zinoviev e Kamenev, è sicuramente dettata da una realistica visione dei rapporti di forza fra i contendenti e dalla necessità di non offrire il minimo appiglio al blocco delle opposizioni. Probabilmente in lui c’è anche la preoccupazione di non esporre il gruppo dirigente del partito di matrice ordinovista a qualche ritorsione dei vincitori tramite il Komintern. Infatti, questo gruppo (Gramsci, Togliatti, Terracini, Tasca) si era appena consolidato al Congresso di Lione, dopo due anni di certosina battaglia politica per conquistare la maggioranza dei quadri e dei militanti bordighiani a una politica meno settaria e chiusa come quella propugnata e praticata da Bordiga. Questa politica era stata esposta nelle Tesi congressuali scritte da Gramsci insieme a Togliatti ed era fondata sull’alleanza fra operai e proletariato agricolo con i contadini del mezzogiorno e delle isole, innanzitutto, e delle altre parti d’Italia, considerate forze motrici della rivoluzione. La novità delle Tesi era nel loro carattere ricognitivo del terreno dello scontro nazionale, soprattutto nell’analisi storica di questo terreno, perché, per quanto atteneva alla prospettiva politica, contemplavano in modo del tutto sbagliato “La possibilità di ricorso della borghesia e del fascismo stesso al sistema della reazione celata dalla apparenza di un ‘governo di sinistra’ “. Di qui un giudizio altrettanto errato sulle forze politiche in campo, tutte accomunate in un’unica “catena di forze reazionarie” che partiva dal fascismo per arrivare al partito socialista massimalista, passando per liberali, repubblicani e socialisti riformisti con l’inclusione del “gruppo dirigente” della Cgl. Curiosamente, sia detto per inciso, l’ipotesi ottimistica che il fascismo, definito “cadavere” dopo il delitto Matteotti, potesse essere sostituito da una qualche ipotesi di ritorno al potere di una combinazione politica di tipo liberal giolittiano, era la stessa su cui puntava anche Benedetto Croce che così spiegava il voto di fiducia dato in Senato il 22 giugno del ’24 all’indomani del rapimento del deputato socialista: “A questo modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data. Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di Mussolini al potere è condizionata al nostro beneplacito”. 3
Nei comunisti italiani, alla cui direzione era arrivato il gruppo ordinovista guidato da Gramsci, in quel momento prevaleva l’idea di dover stare con le proprie posizioni, proposte e parole d’ordine traguardate comunque all’imminente rivoluzione proletaria, nell’eventuale mutamento di situazione politica a scapito del fascismo. Con questo spirito avevano inizialmente partecipato all’ “Aventino”. Gramsci stesso aveva chiesto alle opposizioni prima di proclamare lo sciopero generale politico e poi, di fronte allo stallo della situazione, il gruppo comunista aveva proposto alle altre opposizioni il 20 ottobre di trasformare l’ “Aventino” in Antiparlamento, cioè in unica assemblea rappresentativa della volontà popolare. Quando i comunisti capirono che liberali amendoliani, cattolici popolari, socialisti riformisti e massimalisti fidavano, invece, solo sull’intervento del re, decisero di tornare in parlamento a svolgere la loro opposizione.
Ma torniamo al contrasto da cui siamo partiti. Il realismo politico che Togliatti oppone alle rimostranze di Gramsci va oltre la valutazione dei rapporti di forza in presenza perché si fa paladino e difensore di un “rigore” della maggioranza nei confronti dell’opposizione, ritenuto indispensabile ai fini dell’affermazione della giusta linea politica del duo Stalin-Bucharin. Un “rigore” che poi, negli anni a venire, in epoca maturamente staliniana, assumerà caratteri parossistici e anche criminali che porteranno non solo a “stravincere” ma a stravolgere il partito di Lenin, con l’eliminazione fisica, soprattutto attraverso i processi del ’36, del ’37 e del ’38, di gran parte dei quadri e dei militanti di epoca leniniana da parte di Stalin. Con gravi manomissioni nei gruppi dirigenti non solo del partito russo ma anche di molta parte dei partiti comunisti del Komintern.
Gramsci, di contro, pur condividendo la linea politica della maggioranza non crede affatto che compito degli altri partiti comunisti, facenti parte come sezioni nazionali del Komintern, sia solo quello di esprimersi, “senza limitazioni”, a favore dei vincitori dello scontro politico, ma di esercitare una funzione di moderazione per tenere unito al di là delle divergenze il gruppo dirigente bolscevico. Anche lui non disconosce per niente che la mancanza di Lenin e della sua capacità di superiore mediazione politica ha cambiato le cose quanto alla forma del mantenimento dell’unità politica del gruppo dirigente bolscevico, ma guarda al “rigore” invocato da Togliatti come a un pericolo se dal terreno delle posizioni politiche esso dovesse trasferirsi a quello dei provvedimenti amministrativi. E poi, coerentemente con la sua visione del Komintern, ritiene doveroso per i partiti non russi contribuire con interventi politici adeguati a tenere unito, nella diversità delle posizioni, il partito russo in considerazione della sua precipua funzione internazionale dovuta all’esercizio del potere e alla costruzione del socialismo nel grande paese sovietico. Sono due elementi questi, strettamente intrecciati tra loro, la funzione internazionale dei comunisti russi e il funzionamento del Komintern non subordinato al partito russo, che invece saranno rovesciati nel corso della piega staliniana del comunismo russo, contribuendo non poco a limitare l’influenza dei comunisti soprattutto nei paesi occidentali, cioè nei punti alti dello sviluppo capitalistico. Tutto verrà ridotto, con Stalin, alla difesa, senza se e senza ma, dell’Unione sovietica e, quindi, alla dipendenza dei suoi interessi statuali, in quanto primo luogo al mondo di una costruzione socialista e argine al dilagante nazifascismo in Europa.
Un’impronta che graverà sui partiti comunisti europei occidentali anche dopo la sconfitta del nazifascismo; limitandone la capacità di espansione di massa nel mondo bipolare dei blocchi contrapposti segnato dalla “guerra fredda”. Pur con differenze fra partito e partito – notevoli quelle del partito italiano – ma che qui non è il caso di approfondire.
L’opposizione alla “svolta” del VI Congresso
La prima grave conseguenza di questa dipendenza si ebbe con la “svolta” del ’28-’30. La scelta di una rapida modernizzazione e industrializzazione della Russia come conseguenza della costruzione del “socialismo in un solo paese”, aveva comportato il rovesciamento della politica della Nep, basata sull’alleanza con i contadini. La collettivizzazione forzata avrebbe portato alla rottura col mondo rurale da cui bisognava trarre le risorse per l’industria. Era una lacerazione profonda che avrebbe avuto conseguenze terribili e definitive sulla conformazione del potere sovietico e anche sul partito russo. In questa politica di rottura con i contadini Stalin trovò l’opposizione di Bucharin allora presidente del Komintern. La lotta contro di lui ebbe, come corollario, l’adozione da parte dell’Internazionale comunista di una politica in Europa basata su un giudizio del tutto strampalato sull’avvento di un immediato periodo rivoluzionario. Di conseguenza s’imponeva ai comunisti dei vari paesi europei l’abbandono di ogni ipotesi di fase politica intermedia e, quindi, di alleanze con la socialdemocrazia definita, tragicamente, come “socialfascismo”. Il che era peggio delle precedenti definizioni, anche gramsciane, di “ala sinistra della borghesia”. Era il definitivo abbandono della politica di “fronte unico” inaugurata da Lenin dopo il tramonto di ogni prospettiva d’immediata crisi rivoluzionaria. Il nesso fra la “svolta” staliniana interna alla Russia e quella del Komintern era evidente.
Con Gramsci in carcere, toccò a Togliatti tentare di opporsi a una “svolta” impostata al VI Congresso del Komintern nel 1928, che azzerava le posizioni del gruppo dirigente italiano che in quegli anni, fin dal 1925, si era attestato nella lotta contro il fascismo sull’obiettivo intermedio dell”’Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini.” Un obiettivo concepito, tuttavia, ancora in modo strumentale non per conquistare un regime democratico, ma per dare inizio a un processo rivoluzionario che, con un breve intermezzo, doveva rapidamente portare alla rivoluzione proletaria in quanto l’abbattimento del fascismo non poteva non comportare anche l’abbattimento del capitalismo con cui veniva identificato. Togliatti lo aveva chiarito, a scanso di equivoci, nell’intervento al Comitato centrale del partito nel marzo del ’27: “Vogliamo noi che il fascismo cada per dar luogo a un regime di democrazia o per dar luogo a un regime proletario? Tutto il nostro sforzo in quale direzione è fatto? Nella direzione di riuscire ad eliminare la possibilità di un distacco tra l’insurrezione che abbatterà il fascismo e l’insurrezione che instaurerà la dittatura del proletariato”. 4
L’opposizione di Togliatti alla “svolta” del VI congresso del Komintern nel 1928 si svolge non in modo frontale ma cercando di introdurre qualche elemento di analisi differenziata nelle rozze ed errate generalizzazioni staliniane: ”E’ del tutto esatto – dice “Ercoli”5 – il far rilevare che esistono dei legami ideologici molto evidenti tra il fascismo e la socialdemocrazia. In alcuni casi esistono pure dei legami organici e, in generale, la socialdemocrazia impiega in certi casi e in certe circostanze dei metodi apertamente fascisti. Ma anche in questo campo occorre guardarsi dalle generalizzazioni eccessive perché vi sono delle differenze tra il fascismo, che è in generale, come movimento di massa, un movimento di piccola e media borghesia dominato dalla grande borghesia e dagli agrari, e che non ha delle basi in un’ organizzazione tradizionale della classe operaia e l’applicazione di metodi fascisti fatta dalla socialdemocrazia, la quale è un movimento che ha una base operaia e piccolo-borghese”.6 E sulla maturazione rivoluzionaria delle masse: “Del tutto falso sarebbe il negare che un processo di radicalizzazione della massa operaia si stia compiendo. (…) Ma dobbiamo badare a non cadere nell’errore di considerare questo processo di radicalizzazione come un processo che si compia automaticamente e che automaticamente porti le masse operaie sopra una posizione rivoluzionaria comunista”.7
Più luce
L’intervento di Togliatti al congresso fu accolto male dalla platea dei delegati. Più volte rumoreggiò alle parole del leader comunista italiano che era passato a fare un bilancio organizzativo non positivo del periodo trascorso dal precedente V Congresso: “Se consideriamo quali erano i centri dei nostri partiti all’epoca del V Congresso e li confrontiamo con i centri dirigenti attuali, constatiamo che quasi nessuno ha resistito (…) Durante gli ultimi tre anni, anche noi ci siamo trovati talora davanti alla necessità di prendere misure organizzative. (…) Ma ciò che importa è che queste misure di organizzazione sono state prese e tutta la lotta interna (…) è stata condotta come lotta aperta per una determinata linea politica. (…) il processo di formazione del centro dirigente del partito deve seguire una linea politica e svilupparsi sulla base di una lotta politica aperta (…) “. 8
Con la scusa del tempo scaduto gli fu tolta bruscamente la parola. Non furono, perciò, ascoltate le altre osservazioni che, come spesso accade nella lotta politica, dal merito delle questioni si erano allargate ai metodi e ai modi con cui quella lotta era condotta nell’ambito del Komintern: “Riconosciamo che in alcuni casi questa regola [la lotta politica aperta n.d.r.] non è stata seguita, ma si è sostituito a questo metodo quello della lotta senza princìpi e dei compromessi tra gruppi diversi. Qui vi è un pericolo. Se vogliamo avere una parola d’ordine per la nostra attività nel campo della formazione dei centri dirigenti dei nostri partiti, possiamo trovarla nelle ultime parole del Goethe morente: ‘Più luce’. L’avanguardia del proletariato non può battersi nell’ombra. Lo stato maggiore della rivoluzione non può formarsi in una lotta di frazione senza princìpi”. 9
L’anno dopo al X plenum dell’Esecutivo del Komintern la svolta estremista fu ulteriormente accentuata. Per esempio il finlandese Kuusinen ragionava, se così si può dire, in questo modo: “I fini dei fascisti e dei socialisti sono gli stessi; la differenza sta nelle parole d’ordine e anche nei metodi. Una certa differenza è anche costituita dal fatto che il fascismo non ha bisogno di un’ala sinistra mentre per il socialfascismo essa è, al contrario, assolutamente necessaria. E, appena i suoi ‘sinistri’ sono compromessi politicamente, esso si deve creare una nuova ala sinistra. E’ chiaro che più si procede nello sviluppo del socialfascismo più esso si avvicina al fascismo puro”.10 Era la politica della “classe contro classe” che escludeva qualsiasi alleanza sociale e politica, rigettando in un unico campo avversario “borghese” e persino fascista tutti quelli che non erano disposti ad accettare le posizioni dei comunisti.
Togliatti intervenne due volte nella discussione sia sul tema sindacale sia su quello politico. In questa difficile occasione, pur non rinunciando del tutto a riproporre spunti di analisi differenziata, decise, ormai accerchiato e attaccato, di piegarsi alla linea staliniana.11
Il cazzotto nell’occhio
Gramsci, dal canto suo, pur stando in carcere, vedeva la solidità del regime fascista, malgrado la situazione economica divenuta pesante in conseguenza della grande crisi del ’29. Una crisi che, originata dagli Stati Uniti, stava infettando anche l’Europa, ma in termini meno distruttivi. A parte la Germania dove, anche in conseguenza delle onerose riparazioni di guerra imposte a Versailles dai vincitori della Grande guerra, disoccupazione e povertà dilaganti, unite alla radicalizzazione violenta e all’instabilità politica, stavano gonfiando le vele a Hitler. Il dirigente comunista era dell’opinione che ci sarebbe voluta un’azione in profondità per sgretolare le basi sociali e di consenso del regime mussoliniano che erano ancora larghe. Ed espose, in modo oggettivo e con tono distaccato, queste sue analisi e posizioni demolitorie di quelle del Komintern, almeno per quel che riguardava la situazione italiana, ai compagni del collettivo comunista di Turi che, invece, pensavano che indicazioni e direttive dell’Internazionale fossero sacrosante. A nutrire le loro certezze, forse, era anche l’inconscia speranza di ritrovare la libertà in breve tempo. Come riferisce il comunista Athos Lisa, nel suo rapporto al centro del partito nel 1933, redatto dopo la sua uscita dal carcere di Turi per amnistia, per Gramsci la classe operaia doveva ancora conquistare i contadini e altri strati sociali piccolo borghesi: “La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi in quanto la tattica del partito li conduca passo a passo a constatare la giustezza del proprio programma e la falsità di quello degli altri partiti politici”. 12 Perciò “Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d’ordine della ‘Costituente’ ” 13 non come fine ma come mezzo senza tema di apparire poco rivoluzionari. “La Costituente – riferisce sempre Lisa le parole di Gramsci – rappresenta la forma d’organizzazione nel seno della quale possono essere poste le rivendicazioni più sentite della classe operaia lavoratrice…dimostrando alla classe lavoratrice italiana come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria”.14
Gramsci, fu costretto a interrompere le lezioni politiche da lui stesso definite, per l’effetto che avevano avuto sui suoi compagni, un “cazzotto nell’occhio”. Il “capo” dei comunisti italiani, come veniva celebrato nelle campagne internazionali per la sua liberazione, non era per niente convinto che si fosse in Italia, e altrove in Europa, alla vigilia della insurrezione proletaria e della rivoluzione socialista. Anche lui, come Togliatti, non si rassegnava a considerare sorpassate le parole d’ordine intermedie. E l’indicazione per la Costituente la ribadì anni dopo nel suo ultimo messaggio politico raccolto dall’amico Piero Sraffa pochi giorni prima della morte e indirizzato al centro dirigente del partito a Parigi. I comunisti europei, in particolare i francesi, erano immersi nella politica dei “fronti popolari”: “Il fronte popolare in Italia – manda a dire Gramsci – è l’Assemblea costituente”. 15
In tutt’altra situazione Togliatti dovette arginare le incursioni staliniane che in conseguenza delle sue resistenze “opportuniste”, puntavano all’epurazione politica del piccolo gruppo dirigente del PC.d’I. sparso nell’emigrazione. Cercò e ottenne il sostegno dei giovani “svoltisti” Longo e Secchia che erano stati su posizioni critiche e di rifiuto di ogni obiettivo intermedio e fermi oppositori della linea politica dell’ “Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini”. 16 Tuttavia “i giovani” non si prestarono ad alcuna manovra per sostituire Togliatti alla testa del partito;17 e così “Ercoli” riuscì a mantenere la leadership del partito e un ruolo politico, nell’ambito del Komintern, di secondo piano e al prezzo di un allineamento totale alle tesi staliniane.18
Le conseguenze della politica dell’Internazionale comunista sul partito italiano furono pesanti. Il gruppo dirigente si spaccò e tra il 1929 e il 1931 furono espulsi dal partito ben cinque membri dell’Ufficio politico (Tasca, Tresso, Leonetti, Ravazzoli e Silone) e Bordiga fondatore del partito.
Sta di fatto che negli anni della ”svolta a sinistra” del comunismo mondiale sia Gramsci che Togliatti, in condizioni profondamente diverse, si trovarono in una situazione di non condivisione della politica del movimento comunista.19Entrambi subirono, ciascuno nel proprio contesto politico, l’emarginazione e l’isolamento politico.
Fra stalinismo e “svolta” democratica
Un allineamento che Gramsci, come si è visto, non fu costretto a operare essendo fuori dagli organismi del Komintern in cui invece era immerso Togliatti che, per di più, doveva agire cercando di salvare non solo se stesso ma l’autonomia del gruppo dirigente comunista italiano, dentro il quale i metodi staliniani di eliminazione amministrativa e violenta del dissenso non erano riusciti, fino ad allora, a insinuarsi. Fu consapevole di questa sua condizione, che si acuì durante il periodo più oscuro e feroce delle repressioni staliniane a cui “Ercoli” dette il suo disciplinato consenso nella seconda metà degli anni ’30. Il fatto è che su tutto e su tutti fece premio in lui la convinzione che l’Unione sovietica era, insieme, il luogo in cui si stava costruendo una “nuova società” socialista e il principale baluardo contro il nazifascismo dilagante in Europa e che un largo fronte antifascista, coll’aiuto materiale dell’Unione sovietica, stava combattendo in campo aperto proprio in quei mesi in Spagna. Una convinzione, quella sulla costruzione del socialismo sovietico, comune anche a Gramsci, come si evince in tutti i riferimenti fatti alla Russia nei suoi “Quaderni del carcere”. Oltre a questo, occorre osservare un altro elemento che ebbe un certo peso nell’atteggiamento togliattiano, ma anche di altri dirigenti comunisti e perfino di altri partiti di sinistra e antifascisti europei, che, pur criticando ciò che stava avvenendo in Urss nel triennio delle “grandi purghe” staliniane, guardavano a quel paese con simpatia e speranza. Cioè l’essere immersi tutti quanti nella contraddizione fra una stretta “terroristica” del regime staliniano – che il dittatore cercò di mascherare varando anche una nuova Costituzione sovietica caratterizzata dalle più ampie libertà di opinione e di organizzazione – e la “svolta” politica impressa dal VII Congresso del Komintern. Un’altra “svolta”, ben diversa e opposta a quella precedente, che impegnava i comunisti europei a condurre una lotta unitaria, in alleanza con gli altri partiti socialisti, socialdemocratici, e della sinistra democratico-borghese nei fronti popolari, per la democrazia “borghese” e contro il fascismo. Questa nuova politica, cui dettero, non a caso, un contributo di primo piano il bulgaro Georgij Dimitrov, segretario del Komintern, e l’italiano Togliatti, ovviamente ebbe l’assenso di Stalin che ne corroborò, in qualche modo anche le basi teoriche, definendo il fascismo come la “dittatura aperta e terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”. Recuperando così una certa arte della distinzione politica. La tragica, rovinosa e devastante, definizione della socialdemocrazia come “socialfascismo”, sempre di conio staliniano, e l’abbandono di ogni analisi differenziata del capitalismo e delle forze che in esso operavano, varata al Congresso precedente del Komintern, era seppellita. Almeno per il momento.
Nel 1956, di fronte alle rivelazioni kruscioviane al XX Congresso degli errori e dei crimini di Stalin, rivelazioni che Togliatti per altro non vide di buon occhio quanto al metodo seguito alieno dal suo innato storicismo e da ogni improvvisazione, fu – come riportò Giuseppe Boffa – interrogato da Davide Lajolo sulla sua mancata opposizione a quei “crimini”. La risposta fu: “Se lo avessi fatto mi avrebbero ucciso. La storia dirà se era meglio morire o vivere per salvare il partito”. Qualche anno dopo, Giorgio Amendola, più caustico, di fronte alle rinnovate denunce kruscioviane al XXII Congresso del Pcus, avrebbe chiamato quella mancanza “corresponsabilita”.
Superamento della “doppiezza”
Si è molto discusso in passato dentro e fuori del PCI, fra amici e avversari, della “doppiezza” e della strumentalità che contraddistingueva l’atteggiamento dei comunisti italiani nei confronti della democrazia. Bisogna dire che questa critica aveva un fondamento politico solido. Non era una questione di doppiezza morale, quanto, invece, uno schema politico di chiara origine leninista. In sostanza essa si basava sulle due fasi della lotta per il socialismo. Una prima fase democratico-borghese con alleanze larghe anche con forze e partiti borghesi per instaurare la democrazia là dove c’erano regimi reazionari e dittatoriali o anche soltanto conservatori e oligarchici su ristrette basi di classe, e una successiva fase di rivoluzione socialista dove occorrevano alleanze più omogenee e di classe. Ad ambedue i comunisti avrebbero dovuto partecipare da protagonisti. Era la concezione dell’ “intermezzo democratico” considerato necessario e di passaggio per approdare al socialismo, alla democrazia proletaria e alla dittatura del proletariato. Una dittatura che nell’accezione marxista, e anche leninista, non era altro che la democrazia con tutte le sue libertà il cui esercizio era riservato solo alla classe operaia e ai suoi alleati contadini attraverso organismi eletti direttamente da loro. La repubblica dei soviet, o consigli, come forma superiore alla repubblica democratica e al parlamentarismo definiti borghesi. Come si è visto l’ “intermezzo democratico” non era, per i comunisti anche quelli italiani, un periodo molto lungo, doveva solo servire ad assicurare il massimo di agibilità politica e organizzativa alle forze rivoluzionarie per smascherare di fronte alle masse popolari le ambiguità e il classismo delle forze borghesi e piccolo borghesi in tutte le loro gradazioni politiche. Ad allargare parecchio l’ “intermezzo democratico” nelle menti comuniste fu, in Europa, la lotta al fascismo. Il VII Congresso del Komintern, dopo la disastrosa ascesa di Hitler, dovette prendere atto del fallimento, anche se con i rigidi rituali staliniani che non contemplavano un’esplicita critica agli errori precedenti, dell’allucinazione del VI Congresso con la sua totale abolizione degli obiettivi intermedi e di ogni pur piccolo “intermezzo democratico” e con il corollario della tragica categoria del “socialfascimo” appiccicata alla socialdemocrazia riformista. L’artefice principale in Italia dell’uscita dallo schema leninista e del suo pratico rovesciamento fu, nella sostanza dell’azione politica, Palmiro Togliatti. La sua partecipazione alla guerra di Spagna come inviato del Komintern lo portò a vedere la possibilità di una democrazia non semplicemente borghese ma di “tipo nuovo” perché innervata sulle masse lavoratrici con le loro organizzazioni politiche, sindacali e associative. Una democrazia con la quale procedere a trasformazioni sociali di grande importanza nel fuoco della lotta antifascista. Ma rimaneva, anche se sullo sfondo, lo schema della leninista della “seconda fase” socialista. La definitiva fuoriuscita da questo schema Togliatti la operò concretamente durante la Resistenza. Quando nel marzo del ’44 arriva a Napoli in Italia e imprime alla situazione politica, impantanata nel vicolo cieco della questione istituzionale e della pregiudiziale antimonarchica, la famosa “svolta di Salerno”, ha già chiaro in mente non solo che in Italia non si può fare come in Russia, ma neanche si deve.20E’ la volta della più matura visione della “democrazia progressiva” figlia della spagnola “democrazia di tipo nuovo”. Una concezione della democrazia, intesa non più come “intermezzo”, che è la base su cui il PCI partecipa e contribuisce in modo determinante a elaborare la Costituzione repubblicana. Ed è nella Carta fondamentale che trasferisce valori e princìpi propri del socialismo e di una democrazia non solo aperta a ogni trasformazione sociale progressista ma che queste trasformazioni richiede.
Per sostenere teoricamente e culturalmente la lotta democratica per il socialismo Togliatti potrà utilizzare pienamente l’elaborazione gramsciana dei “Quaderni del carcere”. Non nel senso del superamento dello schema leninista dei “due tempi” o delle “due fasi” che in Gramsci non c’è. Prima di morire, l’ultima indicazione politica che il grande comunista sardo fa pervenire al partito è ancora quella dell'”Assemblea costituente” da lui intesa come fase preliminare alla rivoluzione proletaria. Ma ad aiutare potentemente la politica togliattiana, consistente nel “nesso inscindibile” fra democrazia e socialismo, è la sua indagine del terreno dello scontro, del rapporto fra società civile e Stato fittamente intessuto di “trincee” e “casematte”, dove è necessaria una “guerra di posizione” per costruire “un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne blocco storico economico-politico” attraverso la conquista dell’ “egemonia” da parte della classe operaia nei confronti dei suoi alleati. Egemonia fondata sul consenso, cioè sulla capacità di direzione politica cui sacrificare, entro certi limiti, anche i propri interessi economico-corporativi in nome di obiettivi e fini più generali. E come sarebbe possibile tutto ciò se non sul terreno e nell’ambito di una lotta per lo sviluppo della democrazia? Intuizione che anche Lenin ebbe, ma contraddetta da altre e opposte affermazioni e, soprattutto, dall’azione successiva.21
La profondità dell’elaborazione gramsciana poteva dispiegare tutta la sua forza politico-culturale solo sul terreno della lotta democratica scelto da Togliatti.
Continuò, però, a rimanere dentro al partito, se non altro dal punto di vista ideologico, una visione ancora legata allo schema leninista. Di qui quella “doppiezza” con cui Togliatti fa i conti in modo definitivo all’VIII Congresso del PCI, criticandola esplicitamente. Sei anni dopo al X Congresso del 1962, ribadirà la centralità della democrazia costituzionale nella lotta per la trasformazione socialista spiegando distesamente: “La stessa nostra Costituzione, che non è una costituzione socialista, non ha cambiato la natura dello Stato. Questo ragionamento però è ancora astratto. Per renderlo concreto si deve scendere all’esame del modo come è formato e organizzato l’attuale blocco di potere delle classi dirigenti e della possibilità e del modo di trasformarlo con una avanzata di natura politica. I governi di fronte popolare cambiavano la natura dello Stato? In astratto no; in concreto aprivano una nuova prospettiva politica e sociale. Si tratta di vedere se, partendo dalla attuale struttura statale, muovendosi sul terreno di quella organizzazione democratica alla quale partecipano oggi le grandi masse popolari, realizzando le profonde riforme previste dalla Costituzione, sia possibile sviluppare un movimento e ottenere risultati tali che modifichino l’attuale blocco di potere e creino le condizioni di un altro, del quale le classi lavoratrici facciano parte e nel quale possano conquistare la funzione che a loro spetta. E’ evidente che nell’accettare questa prospettiva, che è quella di una avanzata verso il socialismo nella democrazia e nella pace, noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai difficile dire quando, precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità”. 22
Il X Congresso è l’ultimo al quale Togliatti parteciperà prima della morte. Il segretario del PCI che da giovane, sull’onda della Rivoluzione d’ottobre, aveva partecipato alla nascita e alla costruzione del partito comunista per “fare come in Russia”, fondare la “Repubblica dei soviet” e la “dittatura del proletariato” anche in Italia, titolerà la sua relazione congressuale: “Per andare verso il socialismo nella democrazia e nella pace”.
1Partito comunista (bolscevico) dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. In seguito, dal 1952, Pcus: Partito comunista dell’Unione sovietica.
2Il carteggio fra Gramsci e Togliatti in P. Spriano, “Gramsci in carcere e il partito”, p.115-132. Edizioni l’Unità.
3Giugno 1924; citato in G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, 1966
4P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. vol. III, p. 106 dall’APC, 557/37. Per questo: “Il nostro partito deve lanciare delle parole d’ordine politiche ed economiche di carattere transitorio che orientino le masse che non sono ancora sotto la nostra influenza verso lo sviluppo della rivoluzione antifascista come una rivoluzione proletaria”. P. Togliatti, Rapporto sulla questione italiana al segretariato latino al VI congresso dell’I.C., 1928, op. cit., vol. II, p. 524.
5“Ercole Ercoli” è lo pseudonimo che Togliatti aveva assunto nell’esilio. In Spagna, durante la guerra civile che seguirà come inviato del Komintern, assumerà quello di “Alfredo”.
6P. Togliatti, L’orientamento del PCI nelle questioni internazionali, intervento al VI congresso dell’Internazionale Comunista, in Palmiro Togliatti, Opere, vol. II, p. 431.
7Idem
8Idem
9Idem.Queste parole furono riportate dal bollettino dell’Internazionale Comunista. “Correspondance internationale”; e dalla rivista del partito “Lo Stato operaio”.
10La situation internationale e les taches de l’Internationale Communiste, “La Correspondance international”, a. VI, n. 71, 17 agosto 1929, p. 972.
11Il clima del X Plenum, dopo la destituzione di Bucharin dalla presidenza dell’Internazionale comunista, fu dominato dall’attacco ai “conciliatori” e agli “opportunisti”. Togliatti era fra questi. I comunisti tedeschi, alleati di Stalin, fecero girare la battuta che occorreva superare le “colonne d’Ercoli dell’opportunismo”. Kuusinen, nelle sue conclusioni, lo attaccò direttamente: “Vorrei dire in modo particolarissimo al compagno Ercoli che metta da parte questo sentimentalismo, questo tatto non politico nei confronti di un elemento politico come Serra (Tasca n.d.r.). Ercoli ha mostrato lo stesso tatto nei confronti di Trotzkij al VII Esecutivo ed era un errore anche allora”. “La Corrrespondance internationale”, a. IX, n. 94, 27 settembre 1929, pp. 1292-93. Insieme alla debolezza nella lotta contro il “destro” Tasca, pesavano contro Togliatti le posizioni espresse al VI congresso, la sua fama di buchariniano, perfino un episodio dell’VIII Plenum del maggio del 1927 quando, insieme a Silone, aveva opposto un rifiuto alla pressante richiesta di Stalin in persona di approvare, in via pregiudiziale, una risoluzione di condanna di un documento di Trotzkij sulla questione cinese di cui non si conosceva il testo. Silone e Togliatti chiesero di poterlo conoscere prima di condannarlo. Al che Stalin, dopo una forte insistenza, ritirò la richiesta. Cfr. G. Bocca, Palmiro Togliatti pp. 138-141. Nel suo intervento Togliatti affermò che nella situazione politica che era maturata in Europa “tutti gli elementi intermedi scompaiono” e che anche in Italia “la rivoluzione proletaria è all’ordine del giorno”.
12Il rapporto di Athos Lisa, tratto dall’Archivio del PCI, è stato pubblicato col titolo Discussione politica con Gramsci in carcere, in “Rinascita”, a XXI, n.49, 12 dicembre 1964, con una presentazione di Franco Ferri. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. vol. IV, p. 282, Edizioni Einaudi-l’Unità.
13Idem
14Idem
15Biglietto di Mario Montagnana a Togliatti e testimonianza di Piero Sraffa in P. Spriano, “Gramsci in carcere e il partito”, p. 91, Edizioni l’Unità.
16“Togliatti e gli anziani dicevano che bisognava dare come parola d’ordine alle masse la parola d’ordine dell’Assemblea costituente repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini. A noi questo discorso sembrava falso enfatico. Costituente repubblicana di che tipo? E di quali comitati contadini e operai se non esistevano? Non era più semplice dire che ci battevamo per una società socialista?”. Testimonianza di Luigi Longo in G. Bocca, Togliatti, p.148, Editori Laterza.
17“L’Internazionale era pronta ad appoggiare una mia Segreteria. E’ vero, anche se poi si è esagerato sulla vicenda. Io a Colonia (al IV Congresso del PC.d.I. n.d.r.) sapevo che se avessi voluto fare la guerra a Togliatti avrei avuto il pieno e decisivo appoggio di Stalin. Non la feci per due ragioni: ero convinto che sarebbe stato di danno al Partito e non me la sentivo di avere per avversario Togliatti. Se è lecito dirlo, la pensavo come Giolitti il quale ‘preferiva essere secondo a Roma che primo a Dronero’; preferivo cioè essere un secondo, fornito di autorità, piuttosto che un primo imposto dall’esterno e osteggiato dal Partito”. Testimonianza di Luigi Longo in G. Bocca, op. cit. p. 217.
18“Noi vediamo una necessità politica davanti a noi. La classe operaia non può andare avanti se non passando sul corpo della socialdemocrazia. Se non riusciremo a condurre la lotta contro la socialdemocrazia con le armi e i metodi richiesti del momento, a portare questa lotta a dei risultati vittoriosi, non potremo abbattere il regime capitalista (…) Come dobbiamo passare sul corpo della socialdemocrazia così dobbiamo passare sul corpo degli opportunisti, per acquistare la capacità di raggiungere i nostri scopi”. Dall’intervento di Togliatti alla riunione del CC del partito sul caso Tasca svoltasi nel settembre del ’29. P. Spriano, op. cit. vol. IV, p. 227 dall’APC, 735/129.
19Che l’adesione di Togliatti alla linea di sinistra sia stata solo una scelta di disciplina, ma niente affatto convinta, si evince ancor più chiaramente da una riunione sulla questione italiana richiesta da Stalin e svoltasi alla fine dei lavori del X Plenum. In quella riunione il leader dei comunisti italiani, coadiuvato da Di Vittorio, disse, senza infingimenti, come la pensava: “Bisogna dire che lo sviluppo concreto della rivoluzione sarà diverso a seconda del modo con cui la rivoluzione inizierà? Formuliamo o no un’ipotesi di uno sviluppo degli scioperi? E quale sarà, in questo caso, la posizione del proletariato? (…) Quale situazione si produrrà al momento dello scoppio di una guerra? La grande massa dei soldati sarà inquadrata dai fascisti piccolo borghesi che dovremo neutralizzare con una determinata politica. E’ giusto o no porre questi problemi nelle discussioni coi compagni al centro del partito? Se il Komintern dice che non è giusto, noi non li porremo più; si dirà soltanto che la rivoluzione antifascista sarà una rivoluzione proletaria. Ma ognuno di noi penserà che non è affatto certo che ne avremo la direzione fin dal primo momento e penserà che potremo conquistarla solo nel corso della lotta. Pongo il problema concretamente: il nostro partito deve o non deve dire che sarà nella lotta che si potrà conquistare l’egemonia del proletariato?”. G. Bocca, op. cit. p. 192. E il motivo fondamentale di quest’adesione “meccanica” lo svelerà nella discussione contro il “destro” Tasca svoltasi nel CC del PC.d’I. nell’autunno successivo. Più che una discussione fu un processo la cui sentenza – l’espulsione dal partito dell’imputato – era già stata decisa e promessa a Mosca. A Tasca, che non voleva piegarsi alle tesi staliniane del Komintern, che ribadiva il suo disaccordo e che prometteva, avendo capito l’epilogo del dibattito, che non avrebbe fatto nulla contro il partito e l’Internazionale comunista anche in caso di espulsione, Togliatti rispose sprezzante: “Se senti che tu non vali niente di fronte alla volontà unita del partito e dell’Internazionale, allora fa’ quello che il partito e l’Internazionale ti chiedono, di’: riconosco, mi umilio di fronte alla volontà dell’Internazionale e del partito, starò zitto e firmerò. Questo devi fare se hai coscienza di quella che è la logica della situazione”. G. Bocca, op. cit., p. 192. Questo, infatti, Togliatti aveva fatto.
20La sua visione del futuro democratico e pluralista dell’Italia, “Ercoli” la espone a Mosca il 26 novembre 1943 in un discorso alla sala delle Colonne nella Casa dei sindacati. “L’Italia e la guerra contro la Germania hitleriana” in P. Togliatti, Opere, vol. IV, 2, pp.389-385.
21“Sviluppare la democrazia fino in fondo, ricercare le forme di questo sviluppo, metterle alla prova della pratica, ecc.: tutto ciò costituisce uno dei problemi fondamentali della lotta per la rivoluzione sociale. Preso a sé, nessun sistema democratico, qualunque esso sia, darà il socialismo; ma nella vita il sistema democratico non sarà mai “preso a sé”, sarà “preso nell’insieme” ed eserciterà la sua influenza anche sull’economia di cui stimolerà la trasformazione, mentre esso stesso subirà l’influenza dello sviluppo economico, ecc. E’ questa la dialettica della storia viva”. Lenin, “Stato e rivoluzione”, agosto 1917, Opere scelte, pag. 911, Editori Riuniti. “Chi vuol marciare verso il socialismo per un cammino che non sia la democrazia politica, arriverà inevitabilmente a conclusioni assurde e reazionarie, sia dal punto di vista economico che politico”. Lenin “Le due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica”. 1905, Idem, pag. 327.
A differenza di quel che alcuni pensano, Lenin non fu un dottrinario, anche se cercò sempre di giustificare le sue posizioni sul terreno teorico e ideologico presentandosi come il campione di un’interpretazione del marxismo antirevisionista. Fu piuttosto un politico rivoluzionario che mise la teoria al servizio delle scelte politiche. La differenza con le posizioni degli altri partiti socialisti russi, menscevichi e socialisti rivoluzionari, risiedeva non nel fatto che la rivoluzione dovesse avere due tempi, fase democratica e fase socialista, ma che il proletariato doveva esserne protagonista sia nell’una sia nell’altra. E che, nelle concrete condizioni della Russia zarista, anche le rivendicazioni di natura democratico-borghese potevano essere soddisfatte solo dalla rivoluzione proletaria. A questo, inoltre, aggiunse una concezione della democrazia incarnata nella dittatura del proletariato, cioè una democrazia proletaria superiore alla democrazia borghese. Di qui la sua affermazione che la repubblica dei soviet fosse meglio, per il proletariato alleato ai contadini, della repubblica parlamentare. Tutte posizioni e concezioni nate nel concreto della lotta rivoluzionaria in Russia. I soviet, per esempio, non furono una creazione del partito bolscevico ma nacquero spontaneamente nella rivoluzione antizarista del 1905.
22P. Togliatti, “Nella democrazia e nella pace verso il socialismo. I rapporti e le conclusioni all’VIII, IX e X Congresso del Partito comunista italiano”, pag. 227-228, Editori Riuniti
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“Sotto la guida di Gramsci e Togliatti trent’anni di lotta del Partito Comunista Italiano. ritratto a mezzo busto di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti sullo sfondo di bandiere dell’Italia e del Partito Comunista Italiano” MANIFESTO PROPAGANDISTICO, ca 1951 – ca 1951
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