Funerali di Togliatti Guttuso, ritaglioRitaglio dai I Funerali di Togliatti, Renato Guttuso

di Jean-Paul Sartre

Terminiamo questa piccola serie di scritti dedicati al sessantesimo anniversario della morte del compagno Palmiro Togliatti con l’omaggio, apparso sull’Unità del 30 agosto 1964, che il grande intellettuale francese dedicò al “Migliore”

Io sono uno straniero, eppure sento il dolore dell’Italia come un dolore mio. Questo rende evidente, senza possibilità di dubbio, il prestigio internazionale di Togliatti. Ma c’è un’altra cosa: per chi incontrava dei responsabili del PCI fuori del loro paese, in mezzo a rappresentanti di altri partiti comunisti, balzava agli occhi la singolarità del vostro Partito: esso era amato. E, ho finito per comprenderlo, ciò che prima di tutto era amato in voi — al di là di ogni questione personale — era Togliatti. Per parlare solo della mia esperienza, non è stato lui quello che ho conosciuto per primo. Ma i miei primi amici comunisti — che facevano parte della delegazione italiana al Congresso di Vienna — facevano spicco sugli altri per una libertà di parola, una lucidità di pensiero, una lieve ironia verso se stessi, che non mascheravano né la loro passione né la loro fedeltà. Si citava molto Marx, attorno a loro; essi non lo citavano: applicavano i suoi principi e il suo metodo, non esclusivamente alla sola borghesia ma alla storia del loro partito, a quella dei paesi socialisti, rigorosamente. Il marxismo in loro diveniva ciò che deve essere: un immenso e paziente sforzo di ricerca che unisca alla pratica la teoria, una perpetua riflessione su se stessi.

Essi hanno sempre rifiutato l’idea che le società socialiste e i partiti comunisti — e il loro stesso partito sfuggano alle interpretazioni marxiste, evitando con ciò quell’errore fin troppo naturale, ma grave di conseguenze, che ha portato i figli di Freud, nei loro ricordi di infanzia, a sottoporre tutti alla psicoanalisi eccetto il loro padre. Io ne ero affascinato; mi dicevo: qui è l’intelligenza italiana. Attribuivo la loro libertà intellettuale alle tradizioni di questo paese che ha visto tanta gloria e tanti lutti e che, nel pieno della sua crescita, conserva il ricordo di tante glorie scomparse. In questo senso, non mi ingannavo: ma le spiegazioni attraverso il passato non valgono gran che, se non si aggiunge loro quella attraverso il presente e attraverso l’avvenire. Il PCI era l’Italia. Ma quando ho incontrato Togliatti, ho pensato: l’Italia è lui. Egli la conserva, la mantiene e la trasforma. Lui, l’uomo di tutti e l’uomo del suo Paese, preservando il suo partito da ogni dogmatismo e guidandolo con pazienza, con fermezza verso il socialismo.

La prima volta che l’ho veduto – era, se non mi inganno, nel luglio 1954 — una cosa mi ha stupito: ero abituato ai gesti da parata, alle precauzioni — spesso giustificatissime — dei capi-partito, dei capi di Stato. Mi invitò a cena in una trattoria di Trastevere e vi arrivò solo, con i miei amici Alicata e Guttuso, e altre due o tre persone che, a parte il rispetto che debbo loro, non potevano essere scambiati per delle guardie del corpo. Eppure sei anni prima, più o meno in quel giorni, un giovane pazzo di estrema destra, spinto al delitto dalla campagna d’odio della stampa, aveva sparato su di lui, a bruciapelo tre colpi che lo avevano condotto alle soglie della morte. Ebbene, era quel resuscitato che veniva, a passi lenti e leggeri, molto disteso, incontro a me. Era lui quello che prese posto in quella trattoria infestata di stranieri, di italiani indubbiamente ostili. Santa Maria in Trastevere era allora una piazza strana. Sul marciapiede, tanti poveri, quasi tutti giovani, tanti bambini: in un caffè, poi scomparso, le madri portavano i bambini, li allattavano, non rincasavano prima di mezzanotte nella loro torrida stanza, per evitare loro l’afa degli appartamenti romani. Poche automobili, ricche e vistose, con la sigla USA; all’esterno dei ristoranti, tanti ricchi. A quell’epoca ricchi e poveri non formavano due mondi separati: venivano tollerati quei buongustai che mangiavano alla luce di lampadine rosse, al suono di una musica servile e di canzoni dolciastre, con l’impressione di degradarsi. Non immagino da noi una cosa simile. Eppure, la lotta di classe è in Italia altrettanto dura, a volte più dura, ma non ha gli stessi caratteri. E il turista, di importazione casalinga, viene preso in giro, derubato ma rispettato.

Togliatti mi fece sedere all’esterno e, sul principio, nessuno riconobbe quell’uomo vestito da piccolo borghese, dal volto arguto, sorridente, dal gesto facile ma marcato da una sorta di timidezza. E poi, tutto a un tratto, mentre ci portavano la pasta asciutta, si fece folla. Moravia mi aveva detto, vedendo passare la Lollobrigida, nel mese di giugno 1952: “Per avere una celebrità simile, bisogna essere una diva”. Ebbene no: Togliatti non era un divo: proprio un uomo come gli altri, sulla sessantina. Ma la folla circondava il ristorante: che occhi! Avevano perduto ogni durezza. Vi leggevo un grande affetto. Prima alcuni, poi tutti insieme si misero a gridare: «Togliatti! Viva Togliatti!». I clienti stranieri si chiedevano con inquietudine quale colonna del Foro, quale monumento fosse improvvisamente apparso in mezzo a Trastevere. I clienti italiani sapevano chi fosse; parlavano a bassa voce, a disagio. Se Togliatti fu contento di verificare una volta di più la sua popolarità, non lo lasciò trasparire. Parlava e soprattutto, con la sua estrema cortesia, la sua curiosità sempre vigile, mi interrogava sulla Francia e mi ascoltava. Curvo su una vecchia svizzera dalle chiome blu, il cantante del ristorante sussurrava una canzone napoletana. Sentì gridare, si voltò e venne verso di noi. Pallido di emozione: «Compagno Togliatti, — disse, — io sono iscritto al Partito». Tirò fuori il portafoglio e mostrò con fierezza la tessera. «Cosa vuoi che canti?». « Cantaci — disse Togliatti, — qualche vecchia canzone romana». Le cantò, e una la ricorderò sempre. Reazionaria, indubbiamente:


«Allarme! allarme! lì turchi so’ sbarcati Garibaldi è alle porte di Roma».

Togliatti ascoltava sorridendo, sensibile più alla spontaneità delle canzoni che al loro contenuto. Ai tempi quando il papa era padrone di Roma, degli uomini avevano inventato questo. Degli uomini: questo a lui bastava. Egli non ha mai condannato nessuno senza cercare di comprendere. La folla accompagnava il cantante con le sue grida soffocate ma piene di speranza. I clienti della trattoria avevano finito col capire. Che strana scena: quell’uomo impassibile e sorridente circondato da un piccolo cerchio di odio, e, più in là, da un grande semicerchio di amore. Al nostro tavolo, ci si cominciava a preoccupare: una provocazione dei ricchi avrebbe causato l’invasione del ristorante, la gazzarra. Due americani scelsero proprio quel momento per fischiare. Due fischi deboli, soffocati dalla paura. Fuori, li udirono, vi fu un rumore di tuono. Alicata, Pajetta, Guttuso, gli chiesero con fermezza dì lasciare il tavolo: sarebbe andata a finire male, se fosse restato. Egli diede loro ascolto, si alzò di malumore e, nell’automobile che ci conduceva via, non aprì quasi più bocca. Vedevo davanti a me un uomo irritato perché era stato privato dei diritti che gli altri uomini hanno.

In seguito l’ho rivisto spesso nelle trattorie romane. Una volta ricordo, la sua figliola adottiva venne a salutare Simone de Beauvoir che cenava con me Da Pancrazio: aveva con sé i suoi libri di scuola. Io alzai la testa: due metri più in là, Togliatti cenava, tranquillo, voltato verso la strada, in compagnia di una donna e di due uomini. Perché quella ostinazione modesta ma invincibile? Lo so: tutti i responsabili del PC italiano fanno così, sono loro che mi hanno aiutato a conoscere Roma. Ma lui? Lui rischiava la pelle.


Amava la vita delle masse

Non era né una sfida né una ostentazione: la lotta clandestina e la guerra di Spagna gli avevano dato sufficienti occasioni di dimostrare il suo coraggio perché non avesse più bisogno di mostrarlo. No: ho capito poco alla volta che egli voleva essere contemporaneamente il capo del suo partito e un uomo in mezzo agli uomini. Ricordo quell’aneddoto su Lenin, che andava a piedi dal barbiere e aspettava il suo turno leggendo il giornale: era allora — e da poco — il capo dell’URSS; si voleva la sua morte un po’ dappertutto, tanto è vero che gli spararono addosso e che non guarì mai da quelle ferite. Questa condotta esemplare non è stata seguita, a quanto ne sappia io, che da due uomini: Fidel Castro e Togliatti.

Per questo motivo, sin da principio, l’ho amato. Ho visto altri capi, in seguito; sono passato, per raggiungerli nel loro studio, tra siepi di poliziotti e di guardie del corpo. Parlavano bene, ma erano soli: mai, in nessuno di loro, ho trovato un simile amore semplice e forte per le strade affollate, per le masse. Essi parlavano a queste, dall’alto, da lontano, e godevano nel vedere, a perdita d’occhio, quel caviale nero, le teste degli ascoltatori.

Ma non entravano in queste, ripugnava loro di diventare un granello di quel caviale. Togliatti amava gli uomini fino a questo punto: anche lui parlava loro da una tribuna; era il suo compito. Ma, appena poteva, si mescolava alle folle, queste lo spingevano e lo sballottavano. Quanto le solitudini delle sue montagne, egli amava la vita unanime delle città. Non si è tagliato mai fuori delle masse. Molto più che una tattica, un simile amore — che io posso capire perché lo condivido — era un elemento del suo carattere. Risultato: due milioni dì militanti iscritti, otto milioni di elettori. Votando per lui, le masse hanno capito che votavano per se stesse. E quando gli hanno sparato addosso nel 1948. la collera le ha buttate per le strade, contro i poliziotti e i soldati; il governo si è sentito perduto…

Il suo partito è fatto a sua immagine. Quando vedevo sulle mura di San Gimignano — quasi su quelle delle chiese — dei manifesti che invitavano tutti senza distinzione alla festa dell’Unità, quando scoprivo, nel centro di una cittadina italiana, nell’ora della siesta, un vecchio sonnecchiante sulla soglia di una pesante porta aperta a due battenti su una sala vuota e leggevo, sopra la sua testa.

«Sezione del PCI», comprendevo la portata politica di quella che era inizialmente una dote personale. Il Partito non custodiva se stesso: si metteva sotto la protezione del popolo. Esso rischiava così gli attentati dinamitardi: ce ne sono stati, ma meno che altrove. Ma non si isolava dalla Nazione, rifiutava agli anticomunisti il diritto di chiamarlo «separatista».

Senza alcun dubbio, la dura sorte del PCI fu di formarsi — a prezzo di quali sacrifici — nella lotta clandestina contro Mussolini e di apparire agli altri antifascisti come un movimento di resistenza nazionale contro il fascismo che conduceva la nazione alla rovina. Allora esso non era né antistaliniano né staliniano: l’URSS era lontana, la situazione dell’Italia si imponeva su tutto. Dopo la guerra, fu necessario temporeggiare. Ma quale sollievo, col XX Congresso! E chi, se non Togliatti, ha compreso che il Partito del popolo deve vivere in simbiosi col popolo, che gli insegnamenti della guerriglia non devono essere dimenticati nell’istante in cui essa finisce? La guerra popolare non termina con la pace: essa è la forma privilegiata della lotta di classe, e l’unico modo, per un partito comunista, di essere intemazionale, è di spingere fino in fondo la propria unità con la ‘Nazione. Da questo punto di vista, si può dire — e Togliatti un poco me lo ha detto — che «la via italiana del comunismo » era in germe nella lotta contro il fascismo. Sin da quell’epoca, il PCI si batteva da solo, non poteva né giovarsi dell’aiuto sovietico né seguire i consigli del Comintern: contavano soltanto le sue alleanze con gli altri antifascisti, il rapporto fluttuante delle forze in campo.

«Non si fa ciò che si vuole, — ha detto Togliatti, — si fa ciò che si può». Ma ciò che si può determina ciò che si è. Il Partito poteva e doveva liberare la nazione da Mussolini: per questo motivo, è diventato un partito nazionale. Nazionale ma non nazionalista; Togliatti ha spiegato bene che il policentrismo era l’unica via verso l’unità. Accettare ordini esterni — fossero pure decisi dalla unione di tutti i partiti comunisti — significa rischiare di tagliarsi fuori dalla società contesa nella quale si vive, perché essi sono difficilmente adattabili a ciascuna situazione particolare. La loro stessa universalità li condanna. Occorrono princìpi comuni, uno scopo universale e che ciascuno raggiunga questo scopo, partendo da quei princìpi, come vuole. Il rimprovero che si è potuto muovere, in certi momenti, all’URSS, il suo volontarismo, Togliatti lo evitava assolutatamente: si fa ciò che si può. Questo non significava che egli fosse fatalista: il campo dei possibili è, certo, limitato, ma si può scegliere, e poi, una volta fatta la scelta, Togliatti vi si ancorava con fermezza, volontariamente, senza indietreggiare di un dito, né abbandonare nulla. Ma la sua intelligenza viva e aperta, prima di intraprendere qualunque cosa, voleva abbracciare tuffo il possibile e scegliere con calma. Dicono che abbia mormorato, nel 1948, sul letto che si pensava dovesse essere il suo letto di morte: «Nessuna avventura, compagni, nessuna avventura!».

In quell’istante una marea umana si rovesciava sull’Italia, pareva portar via tutto, egli lo sapeva o lo indovinava; ma sapeva anche che il governo, dopo il primo momento di panico, avrebbe reagito, avrebbe fatto ricorso all’esercito. L’insurrezione popolare avrebbe dovuto fallire perché non era preparata, perché sarebbe stata un atto passionale e non una impresa. Un fallimento voleva dire il Terrore, dieci anni di ritardo per il movimento operaio decimato. Fu lui, dal suo letto, a fermare la tempesta di collera che gli industriali e i politici non hanno dimenticato. Si vide la sua popolarità, si vide la sua prudenza. Si vide soprattutto che egli non voleva mettere il paese a ferro e a sangue. Di questa moderazione, quasi tutti — anche gli anticomunisti — gli furono riconoscenti Egli voleva che l’Italia fosse diversa, con un altro regime e altre strutture; non voleva — come troppo spesso si era detto — gettare l’Italia in una avventura nella quale forse sarebbe colata a picco. Da quel giorno, il PCI, possente, robusto e tranquillo, diventò senza averlo voluto di proposito, un partito nazionale. Lo accusavano, naturalmente — come fanno dappertutto altrove — di prendere i suoi ordini da Mosca. Ma non ci credevano, nessuno pensava sul serio che la solidarietà profonda dei comunisti italiani col paese della Rivoluzione si spingesse fino alla subordinazione. Vi furono momenti duri, indubbiamente: fu necessario tacere.

Ma mi trovavo a Roma nel novembre 1956 quando altrove gli insorti di Budapest venivano chiamati versagliesi e fascisti. Io vivo da comunista, leggo tutti i giorni l’Unità: non condividevo il loro punto di vista e non potevo credere alla necessità dell’intervento russo. Ma, per me, erano dei fratelli. Guttuso era sconvolto, ancor più di me. Lo era anche Togliatti, non vi è alcun dubbio Mai tuttavi insultò i vinti. Presentava l’insurrezione ungherese come una sventura nazionale e, pur sostenendo l’intervento, invitava i vincitori a ricostruire in modo tale che fosse impossibile il ritorno di violenze simili.

Fu lui, infine, ad opporsi finché poté alla condanna del Partito cinese, benché questo lo prendesse a bersaglio e benché egli condividesse le idee di Mosca sulla politica di Pechino. Così il suo Partito, nazionale e libero — libero perché nazionale — faceva di tutto per salvaguardare l’unità internazionale.

L’unità, è, io credo, una parola chiave per capirlo. Ma quest’uomo umano e buono non voleva che essa fosse imposta dall’esterno né al suo Partito da un’assemblea internazionale né ai suoi militanti da una autorità superiore e separata dalle masse. I suoi modi erano singolari e profondamente efficaci. L’ho visto parlare con dei militanti che non sempre erano d’accordo fra di loro. Egli diventava il loro capo soltanto in quanto riprendeva per suo conto le loro contraddizioni, le dissolveva nell’unità della sua unica persona, e impediva, con ciò stesso, che i conflitti esplodessero e i gruppi rivali si affrontassero.

Un amico mi ha raccontato questa storia. Egli è in disaccordo con certi aspetti di “Rinascita”, va a pranzo con Togliatti e glielo dice. Togliatti confuta uno per uno i suoi argomenti e lo lascia senza averlo convinto. Qualche tempo dopo, riunione dei redattori di “Rinascita” e dei responsabili della cultura. I primi oratori sostengono il medesimo punto di vista di Togliatti; il mio amico chiede la parola per rispondere; Togliatti si alza e gli dice: «Se tu non hai niente in contrario, parlo prima io». E il mio amico, meravigliato, lo sente riprendere per suo conto la maggior parte delle obiezioni che la settimana precedente egli stesso aveva confutato. Insomma era, adesso, Togliatti contro Togliatti. Terminò criticando il mio amico e alcuni altri per non averlo avvertito prima.

Questa storia dimostra — ma occorre? — che Togliatti sapeva ascoltare e riflettere. Era una testa dura, non gli piaceva darsi torto: il suo primo movimento di fronte ad un contraddittore, era il contrattacco. Poi, terminata la conversazione, egli la continuava dentro a se stesso, pesava obiettivamente il prò e il contro e — cosa rara in un responsabile — non temeva, in certi casi, di darsi torto. In fondo, non permetteva che a se stesso di convincere se stesso, ma accadeva che si convincesse contro le sue decisioni iniziali, partendo dalle obiezioni formulate dagli altri. Mi piace più questo che se avesse ceduto subito: significa unire la forza del carattere alla libertà dell’intelligenza. Ma quello che più mi ha colpito, è che abbia parlato lui per primo, accusandosi, lui, il capo, riprendendo per suo conto i rilievi espressi, togliendo in anticipo al mio amico ogni ragione di intervenire se non per dichiarare: «Sono del parere di Togliatti». Se l’avesse fatto, il mio amico, indubbiamente con eccessivo sdegno, si sarebbe fatto dei nemici. Anche degli amici, suppongo; la cultura sarebbe divenuta un campo chiuso nel quale si sarebbero affrontati due gruppi di partigiani. E il capo, anche se avesse parlato in seguito e dato ragione a uno dei due gruppi, li avrebbe lasciati non riconciliati; alla prima occasione, la battaglia sarebbe ricominciata, più dura. Facendo lui stesso le critiche, volgendole ad autocritica, prendeva tutto su di sé e poteva pizzicare i suoi collaboratori senza umiliare nessuno dato che i suoi colpi raggiungevano prima di tutto lui stesso. E poi univa le ragioni di tutti in una sintesi abile e provvisoria che permetteva di temporeggiare e di lasciare aperta la questione e, contemporaneamente, di chiudere la discussione. Quanto alle decisioni finali, egli si riservava di prenderle quando il conflitto fosse maturato o scomparso.

In molti altri paesi, coloro che lasciano il Partito o che ne sono cacciati sarebbero stati colpiti a morte. Moralmente e a volte fisicamente: è un fatto che la direzione delle masse si concilia difficilmente con il rispetto della persona. Togliatti sapeva unire l’una all’altra: gli esclusi — ce ne sono stati, naturalmente, ma meno che altrove — non perdono la loro personalità il giorno in cui il Partito non vuol più saperne di loro; vivono.

L’aneddoto che ho raccontato mostra bene la cura che questo responsabile di un partito di due milioni di uomini sapeva avere di ciascuno di loro: non spezzare, non umiliare mai, era la sua regola. Per merito suo, un comunista italiano può vantarsi di essere un uomo intero. Quanto a me, ho sentito spesso, dalla cortesia con la quale mi interrogava, su un paese che egli conosceva bene quanto me, che nella sua attenzione c’era un rispetto per l’uomo, chiunque fosse, che gli esponeva delle idee sincere e vissute. E anche, che le idee sue erano formate ma nessuna preconcetta, che egli conservava sempre la speranza che l’interlocutore, anche senza rendersene conto, lo avrebbe aiutato a metterle a fuoco, se necessario a cambiarle.

Un grande capo e un grande intellettuale

Il giorno dei suoi funerali ho visto, accanto alla sede del suo Partito, la parola «monolite » tracciata su un muro, indubbiamente dalla mano di un giovane fascista. Mi avrebbe fatto sorridere se ne avessi avuto l’animo: nessuno era meno monolitico di lui e — di conseguenza — del suo partito Egli aveva saputo congiungere due facoltà difficilmente compatibili, una delle quali deve appartenere al capo responsabile e l’altra è indispensabile all’intellettuale: incrollabile nella azione senza mai rimettere in causa i princìpi, il metodo e lo scopo, non formulava mai un pensiero che non contenesse il germe della propria critica.

Per questo motivo la grande maggioranza degli scrittori ha sempre avuto buoni rapporti col Partito. Diversamente (falla Francia dove, per tradizione, gli intellettuali conservatori o reazionari sono una forza reale, l’Italia annovera, a destra, molto pochi intellettuali. La maggioranza degli intellettuali italiani non sono entrati nel partito, ma conducono con esso la maggior parte delle sue lotte. Così — come deve essere, ma come non è sempre — il partito degli sfruttati è anche il partito degli intellettuali.

Anche questa, è opera sua. Quando fondò “Rinascita”, dopo la guerra, alcuni comunisti protestarono; bisognava ricostruire e combattere, che bisogno c’era di una rivista teorica? Anche tra coloro che avevano più ardentemente combattuto Mussolini, vent’anni di fascismo avevano lasciato delle tracce: credevano al divorzio tra pensiero e azione. Togliatti non cedette. L’uomo aveva questa contraddizione, la più feconda: gli italiani e gli spagnoli, al tempo della guerra di Spagna, avevano riconosciuto il suo talento di organizzatore. Ma quest’uomo di azione era rimasto fino alla punta delle unghie un intellettuale.

Indubbiamente metteva la sua cultura e la sua alta intelligenza tutte intere al servizio delle masse sfruttate. Ma conservò fino all’ultimo l’odio per lo schematismo e per le semplificazioni. La frase di Marx: «Non vogliamo capire il mondo, vogliamo cambiarlo», egli la faceva propria, aggiungendo — cosa che Marx non avrebbe disapprovato —: ma cambiarlo è l’unico modo per capirlo, giacché l’azione illumina ciò che è, partendo da ciò che sarà.

Leggendo i suoi discorsi, i suoi scritti, salta agli occhi cento volte una parola: nuovo. Tutto per lui è sempre nuovo: in ogni situazione, egli vede prima di tutto il nuovo, l’imprevisto. Il dopoguerra vedrà sorgere l’Ordine Nuovo dove egli lavora con Gramsci, il fascismo propone compiti nuovi, è esso stesso una reazione della borghesia senza precedenti; nuova è la seconda guerra mondiale, e nuovi i problemi del secondo dopoguerra, e, infine, quelli che nascono dal dominio dei monopoli e da quello che, davvero a torto, viene chiamato «il miracolo italiano». Ogni volta, bisogna adattarsi, capire. Adoperare fino in fondo il metodo marxista: sì, è l’unico vero. Pretendere che Marx abbia previsto tutto, che niente sia cambiato dopo il Manifesto comunista e cavarsela con qualche citazione, questo no. Egli ha detto una volta che bisogna spingere l’analisi più sul particolare, non trascurare nulla; non si spiegherà mai nulla se ci si limita a vedere in qualsivoglia congiuntura la famosa manovra difensiva del capitalismo minacciato.

Ci sono le tradizioni, il passato, le masse, i rapporti interni delle forze di sinistra, le false manovre, cento altri fattori, nessuno dei quali va trascurato: anche il capitalismo fa ciò che può, non ciò che vuole; in ogni momento, se lo si vuol comprendere, occorre determinare il campo delle sue possibilità. E, è ancora lui a dirlo, le forme che nascono dalla storia, cioè dalle nostra lotte, sono troppo complesse perché noi possiamo prevederle.

Per questo motivo, per merito di questo spirito di analisi e di sintesi, che viene da Gramsci e da Togliatti, il PCI non è unicamente il partito degli operai, e neppure quello degli intellettuali: è il più intelligente dei partiti. Dopo un momento di sbandamento, è stato il primo ad adattare la sua lotta a quella forma «nuova e complessa» sorta dalla politica dei monopoli e che viene chiamata, a torto o a ragione, «neocapitalismo». Grazie alla libertà del suo capo, esso è diventato per i suoi aderenti non soltanto la promessa di una futura liberazione, ma la loro libertà presente di pensare e di agire e di capire il mondo e di spezzare le proprie alienazioni. Per questi stessi motivi e non soltanto per i motivi tattici che sappiamo — difendere le libertà borghesi perché esse fra le mani delle masse diventano eccellenti strumenti di lotta — il PCI è diventato in Italia contro gli stessi borghesi il migliore difensore della democrazia.

Per tutti questi motivi, io lo amavo: ritrovavo lui in tutti i miei amici comunisti, anche quando non lo vedevo. C’era uno stile Togliatti che, spero, gli sopravviverà. Eppure lui, nella sua tranquilla semplicità, col suo sorriso, la sua ironia — che, mi è stato detto, poteva essere corrosiva, ma che io trovavo affascinante, — con la sua cultura e, sotto la sua calma, la sua forza a fior di pelle, come se un gigante si fosse insinuato per magia e concentrato nel corpo di un professore di liceo, lui era inimitabile. Anche per questo colui che rimpiango non è soltanto l’uomo che ha forgiato con le sue mani un partito di uomini duri e liberi: questo partito gli saprà sopravvivere e seguire la sua strada. È prima di tutto il vecchio calmo e possente che ho visto per l’ultima volta nel maggio scorso. Un uomo che amavo. Il mio amico Togliatti.

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