Sessant’anni fa, il 21 di agosto a Yalta, moriva Palmiro Togliatti. I suoi funerali furono imponenti. L’organo del Pci “l’Unità” titolò il giorno dopo a tutta pagina “Eravamo un milione”. La commozione popolare fu grande, insieme a quella del mondo politico antifascista, anche in chi gli fu acerrimo nemico. Il Pci riuscì a strappare alla TV di Stato, dominata dalla Dc con uno strapuntino per il Psi di Nenni, Mancini e De Martino, una trasmissione speciale dei funerali del segretario comunista. I lavoratori, i ceti popolari, gli intellettuali progressisti sentivano che era morto il vero fondatore del Pci, il partito che lui aveva voluto “nuovo”, operaio e progressista, aperto, senza mai staccarsi dal popolo, alle correnti più avanzate e progressiste della storia italiana.

Gli avversari, quelli moderati e antifascisti, capivano che con Togliatti spariva un figura costituente della democrazia italiana. La sua iniziativa politica più importante, “la svolta di Salerno”, aveva aperto la strada a quel processo democratico che avrebbe coronato con la Repubblica e la Costituzione prefigurante una “democrazia progressiva” la nuova Italia scaturita dalla lotta partigiana e dalla Resistenza antifascista. Una Resistenza, come ebbe a dire Togliatti, che in Italia, con tutti i suoi limiti, aveva rappresentato un rovesciamento del Risorgimento innanzitutto per il ruolo da protagonista che vi assunsero le classi popolari.

Togliatti fece politica in un mondo che ormai non c’è più, e in quel mondo va giudicata la sua opera politica senza intenti idolatrici ma con razionalità nutrita dai fatti. Non tacendo le sue contraddizioni nel rapporto con Stalin, le sue corresponsabilità con i momenti più bui dello stalinismo da parte di un Togliatti che stalinista non fu per il suo modo di agire, di dirigere il Pci e per la sua scelta di una via democratica italiana al socialismo. Ma applicando interamente a lui stesso il criterio che Togliatti aveva cercato di adottare nel suo saggio, per altro mal riuscito, “È possibile un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi?”, nel 1954, in occasione della morte dello statista democristiano, augurandosi che dopo la morte di una personalità politica di rilievo: “è soltanto dalla visione precisa delle difficoltà stesse dello sviluppo della sua persona e dei contrasti cui fu legato in sé stesso e fuori di sé, che può sorgere una impressione di originalità e profondità del pensiero e di grandezza della esecuzione”.

Tuttavia la sua lezione principale, quella sull’inscindibilità fra socialismo e democrazia, è ancora utile oggi. Lui si trovò ad affrontare il tema, fra varie contraddizioni, non escluse quelle internazionali, battagliando all’interno del movimento comunista mondiale di cui fu un dirigente preminente, ricordando quella inscindibilità in Italia e nell’Europa occidentale dal lato della democrazia. Anche per lui, partito per “fare come in Russia” la Repubblica dei soviet, la cosa fu un’acquisizione di anni, nelle traversie del Komintern, negli anni di “ferro e di fuoco” della battaglia antinazifascista.

Ciò nonostante quel solco fu allargato poi da Berlinguer fino alla invocazione a Mosca nel 1977, della “democrazia valore universale”, sapendo che la democrazia non è un modello da imporre ma un terreno da conquistare in modi diversi e secondo storie nazionali diverse ma unificate da un dato fondamentale: la libertà delle idee e l’attiva partecipazione popolare. In Italia il socialismo il Pci lo propugnava, come ebbe a dire più volte Berlinguer, nel quadro del rispetto di “tutte le libertà, meno una: quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani, perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane”.

Nel famoso “Memoriale di Yalta”, una sorta di promemoria riservato per l’incontro con Krusciov e i dirigenti del Pcus redatto poche ore prima della sua morte, che poi il coraggio di Luigi Longo volle che fosse reso pubblico facendolo diventare un atto politico di prima grandezza, Togliatti a proposito della situazione in Urss e nei paesi socialisti e delle resistenze conservatrici e antidemocratiche che in esso erano più che percepibili rispetto alle formulazioni del XX Congresso del Pcus, scriveva: “Noi partiamo sempre dall’idea che il socialismo è il regime in cui vi è la più ampia libertà per i lavoratori e questi partecipano di fatto, in modo organizzato, alla direzione di tutta la vita sociale. Salutiamo quindi tutte le posizioni di principio e i fatti che ci indicano che tale è la realtà in tutti i paesi socialisti e non soltanto nell’ Unione Sovietica. Recano invece danno a tutto il movimento i fatti che talora dimostrano il contrario”.

Si discute se fra Togliatti e Berlinguer – di cui è ricorso il quarantesimo della tragica morte, anche lui per ictus – ci fu più continuità o rinnovamento. Allora nel Pci la formula imperante era il “rinnovamento nella continuità” che può sembrare insufficiente oggi a ben guardare la mole del rinnovamento prodotto da Berlinguer, soprattutto nella fase finale della vita quando non solo ad Est si esauriva la “spinta propulsiva” dei modelli di socialismo senza libertà scaturiti dalla “Rivoluzione d’Ottobre”, ma ad Ovest si era all’inizio della rivoluzione tecnologica conservatrice nella globalizzazione neoliberista.

In seguito, dopo la morte di Berlinguer, il centro del pensiero togliattiano sull’inscindibilità fra socialismo e democrazia si sarebbe dovuto tenere fermo dal lato del socialismo, con tutto ciò che quella parola significava anche in virtù delle nuove acquisizioni berlingueriane. Questo avrebbe significato un lavoro controcorrente sia per il Pci, al quale era sostanzialmente già predisposto, ma soprattutto per la socialdemocrazia europea. Perché se vengono meno le idealità socialiste dell’eguaglianza, del lavoro, dell’ambientalismo ecc., la democrazia si rattrappisce e degenera nel populismo della “democratura”. Come dimostra l’attuale e drammatico processo politico in atto nel mondo occidentale.

Sta di fatto che quando nel giovane gruppo dirigente comunista si impose il concetto della “discontinuità”, quel concetto operò una rottura sia con i “pensieri lunghi” di Berlinguer sia con l’opera di Palmiro Togliatti. L’uno subì una sorta di damnatio memoriae l’altro fu ridotto a santino da esibire nelle ipocrite processioni dei progressisti di varie sfumature e colori.

Ma una sinistra che voglia risorgere vigorosa non può non tornare alle lezioni più feconde di Togliatti e Berlinguer.

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