Quaderno 6 § (97)

Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? «L’ambizione» ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali: 1) perché è stata confusa l’ambizione (grande) con le piccole ambizioni; 2) perché l’ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principii e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all’ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento.

In fondo anche questo secondo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, [o correre troppo grandi pericoli].

È nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all’esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco. Ricordare l’affermazione di Arturo Vella: «Il nostro partito non sarà mai un partito di governo», cioè sarà sempre partito di opposizione: ma che significa proporsi di stare sempre all’opposizione? Significa preparare i peggiori disastri, perché se l’essere all’opposizione è comodo per gli oppositori, non è «comodo» [(a seconda, naturalmente, delle forze oppositrici e della loro natura)] per i dirigenti del governo, i quali a un certo punto dovranno porsi il problema di spezzare e spazzare l’opposizione. La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’«ambizioso» si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato [consapevolmente] dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale.

Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (de proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull’ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla così detta demagogia. Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera «costituente» costruttiva, allora si ha una «demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali». Il «demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»). Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili «concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista [o di dominio] non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborare uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine «carismatica», deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità.

Un passo di questa nota dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci compare come esergo all’inizio del film Berlinguer. La grande ambizione. Il Segretario del Pci che viene descritto nel racconto filmico propone proprio i caratteri del leader politico che si ricava dalla lettura dell’intera nota gramsciana, ossia un leader gramscianamente ambizioso il cui elevarsi «è condizionato [consapevolmente] dall’elevarsi di tutto uno strato sociale». Nelle assemblee di sezione e di fabbrica il Segretario ambisce ad elevare tutto lo strato sociale che ad esse partecipa verso la consapevolezza, la presa di coscienza di una situazione concreta che va concretamente affrontata. Sono le scene più coinvolgenti, anche dal punto di vista emotivo, del film che affronta la parabola politica ed esistenziale di Berlinguer dall’attentato in Bulgaria del 1973 fino alla fase subito successiva all’uccisione di Aldo Moro. Certamente chi ha visto il lavoro di Segre avrà un attimo storto la bocca di fronte al fatto che sarebbe stato interessante aggiungere un’altra ora di proiezione e descrivere anche il Berlinguer della seconda svolta di Salerno, quello dell’alternativa alla quale si fa riferimento soltanto nelle didascalie che introducono ai titoli di coda. Ma c’è sempre tempo per una seconda parte alla quale, eventualmente, l’eccezionale Elio Germano non vorrà sottrarsi; le sue movenze sono proprio quelle di Berlinguer, quel suo tipico modo di muovere le mani nel momento del dialogo e del confronto con le compagne e i compagni ma anche con gli avversari politici è rappresentato con un’efficacia che riproduce in modo stupefacente l’autenticità del soggetto rappresentato. Va notato nel film il continuo sovrapporsi di pubblico e privato (la moglie, le figlie e il figlio) fino alla lettura, proprio in conclusione, della lettera alla moglie nella quale il Segretario lascia intendere come essere comunista, come disse Antonio Gramsci ai giudici che stavano per condannarlo a più di vent’anni di detenzione, comporti una responsabilità che, a volte, nel caso di Berlinguer, conduce anche al sacrificio di una parte della propria vita privata.

Non ricordo da quanto tempo non mi ritrovavo in una sala cinematografica completamente esaurita. Ma, a fronte di questo dato sicuramente confortante, quasi esaltante al momento dell’applauso che accoglie la splendida foto di Berlinguer che compare in chiusura del film, c’è un altro elemento di riflessione da mettere sul tavolo della discussione, un elemento molto preoccupante: le spettatrici e gli spettatori erano quasi tutte e tutti over. Nessun giovane in sala: eppure un’occasione simile per incontrare la storia (perché Berlinguer è una parte considerevole della storia recente del nostro paese e non solo del Pci) non capita tutti i giorni. È sperabile e auspicabile che insegnanti di buona volontà, e ce ne sono, si attivino per proiezioni destinate alle scuole invitando il regista e l’attore ma anche storiche e storici che sappiano proporre alle e ai giovani il pensiero e l’azione politica (con i pregi e i difetti che hanno comportato) di un vero rivoluzionario, di un comunista democratico come Enrico Berlinguer.

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