L’ultima pagina del romanzo che Italo Svevo pubblica nel 1923 (la prima guerra mondiale si è conclusa da cinque anni) sembra essere quasi una profezia di quello che accadrà il 6 e il 9 agosto del 1945 a Hiroshima e Nagasaki quando i bombardieri statunitensi sganciarono sulle due città nipponiche due bombe atomiche con l’obiettivo di porre fine al secondo conflitto mondiale, o meglio, visto che la Germania nazista si era arresa a maggio, di chiudere i conti con il Giappone, peraltro già in ginocchio, mostrando i muscoli atomici all’Urss:
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie1.
Certamente lo scrittore triestino legava la conclusione agli esiti del suo romanzo, ossia a una sorta di palingenesi dell’umanità, quasi un nuovo Big Bang rigeneratore e annientatore “di parassiti e di malattie”, piuttosto che alla creazione di un’arma di distruzione di massa il cui uso, dall’agosto del 1945, pende sulle sorti dell’umanità come una spada di Damocle e segna inequivocabilmente il destino dell’uomo proponendogli la guerra, in specie quella atomica, come terroristica e irreversibile, visto che tutto sarebbe distrutto, soluzione, anzi come certa fine di tutto e di tutta l’umanità. Ma in questo la responsabilità umana non va taciuta.
Sulla responsabilità umana nelle vicende del mondo, già prima di Svevo, richiamava l’attenzione Lukács che, nel 1919, scriveva:
l’etica si volge al singolo e come conseguenza necessaria di quest’angolatura prospetta alla coscienza morale individuale e alla coscienza della responsabilità il postulato che egli debba agire come se dalla sua azione o dalla sua inazione dipendesse il mutamento del destino del mondo…Nessuno può a livello etico sottrarsi alla responsabilità col pretesto di essere solo un singolo dal quale non dipende affatto il destino del mondo2.
Proprio intorno al tema della responsabilità dell’uomo Günther Anders inizia il carteggio con Claude Eatherly, il pilota che sganciò la bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto del 1945. Sono passati quattordici anni da quel giorno e Eatherly non è più un militare ma porta con sé il segno di quell’atto. L’intellettuale tedesco gli scrive il 3 giugno del 1959:
La tecnicizzazione dell’esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare – questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare “incolpevolmente colpevoli”, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri.
Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere – oggi o domani – ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a ciascuno di noi. È per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore3.
“Incolpevolmente colpevole” fu Eatherly e proprio per questo assume la funzione di precursore, dell’archetipo dell’uomo che agisce senza sapere quale sarà l’esito della sua azione in quanto non conosce lo strumento che sta maneggiando. Compie un atto senza conoscerne le conseguenze e, per questo, da un punto di vista etico, da lui viene a dipendere, per richiamare Lukács, il destino del mondo, e di chi lo abita.
Siamo oggi fuori dalla possibilità che possa verificarsi qualcosa di simile a quello che avvenne in Giappone nell’agosto del 1945? Da allora il mondo è di certo cambiato ma, al di là della narrazione intorno al mondo di pace che ha seguito la fine del secondo conflitto mondiale, l’attualità propone uno scenario che non soltanto vede guerre devastanti in corso ma lascia intendere, a causa dell’umana irresponsabilità, la possibilità che altre ce ne possano essere. E, in ogni caso, si sente dire da più parti che la pace si impone con la forza (e chi lo afferma è fra gli uomini il più irresponsabile in assoluto). Quello che scriveva Karl Löwith è emblematico e costituisce un solido punto di riferimento di chi pone la pace al primo posto:
Posto quindi che l’uomo per sua natura voglia vivere, poiché apprezza il valore della vita in quanto tale, egli deve, quasi per logica conseguenza, opporsi all’odierna «logica della follia». (…) Ciò di cui parliamo oggi, tuttavia, non è né un pacifismo apolitico, né una brutale affermazione dell’esistenza di un potere politico sovrano, e nemmeno una rivendicazione dittatoriale della libertà democratica. Si tratta invece della responsabilità dell’uomo rispetto a un potere che, in quanto energia atomica, è insensibile alle differenze politiche, nazionali, imperiali e ideologiche, e il cui utilizzo minaccia l’esistenza umana a tal punto da porre un limite a qualunque politica dell’equilibrio e della minaccia reciproca. L’unico parallelo storico con la situazione attuale e futura non è una guerra, ma la storia del diluvio universale: quando dio vide che la malvagità umana aveva preso il sopravvento, rimpianse di aver creato l’uomo e decise di distruggere tutta l’umanità a eccezione di un solo uomo giusto, timoroso di Dio, e della sua famiglia – questo è il punto da cui la storia ricominciò da capo, per dover ora giudicare e giustificare se stessa4.
In sostanza la follia della guerra, con il possibile uso degli attuali nuovissimi strumenti tecnologici, non porterebbe esclusivamente a quello che i nostri occhi vedono quotidianamente in Ucraina e a Gaza ma, come massima espressione dell’umana irresponsabilità, potrebbe condurre allo scenario del diluvio universale descritto da Löwith nella conclusione del suo intervento.
È stupefacente come lo scritto del filosofo tedesco, inedito in Italia e collocabile fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta del secolo scorso, sia prossimo, sia da un punto di vista cronologico sia da un punto di vista argomentativo, all’intervento di Togliatti a Bergamo il 20 marzo del 1963. In quell’occasione il Segretario del PCI, pur dedicando il suo discorso al rapporto fra cattolici e comunisti, rifletteva sulla guerra e sulla necessità della pace in termini non molto differenti da quelli di Löwith. Si esprimeva nel modo seguente:
Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa “novità”; l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L’uomo ha davanti a sé un abisso nuovo, tremendo. La storia degli uomini acquistava una dimensione che non aveva mai avuto. E una dimensione nuova acquista, di conseguenza, tutta la problematica dei rapporti tra gli uomini, le loro organizzazioni e gli Stati, in cui queste trovano il culmine. La guerra diventa cosa diversa da ciò che mai sia stata. Diventa il possibile suicidio di tutti, di tutti gli esseri umani e di tutta la loro civiltà. E la pace, a cui sempre si è pensato come ad un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare se stesso. Ma riconoscere questa necessità non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata. Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova5.
La pace, che in Löwith era l’apprezzamento del valore della vita, è una necessità alimentata dal comune sentire dell’uomo, dalla coscienza della volontà generale di sopravvivere alla possibile distruzione. Ma, si chiede Togliatti, può essere possibile il raggiungimento della distensione, del disarmo, della pacifica coesistenza in un mondo in cui, di fatto, i rapporti fra gli uomini sono atomizzati, condotti al livello massimo dell’individualismo e della reciproca indifferenza? L’uomo è solo, antiquato, avrebbe detto Anders, e il suo destino sembra essere quello della deresponsabilizzazione come esito ultimo di una società che non conosce il senso profondo del vivere comune, dell’essere insieme con gli altri. Scrive Togliatti:
Sorge oggi con sempre maggior frequenza, dalla letteratura e dalle altre forme di arte, la denuncia della solitudine dell’uomo moderno, che anche quando può disporre di tutti i beni della terra pure non riesce più a comunicare con gli altri uomini, si sente come chiuso in un carcere dal quale non può uscire. Questo è il destino dell’uomo, io credo, in una società che lo esclude dalla partecipazione a una edificazione sociale che sia opera comune di tutti6.
Dopo pochi giorni dal discorso togliattiano, precisamente l’11 aprile del 1963, viene pubblicata l’enciclica giovannea Pacem in terris. Dopo aver affrontato i problemi che maggiormente assillano l’uomo, legati in specie al pericolo incombente di una guerra di distruzione dell’intera umanità, nella parte finale, intitolata Il Principe della pace, con esplicito riferimento all’annuncio biblico della venuta di Cristo, si legge:
89. Queste nostre parole, che abbiamo voluto dedicare ai problemi che più assillano l’umana famiglia, nel momento presente, e dalla cui equa soluzione dipende l’ordinato progresso della società, sono dettate da una profonda aspirazione, che sappiamo comune a tutti gli uomini di buona volontà: il consolidamento della pace nel mondo.
Come vicario — benché tanto umile ed indegno — di colui che il profetico annuncio chiama il Principe della pace, (Cf. Is 9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà7.
Trascorrono dieci anni dall’intervento di Togliatti e dall’enciclica di Papa Giovanni XXIII quando, dopo il colpo di stato militare in Cile, Berlinguer torna ad affrontare con toni per nulla dissimili da quelli di chi lo ha preceduto, la necessità della pace ponendo il negoziato come unico mezzo «per risolvere le controversie fra gli Stati»:
La politica della distensione, nella prospettiva della pacifica coesistenza, è prima di tutto la via obbligata per garantire un obiettivo primario, di interesse vitale per tutta l’umanità e per ciascun popolo: evitare la catastrofe della guerra atomica e termonucleare, assicurare la pace mondiale, affermare il principio del negoziato come unico mezzo per risolvere le controversie tra gli Stati. Inoltre, la distensione e la coesistenza, in quanto implicano la riduzione progressiva di tutti gli armamenti e forme molteplici e crescenti di cooperazione economica, scientifica e culturale, sia sul piano bilaterale che su quello multilaterale, sono una delle vie per affrontare con sforzi congiunti i grandi problemi del mondo contemporaneo, quali quelli del sollevamento delle aree depresse, dell’inquinamento, della lotta contro l’indigenza e le malattie sociali ecc. […]8.
L’anno successivo, intervenendo nel corso del CC in preparazione del XIV congresso del Pci, che si sarebbe tenuto a Roma nel marzo del 1975, l’analisi sulle sorti dell’umanità investono lo specifico sviluppo del capitalismo che, ricorda il Segretario comunista, «ha cercato proprio nelle guerre il mezzo per venir fuori dalle sue crisi e contraddizioni» e lo sguardo preoccupato si rivolge verso quei Paesi che più di altri potrebbero pagare, come già avevano fatto, il prezzo di questa situazione:
Interrogativi che sorgono per le sorti dell’umanità
Dove si andrà? Quali sbocchi avrà la crisi del mondo capitalistico?
E come si risolveranno i problemi posti dal moto di risveglio e di emancipazione dei popoli e dei paesi del Terzo mondo?
Sono interrogativi aperti anche per noi, per il movimento comunista, per tutte le forze della ragione, del progresso e della pace.
Il mutamento che è inevitabile nei rapporti economici e politici mondiali avverrà nella pace o attraverso nuove guerre? Altre volte il capitalismo ha cercato proprio nelle guerre il mezzo per venir fuori dalle sue crisi e contraddizioni, e ciò ha portato in questo secolo, oltre che a innumerevoli guerre locali, a due guerre mondiali che hanno distrutto un numero immenso di vite umane e incalcolabili ricchezze. Oggi tutti sanno, però, che una nuova guerra mondiale sarebbe una guerra atomica e termonucleare, e cioè una guerra di annientamento dell’intero genere umano.
L’orrore di una simile prospettiva trattiene tutti dal percorrere questa strada. Esso non è però sufficiente a scongiurarla, anche perché conflitti bellici di vaste proporzioni potrebbero accendersi in certe regioni del mondo, con il rischio di dilatarsi fino allo scatenamento di una guerra mondiale.
Ma come è possibile pervenire a soluzioni di pace, e quindi di cooperazione? Questo è il primo degli interrogativi che ci stanno di fronte.
Ma altri si intrecciano, anch’essi drammatici. Non è da scartare del tutto l’ipotesi che una esasperazione dei contrasti e delle lotte nel mondo capitalistico e nel Terzo mondo possa portare a un regresso pauroso, fino al crollo, di alcuni paesi, quelli più deboli ed esposti, e comunque quelli che siano politicamente incapaci di trovare una soluzione adeguata, e quindi oggi necessariamente nuova, ai problemi del proprio sviluppo interno e a quelli dei propri rapporti esterni. Il rischio esiste; e un crollo significherebbe, per questi paesi, perdita di ogni indipendenza, crisi economica incontrollabile, disgregazione sociale e politica, avanzata di ondate reazionarie e di una moderna barbarie.
Vi è però un interrogativo più generale che riguarda non solo questo o quel paese, ma il destino, il patrimonio e lo sviluppo di intere civiltà.
È un’incognita che grava anche e proprio su quella civiltà europea, le cui conquiste materiali, politiche e culturali hanno avuto una funzione decisiva nello sviluppo dell’intera umanità. Tale incognita sorge in quanto l’imperialismo, che già di per sé tende a rinnegare i valori positivi delle rivoluzioni democratico borghesi del passato, non è in grado di stabilire con altri popoli e altre civiltà un rapporto che non sia di signoria, mentre oggi il dovere storico è di realizzare rapporti di scambio su un piede di uguaglianza e di compenetrazione al fine di promuovere l’arricchimento, lo sviluppo e l’avvicinamento di tutte le civiltà9.
Il momento in cui la riflessione berlingueriana sulla pace raggiunge il livello più alto è il discorso tenuto a Firenze il 17 febbraio del 1980 durante una manifestazione sul tema indetta dal PCI. Il segretario comunista parlò di rifiuto di una politica basata sulle ritorsioni proponendo un’opera di moderazione verso gli Usa e l’Urss affinché ritrovassero, nei loro rapporti, la logica della distensione. Non va dimenticato che la manifestazione fu promossa perché, all’inizio del 1980, c’era stato l’intervento sovietico in Afghanistan e, contemporaneamente, la decisione della Nato di avviare l’installazione di nuovi missili a testata nucleare in Europa occidentale. Proseguiva Berlinguer ponendo la necessità di un potente movimento di massa, di iniziative politiche e diplomatiche che avessero il fine di frenare la corsa al riarmo e compiere atti per la riduzione degli armamenti. E proponeva in primis agli Stati Uniti la ratifica del trattato Salt II e, poi, la riapertura della trattativa sui missili a medio raggio in Europa, la ripresa del negoziato di Vienna sulla riduzione delle armi convenzionali, la regolamentazione del commercio internazionale delle armi, mettendo a disposizione, infine, il suo sostegno alla realizzazione di una Conferenza sul disarmo che era stata richiesta sia dalla Francia sia dalla Polonia. Ricordando la necessità dell’apertura di un ampio negoziato, Berlinguer, fra le altre cose, faceva affidamento alla responsabilità umana, alla responsabilità dei singoli individui:
La pace è un bene supremo ed è un bene di tutti. Per garantire questo bene è indispensabile l’azione delle singole persone come delle organizzazioni e istituzioni di ogni genere, nazionali e internazionali. È questa una battaglia nella quale bisogna sapere unire tutte le forze, al di là delle differenze di classe, di ideologie, di orientamenti politici. […] Se è vero che la guerra non è inevitabile, è anche vero che essa non è impossibile, e, proprio oggi, questo è un pericolo che si è fatto più vicino. […] Parlo di qualcosa di più tragico, parlo di una nuova guerra mondiale, la quale però, oggi, non avrebbe le caratteristiche, pur già terribili, di quelle che noi stessi abbiamo conosciuto e che tanti di voi ricordano, e tanti ne portano ancora il segno e il dolore. Parlo di una guerra che l’umanità non ha sinora mai conosciuto, ma che, ove mai dovesse conoscere, sarebbe sicuramente l’ultima, perché equivarrebbe alla sua fine10.
Alla responsabilità umana si richiama Papa Francesco che, scrivendo una lettera al direttore del «Corriere della Sera» il 18 marzo di quest’anno, fa presente che esiste una consequenzialità fra le parole usate, i fatti e il mondo nel quale, poi, questi stessi fatti diventano cose vissute:
Vorrei incoraggiare lei e tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale: sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità. Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità.
Il riferimento alla responsabilità umana è evidente nel momento in cui il “senso della complessità” viene richiamato come elemento che consenta la necessità dell’attivazione della diplomazia e del ruolo decisivo delle organizzazioni internazionali.
Correva l’anno 1917. In Russia ci sarebbero state due rivoluzioni, gli Stati Uniti sarebbero entrati in guerra, Papa Benedetto XV avrebbe definito la guerra in corso, ossia il primo conflitto mondiale, “un’inutile strage”. Antonio Gramsci rifletteva sui motivi che conducono allo scoppio di una guerra e sui modi er evitare che questo avvenga:
… le guerre sono un portato dei sistemi di privilegio. Essendo oggi classe privilegiata la borghesia, essendo il capitalismo la forma economica specifica che il privilegio ha oggi assunto, … oggi la guerra è una fatalità borghese. (…) il conflitto esiste perenne, ma non è perennemente di fatto; perché tale diventi è necessaria una iniziativa umana, è necessario ci sia chi giudichi essere arrivato il momento dell’azione, il momento utile per la realizzazione di un nuovo privilegio, oppure per impedire che un privilegio acquisito decada a beneficio altrui, e la guerra scoppia. (…) troppo pochi sono ancora gli uomini che si preoccupino veramente di ciò che accade loro d’intorno, che si preoccupino di non lasciar aggruppare dei nodi che poi domanderanno l’intervento della spada per sciogliersi e faranno diventare di fatto la guerra che è immanente nella società attuale. (…) Perché c’è chi lavora sempre, continuamente per iniziare le guerre. Perché c’è chi getta continuamente delle scintille sulle polveri infiammabili, e opera fra gli uomini, e suscita dubbi, e semina il panico. Perché ci sono i professionisti della guerra, perché c’è chi dalla guerra guadagna, anche se la collettività, le collettività nazionali non ne ricavano che lutti e rovine. (…) Bisogna cercare di far evitare le guerre in ispecie, smontando tutti i trucchi, sventando le trame dei seminatori di panico, degli stipendiati dell’industria bellica, degli stipendiati delle industrie che domandano le protezioni doganali per la guerra economica. Poiché è pur necessario che la guerra scoppi in un certo momento, bisogna impedire che questo momento arrivi mai.
Ci sono troppe sirene che cantano le canzoni fallaci della perdizione. Bisogna educare il proletariato, ma bisogna anche imbavagliare le sirene. Troppo pochi sono gli Ulissi che si premuniscono, che essendosi fatti legare all’albero della nave, avendo fatto tappar colla cera le orecchie degli uomini della loro ciurma, passano tra il canto senza sprofondare nel baratro. Ma anche le sirene sono poche: che gli uomini di buona volontà provvedano ad imbavagliarle11.
Perché scoppi una guerra è necessaria “una iniziativa umana”, ossia, detto altrimenti, lo scoppio della guerra è legato alla responsabilità umana. Ma sono altrettanto responsabili quelli che guardano senza agire preventivamente al fine di scongiurare il conflitto e, così facendo, “faranno diventare di fatto la guerra che è immanente nella società attuale”. Vanno svelati tutti gli inganni e le manovre dei “seminatori di panico”, “degli stipendiati delle industrie che domandano le protezioni doganali per la guerra economica” (questo passaggio è di Gramsci e risale al 1917 e non al 2025!). Se sono pochi gli Ulissi pronti ad affrontare il canto delle sirene (l’episodio compare nel libro XII dell’Odissea) senza farsi ammaliare da loro, allo stesso modo sono talmente poche le sirene che basterebbero “gli uomini di buona volontà”, gli stessi a cui Papa Francesco si rivolge “per disarmare le menti e disarmare la Terra”, per metterle a tacere. Gramsci fornisce anche le caratteristiche delle donne e degli uomini per la bisogna:
Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza (…)12.
Indica anche la modalità da seguire:
Occorre (…) violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo (…)13.
Quindi, che fare? Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.
1 I. Svevo, La coscienza di Zeno, Milano, Garzanti, 2018, p. 425.
2 G. Lukács, Tattica e etica [1919] in Ead., Scritti politici giovanili 1919-1928, Introduzione di P. Manganaro, Bari, Laterza, 1972, pp. 10-11 I. Svevo, La coscienza di Zeno, Milano, Garzanti, 2018, p. 425.
3 G. Anders, L’ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica, Introduzione di R. Jungk, Prefazione di B. Russell, a cura di M. Latini, Milano-Udine, Mimesis, 2016, p. 25.
4 K. Löwith, Energia nucleare e responsabilità umana in «Vita e Pensiero», a. CVIII, n. 1/2025, pp. 9-10.
5 P. Togliatti, Il destino dell’uomo («Rinascita», a. XX, n. 13, 30 marzo 1963, pp. 17-20. Discorso pronunciato a Bergamo il 20 marzo 1963) in Ead., La politica nel pensiero e nell’azione, a cura di Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca. Saggi introduttivi di Leonardo Pompeo D’Alessandro, Giuseppe Vacca, Francesco Giasi, David Bidussa, Silvio Pons, Michele Ciliberto, Milano, Bompiani, 2024, pp. 894-895.
6 Ivi, p. 903.
7 Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in Terris, 11 aprile 1963.
8 E. Berlinguer, «Rinascita», 28 settembre 1973, Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni in Ead., Un’altra idea del mondo. Antologia 1969-1984, a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Roma, Editori Riuniti university press, 2014, p. 94.
9 E. Berlinguer, «l’Unità», 11 dicembre 1974, relazione al CC e alla CCC in preparazione del XIV congresso del Pci in Ead., La questione comunista 1969-1975, a cura di A. Tatò, Roma, Editori Riuniti, 1975, v. II, pp. 833-834.
10 E. Berlinguer, «l’Unità», 18 febbraio 1980 in Ead., La pace al primo posto. Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984), a cura di A. Höbel, Roma, Donzelli, 2023, pp. 168-169.
11 A. Gramsci, Il canto delle sirene in «Avanti!» (firmato Alfa Gamma), 10 ottobre 1917 (l’articolo, a firma A. G., era comparso su «Il Grido del Popolo» del 6 ottobre 1917 ma interamente censurato) in Ead., La Città Futura (1917-1918), a cura di S. Caprioglio, Torino, Einaudi, 1982, pp. 382-387.
12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 75.
13 Ivi, p. 1131
Crediti Immagine di copertina, manifestazione contro il riarmo europeo e per la pace, di sabato 5 aprile 2025, autoprodotta da Parliamo di Socialismo, riproduzione consentita solo citando la fonte
Questo vero e proprio saggio rappresenta la miglior risposta a Mattia Feltri (che, dalle colonne della Stampa ha definito lo slogan “Fuori la guerra dalla storia” come il “più cretino di sempre”). Lui non lo leggerà (come non ha letto Kant) ma voi fatelo