l’incontro con la “coscienza operaia” della città fu decisivo nella formazione del futuro fondatore del partito comunista
Come si diventa Antonio Gramscidi Marco Revelli – apparso sul quotidiano “La Stampa”
Com’è che Gramsci è diventato Gramsci? E quando? Fino all’età di vent’anni poco o nulla lasciava intuire, in Nino, come tutti in famiglia e al paese lo chiamavano, la figura politica e intellettuale che oggi conosciamo. Era un ragazzino indubbiamente molto intelligente, con un’insaziabile voracità di letture, interessi culturali e letterari a 360 gradi: si era abbonato all’intero ventaglio delle principali riviste politiche e letterarie dell’epoca, dalla salveminiana L’Unità alla Voce di Prezzolini, dalla Lupa di Paolo Orano al dannunziano Marzocco, fino a Patria. Giornale dell’idea liberale, aveva anche leggiucchiato Marx, condivideva molti degli ideali socialisti ma era soprattutto un crociano. Se si trasformerà nel fondatore del Partito comunista, nell’ispiratore delle celebri «Tesi di Lione», autore dei Quaderni del carcere, ciò si deve a due circostanze di tempo e di spazio che la Storia – o il Destino, il che in fondo è lo stesso – gli presenterà.
La circostanza di tempo sono gli anni Dieci del Novecento – il decennio «costituente» di quel secolo grande e terribile. Quella di spazio si chiama Torino – un «luogo del cielo» direbbe Lucio Dalla -, laboratorio sociale allora unico in Italia e forse in Europa, in cui tra i fumi delle fabbriche si vedeva il futuro nel suo farsi. E dove si troverà sbalzato in qualche modo per caso, per aver vinto una delle 39 borse di studio bandite dal Collegio Carlo Alberto per gli studenti poveri del Regno che avessero conseguito a pieni voti la licenza liceale. Il giovane Gramsci vi sbarcherà nell’autunno del 1911, denutrito, spaesato, senza un soldo – «partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo, avevo 55 lire in tasca», scriverà al fratello Carlo quindici anni più tardi -, gettato nel punto d’intersezione tra la geometrica linearità della nascente città-fabbrica e l’incandescente ribollire della sua forza lavoro.
In quei giorni la città stava festeggiando il cinquantesimo anniversario dell’Unità con la grande Esposizione Internazionale del Lavoro e dell’Industria, mettendo in mostra i propri quarti di nobiltà di ex capitale «fatta di ordine, di tradizione militare, squadrata negli isolati delle sue case monotone, come un reggimento dei vecchi duchi sabaudi» (è un’annotazione di Gramsci, che lamenta il fatto che il grande evento aveva fatto aumentare il prezzo della pensione, mettendo a dura prova le sue già misere finanze). Ma sotto quella superficie patinata, a saperlo ascoltare, si poteva avvertire il brontolio di un’energia repressa e potente, di una massa di lavoratori in transizione dall’aristocrazia del mestiere alla dimensione massificata della produzione di serie, orgogliosi del proprio ruolo e insofferenti al comando padronale perché sicuri della propria funzione di produttori.
Quegli operai avevano appena dato vita alle grandi manifestazioni di protesta contro la condanna a morte, in Spagna, dell’anarchico Francisco Ferrer, padre della «Scuola moderna» e del sogno di una pedagogia popolare capace di formare la coscienza degli oppressi. L’anno successivo, nel ’12, saranno protagonisti del grande sciopero dei lavoratori dell’auto, contro lo stesso compromesso raggiunto dalla Fiom con il Consorzio padronale perché non ne accettavano la limitazione alla facoltà di scendere in sciopero e la delega al datore di lavoro per il prelievo del contributo sindacale (rifiutavano il «padrone esattore per il sindacato»), fieri della propria autonomia di classe.
Senza l’incontro con quella «coscienza operaia», prettamente torinese, e con quegli «uomini in carne ed ossa» che il giovane immigrato sardo vedeva prima nella sezione socialista (a cui si iscriverà nel ’13) poi nella redazione dell’Avanti! di cui entrerà a far parte nel ’15 su proposta di Giacinto Menotti Serrati, Gramsci non sarebbe diventato ciò che sarà: l’elaboratore della teoria dei Consigli di fabbrica, dell’Ordine nuovo (un ordine radicato nello statuto tecnico della produzione e nella coscienza ribelle del produttore), di quella visione non settaria del Partito, aperto alla partecipazione e all’elaborazione di massa in antitesi alla concezione di Amadeo Bordiga. Insomma, il Gramsci fondatore del partito e nello stesso tempo eretico della sua stessa creatura. Consapevole del ruolo decisivo dell’organizzazione (e quindi della burocrazia) e insieme nemico acerrimo di ogni burocratizzazione.
Con quegli operai parteciperà all’insurrezione dell’agosto del ’17, per il pane e contro la guerra (curerà un lungo resoconto collettivo di quelle che definirà «Le cinque giornate del proletariato torinese», sulle pagine del Grido del popolo). E con loro preparerà il grande incontro con i delegati dei soviet russi, il «compagno Goldenberg» e il «metallurgico Smirnoff», nello spiazzo antistante alla Camera del Lavoro a cui parteciperanno 30000 lavoratori torinesi ad ascoltare i loro discorsi in russo (!). E ad acclamare quella rivoluzione che Gramsci definirà, in un celebre articolo, «contro il Capitale», cioè contro ogni lettura deterministica dei processi rivoluzionari ispirata al celebre testo di Marx, usato per affermare che in un paese «arretrato» la rivoluzione è impossibile, mentre il «capolavoro di Lenin» stava a rappresentare il trionfo della volontà soggettiva, della capacità dei protagonisti storici di fare, appunto, la Storia.
È questa l’altra coordinata di tempo che «spiega» il «gramscismo di Gramsci»: il ’17 russo, brusca lacerazione del tempo, apertura folgorante su un futuro capace di rompere veramente col passato. Il sogno di Gramsci, appunto. Senza il quale il giovane smarrito venuto da Ghilarza sarebbe diventato, forse, un bravo glottologo (quella era la specializzazione universitaria scelta). O magari un brillante insegnante di liceo a Sassari. Ma non il demiurgo intellettuale che è stato.