DELLA PSICHIATRIA E DI ALTRE MATERIE OSCURE…
In Italia abbiamo moltissime cose belle: una lunga storia ha lasciato dietro di sé tracce maestose in termini di arte, letteratura, musica, architettura… la natura ha beneficato questo piccolo pezzetto di territorio di montagne, mare, laghi e paesaggi irripetibili.
La tradizione culturale ha prodotto pensatori, filosofi e politici, il cui pensiero mantiene immutate caratteristiche di attualità, nonostante il trascorrere del tempo, a dimostrazione della validità delle idee: non per caso questo blog si ispira a Gramsci.
Ma anche la nostra bistrattata Costituzione, che tutti sembrano voler cambiare perché è troppo bella e lungimirante.
Per la nostra bellissima Costituzione, la salute è un diritto.
Il che ovviamente, non significa che tutti hanno diritto alla guarigione da tutti i mali, cosa ancora umanamente impossibile, ma che tutti hanno ugualmente diritto alla cura di tutti i loro mali.
Tra le tante cose bellissime, a mio parere la legge che ha disciplinato la cura delle malattie psichiatriche è una di esse: precisa, chiara negli intenti e nella enunciazione, ha fatto dell’Italia il primo paese al mondo in cui il paziente psichiatrico non doveva più subire un “internamento” in istituzione apposite, i “manicomi”, ma aveva diritto a essere curato né più né meno di qualsiasi altro paziente affetto da qualsiasi altra malattia.
Con pari diritti e, pertanto, con tutela del diritto alla salute.
Prima della riforma nota come Legge 180, il manicomio era un grande ospedale ove venivano ricoverati tutti i pazienti affetti da qualsiasi tipo di distubo della sfera psichica: persone con ritardo intellettivo, persone con patologie psichiatriche vere e proprie e persone con sintomi psichiatrici derivanti da altre condizioni: epilessia, alcolismo, abuso di sostanze qualunque, sifilide, coneguenze di traumi cerebrali con perdita della capacità di contenere gli impulsi, conseguenze di traumi psichici come i militari reduci dal fronte delle I Guerra Mondiale (cosiddetti “scemi di guerra”), demenze… Tutto finiva in questo enorme contenitore, con reparti differenziati prevalentemente in base alla gestibilità dei pazienti, ossia in base ai livelli di agitazione/tranquillità, ribellione/rassegnazione/accettazione, oppositività/collaborazione.
Il principio cardine in base al quale si veniva ricoverati/internati in manicomio era la “pericolosità per sé e per gli altri”, concetto che ha poco a vedere con una diagnosi di malattia e molto da condividere con il controllo sociale puro e semplice.
I pazienti che avevano bisogno di altre cure, le ricevevano in manicomio, non venivano condotti fuori, ma i vari specialisti si trovavano al suo interno, oppure vi si recavano in consulenza.
Il manicomio era un microcosmo in cui si svolgevano lunghi periodi della vita dei malati, anche perché le cure che permettessero la loro dimissione erano assai poche, utili in genere alla sedazione/contenzione degli agitati; pertanto, a meno di avere remissioni spontanee, o di trarre beneficio dal poco disponibile, un paziente che entrava in manicomio vi restava per lunghissimi periodi della sua vita, talora per sempre.
Come in tutte le comunità di reclusi il forte tendeva a prevalere sul debole, fiorivano commerci di ogni natura, chi aveva soldi comprava (sesso, cibo, una camera singola, un trattamento più gentile…) chi non ne aveva vendeva, prevalentemente se stesso; anche perché, a onta del bromuro, i desideri sessuali erano normalmente presenti; si verificavano gravidanze; i nascituri restavano, proprio come in carcere, con le madri, ma spesso restavano in manicomio per anni anche loro.
Nati nel settecento come un progresso sociale e sanitario, che segnava il tentativo di curare in strutture dedicate malattie di cui si sapeva poco ma che erano comunque da curare e non da emarginare nei lazzaretti e nei ricoveri dei mendicanti, i manicomi sono diventati nel novecento l’espressione della prepotenza dell’istituzione nei confronti del debole e dell’indifeso; basti ricordare che l’eugenetica nazista iniziò nei manicomi le prove generali per lo sterminio di massa di tutti gli “sgraditi inferiori”, con il prelievo dei pazienti e la successiva uccisione in gruppi sempre più numerosi (alle famiglie veniva detto che erano morti di tifo o di altra malattia infettiva e diffusiva per giustificare l’assenza di una salma cui tributare le esequie funebri).
Non è peregrino ricordare che il manicomio era per i poveri, e comunque per chi non aveva i mezzi per curare a casa un folle o per pagare una costosa ed esclusiva clinica privata, dove, sia chiaro, le terapie erano le stesse: qualche sedativo (bromuro, cloralio idrato, oppiacei) e l’elettroschock che, demonizzato e temuto, era l’unico presidio terapeutico, non solo sintomatico, disponibile; altre terapie, invero ancora più sinistre (shock insulinico, induzione di febbre malarica…), non ebbero effetti paragonabili.
Franco Basaglia identificò nell’istituzionalizzazione un importante fattore patogenetico per malattia mentale.
Il che, sia chiaro, non significa (e non ha mai significato) che TUTTA la malattia mentale si crea nell’istituzione; significa che una istituzione “totale” come il manicomio non può curare la malattia, e pertanto che ai pazienti ricoverati/internati in esso viene negato il diritto costituzionale di essere adeguatamente curati del loro male.
Esattamente come non tutta la delinquenza si crea nel carcere, ma certamente il carcere non aiuta il recupero di chi ha commesso reati, e spesso ne favorisce invece l’indurimento dell’animo e la degenerazione dei comportamenti.
Riconoscere ad un paziente psichiatrico la qualità di “malato” implica restituire a lui una dignità di persona da curare e tutelare nella sua debolezza, e restituire allo psichiatra la dignità di “medico curante” di qualcuno e non di controllore della devianza utile a istituzioni che non ammettono devianze di alcun genere.
Una rivoluzione copernicana.
Tutto, grazie ad una Costituzione che garantisce il diritto alla cura della salute, sia essa fisica o mentale.
Il cammino della psichiatria ha iniziato a dividersi grosso modo in due branche a partire dalla fine dell’800 e dai primi anni del ‘900, con le scoperte, importantissime, di Freud e del grande filone della psicanalisi; da disturbi che derivavano da cause organiche ignote, le patologie psichiatriche venivano riesaminate alla luce delle teorizzazioni delle cause psicologiche, prevalentemente inconsapevoli, e di meccanismi che potevano essere curati e talvolta modificati con pazienti ricostruzioni dei significati dei sintomi.
Un cambiamento epistemologico che ha permesso di avvicinare la persona con disturbo psichiatrico con curiosità, interesse, desiderio di comprensione, disponibilità all’ascolto, e che ha aperto la strada al ricco filone delle cure psicoterapeutiche.
Il che, sia chiaro, non implica che tutte le patologie psichiatriche sono guaribili con la psicoterapia, che non è la panacea universale, ma che molti disturbi psichiatrici possono essere compresi, e curati, attraverso la graduale presa di coscienza del paziente delle sue difficoltà, dei suoi sintomi e dei meccanismi che la sua mente ha adottato per difendersi dall’angoscia.
Resta il fatto, incontrovertibile, che tutto nasce nella nostra mente, la quale è una concettualizzazione che utilizziamo per indicare l’attività cosciente del nostro cervello, la produzione del pensiero, la percezione delle emozioni e dei sentimenti; perciò, in ultimo, tutto nasce da un ammasso di proteine, lipidi, proteoglicani, molecole, mediatori e recettori… che si trovano tutti, ben ripiegati come un mobile dell’IKEA dentro la sua scatola, nella nostra scatola cranica.
Questo è il motivo per cui, ahimè, l’elettroshock poteva funzionare: interrompeva crisi psicotiche che avrebbero avuto decorsi lunghissimi, e di tanto in tanto permetteva che qualcuno tornasse a casa sua.
Questo è il motivo per cui il filone delle ricerche farmacologiche, procedendo attraverso imperscrutabili algoritmi della natura, ha portato a riconoscere, dagli anni ’50 del 900 in poi, una serie di molecole con attività psicotropa sempre più specifica, che non agivano solo come sonniferi/sedativi, ma permettevano il controllo e la regressione di molti sintomi, con la possibilità per i pazienti di tornare a casa, invece di restare ricoverati per tempi non definibili; dal 1951, anno in cui fu commercializzata la prima molecola efficace alla cura dei sintomi psicotici, ne sono state sintetizzate molte altre.
Con tutte queste meravigliose possibilità, come non pensare di utilizzarle tutte insieme per curere i pazienti? Questa era l’idea che ha ispirato la riforma.
Di fatto, tutte queste bellissime scoperte hanno aperto la strada a un conflitto non ancora sanato, tra “psicologisti” e “biologisti”, ossia tra i fautori delle terapie psicologiche e i fautori dei farmaci, due fazioni asserragliate nei loro fortini ideologici e che in genere rifiutavano di prendere atto delle più banali evidenze che supportavano le dottrine avversarie.
Ciascuno con i suoi casi clinici, ciascuno con le sue teorizzazioni, ciascuno con i suoi risultati, le pubblicazioni scientifiche su riviste specialistiche e settoriali, i suoi maestri, i suoi accademici, i suoi discepoli più o meno capaci, molto spesso sufficientemente ignoranti rispetto a tutto quanto scopriva, diffondeva, pubblicava la parte avversa, semplicemente a causa del rifiuto ideologico a prenderne in considerazione la lettura.
Come poteva una tale contrapposizione non tradursi in termini politici?
La psicoterapia è “di sinistra” e i farmaci sono “di destra”.
La psicologia è “di sinistra” e la psichiatria è “di destra”.
La annosa rivalità tra psicologi e psichiatri, che si declina in termini di competizione di carriera nello stesso ambito, che è quello della salute mentale.
Se fate una piccola indagine nel giro delle vostre conoscenze, sicuramente alla fine verrà fuori la questione posta più o meno in questi termini.
Qualcuno ha mai posto, ad esempio la questione se la digitale fosse di sinistra e i beta-bloccanti di destra?
Qualcuno pensa che la fisioterapia sia di sinistra e il Voltaren sia di destra?
La gastroscopia è di sinistra e la colonscopia è di destra, come sembrerebbe una tale contrapposizione?
Meglio non ridere troppo, perché al momento c’è chi discute se vaccinarsi sia di sinistra o di destra…
A onor del vero, nessun cardiologo, nessun ortopedico e nessun chirurgo ha mai avuto un mandato sociale quale quello dello psichiatra, con il compito di catalogare le devianze, diagnosticare le malattie e farle sparire, eventualmente curandole.
Precedentemente alla legge 180, una persona con distubi del comportamento, che dava scandalo, che manifestava auto/eteroaggressività, che appariva fuori di sé, veniva fermata dalla Pubblica Sicurezza, che provvedeva a condurla in ambulanza al Pronto Soccorso, da dove poteva successivamente essere ricoverata in manicomio; a Roma, lo smistamento avveniva nella leggendaria Neuro, ossia la Clinica Neurologica e Psichiatrica del Policlinico Umberto I, dove tutti coloro la cui crisi si risolveva in breve tempo (es., ubriachi) venivano successivamente dimessi, mentre tutti coloro che avevano necessità di un ricoveroo venivano trasferiti al S. Maria della Pietà, il manicomio di Roma (o al manicomio di Martellona, o al Manicomio di Ceccano…); le persone che potevano permettersi un ricovero privato, venivano portate in una clinica psichiatrica a pagamento.
Dunque, lo psichiatra interveniva per diagnosticare la presenza di una patologia in persone che in una qualche maniera avevano turbato l’ordine pubblico, che era l’istanza che metteva in moto l’intero meccanismo.
Un primo intento della riforma era di spostare l’asse della malattia psichiatrica da “fenomeno riguardante l’ordine pubblico” a “fenomeno riguardante la salute di una persona”; per quanto ciò possa apparire ovvio e legittimo, le leggi non hanno questa immediatezza di risposta ai cambiamenti sociali come sarebbe opportuno, e non è facile modificarle anche quando ciò appare umanamente ineludibile.
Basta ricordare quante battaglie, discussioni, dibattiti, movimenti dell’opinione pubblica e manifestazioni sono stati necessari perché lo stupro da “reato contro la morale” diventasse “reato contro la persona”.
I pari diritti nella malattia hanno molti aspetti da tenere in considerazione: la non obbligatorietà della cura; la necessità del consenso “informato”, ossia consapevole in quanto diagnosi e terapia devono essere spiegate in termini comprensibili e accettate o rifiutate in conseguenza; il diritto che le cure siano erogate in contesti non apartheid rispetto a tutti gli altri; il superamento dello stigma sociale; l’aiuto alle famiglie, in modo da non tradurre tutto questo in una deresponsabilizzazione dei servizi di fronte ai loro problemi.
Il problema del consenso consapevole è centrale, e intorno ad esso ruota una galassia di opinioni, contese, interessi, problemi legali, protocolli procedurali, accordi e disaccordi tra ASL e Regioni, tra DSM e Comuni, e nulla è mai chiaro e distinto come si vorrebbe, o come sarebbe necessario.
La legge riconosce che il paziente psichiatrico può temporaneamente non essere in grado, a causa della sua patologia, di dare un consenso, o dissenso, consapevole alle cure proposte.
Nessuno può dare o negare il consenso al posto suo, a meno che non sia interdetto; il riconoscimento dell’invalidità civile, anche al 100%, anche con diritto all’indennità di accompagnamento, in nessun caso costituisce una interdizione, che è il risultato di una sentenza del Tribunale; il diritto di riservatezza del paziente è da tutelare rispetto a chiunque, genitore, coniuge, figlio, fratello, parente, amico o benefattore; nessuno può operare una coercizione del paziente alle cure se non attraverso il TSO, Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Il TSO è lo strumento che deve traghettare il paziente verso una consapevolezza di misura tale dapermettergli di valutare se acconsentire o meno alle cure proposte.
Per legge, il TSO deve essere proposto da un medico (anche MMG, anche privato, anche specialista di tutt’altra branca), essere convalidato da un medico facente parte del SSN (anche non psichiatra), entro 48 ore essere approvato da un apposito provvedimento del Sindaco (che è l’autorità sanitaria cittadina) ed entro le successive 48 ore deve essere riapprovato dal Giudice Tutelare competente; il provvedimento dura sette giorni, ma può essere prorogato con la stessa procedura (Sindaco e Giudice Tutelare) per il numero di volte necessario alle cure; durante tutto il TSO i curanti sono tenuti a lavorare perché esso possa essere revocato, ossia per ottenere un consenso al trattamento di una qualche validità.
Perché sette giorni? Perché è il tempo minimo occerrente ai farmaci per esercitare una azione significativa; perché solo sette giorni? Perché i farmaci possono permettere anche in tempi brevi un recupero che sarebbe stato impensabile in era prefarmacologica; perché Basaglia ha intravisto la possibilità del recupero sociale dei pazienti DOPO che l’introduzione dei farmaci ha reso i pazienti effettivamente dimissibili dai manicomi, ma ha considerato la temporanea incapacità di critica e giudizio come un momento in cui il paziente va tutelato, curato e aiutato a recuperare il senso della realtà condivisa grazie ai presidi terapeutici finalmente disponibili.
La clorpromazina, primo antipsicotico, viene introdotta nel 1951, altri farmaci negli anni successivi, la Legge 180 è del 1978.
Pochi anni, per passi da giganti nell’ambito dei diritti del malato.
Rimuovere questi dati di fatto, considerare la componente psicofarmacologica come una “camicia di forza chimica”, è ignoranza, ipocrisia, a volte entrambe le cose contemporaneamente; il fatto che spesso i farmaci siano stati utilizzati allo scopo di bloccare le persone che dicevano cose sgradevoli non è un problema dei farmaci, ma di chi li ha utilizzati male; il mandato sociale della psichiatria è un peccato originale che in mani ambiziose, tiranniche e totalitaliste ha prodotto mostruosità.
“L’ingiustizia non è il solo male che divora il mondo; anche l’anima dell’uomo ha toccato spesso il fondo” (F. Guccini – “Don Chisciotte)
La suddivisione in correnti di pensiero antitetiche ha comportato, e comporta, decisioni ideologicamente improntate all’indirizzamento della spesa sanitaria; l’aziendalizzazione e la conseguente definizione dei servizi in termini di “centri di costo” porta con sé la propensione a investire denaro in una direzione, quella giusta, mentre le altre strade sono, se non tralasciate, svalutate o considerate comunque meno importanti.
La decisione se spendere più soldi in una direzione piuttosto che nell’altra è dettata, inevitabilmente, dai parametri di spesa cui attenersi; la mancanza di un vero movimento di opinione che affermi semplicemente che le cure validate scientificamente devono essere tutte erogate, senza porre la questione in termini di aut-aut: farmaci all’avanguardia e case alloggio sono cure interdipendenti, un paziente non potrà fruire delle soluzioni abitative se i sintomi psicotici non sono adeguatamente controllati, così come controllare solo i sintomi non serve se la persona non ha alternative accettabili di vita nella società.