NARRAZIONI. «Illustri fantasmi nel castello di Tocqueville», di Piero Bevilacqua per Castelvecchi. Oltre al padrone di casa, siedono in salotto Marx, Lenin, Rosa Luxemburg e altri. Dal capitalismo alla democrazia, una discussione sui temi che affliggono il presente
fonte “il manifesto” del 17 novembre 2021
di Lelio La Porta
Il castello di Tocqueville è il luogo nel quale, fra una tazza di caffè e una di tè, serviti dalla ironica domestica napoletana Caterina, Marx e altri illustri ospiti discutono del mondo. L’intrigante simposio è l’oggetto di una pièce teatrale in due atti scritta da Piero Bevilacqua (Illustri fantasmi nel castello di Tocqueville, Castelvecchi, pp. 76, euro 10 ).
GLI ILLUSTRI OSPITI al tempo della pandemia che affligge il mondo intero e, nella fattispecie, la capitale francese, sono, oltre Marx, Edmund Burke, Rosa Luxemburg, Vladimir Ilic Lenin, Milton Friedman, Friedrich Nietzsche e Antonio Gramsci. Il merito maggiore di Bevilacqua sta nel saper sostenere con identica disinvoltura le diverse argomentazioni creando una situazione di dibattito serrata, intensa e godibile. Ascoltare Marx che descrive i meccanismi di conquista dell’America partendo dal presupposto che «quello americano è l’unico capitalismo fondato sul genocidio di un popolo» mentre il padrone di casa si attesta su posizioni di esplicita difesa di quel mondo e di quella società consente, a chi si avvicina al testo con attenzione volta agli aspetti drammaturgici, di cogliere anche la specificità storico-sociologica del lavoro di Bevilacqua.
I PERSONAGGI IN SCENA, peraltro, non dimenticano mai di sottolineare la particolarità della loro condizione di fantasmi, di trapassati che ragionano in un mondo di vivi alle prese con il virus. Esplicativa, in questo senso, è la battuta affidata a Burke: «Vedere tanta gente per la strada con la faccia coperta, le persone che sembrano fuggire l’una dall’altra, mi ha inquietato. Anche se nella mia condizione io sono ormai al riparo». Da queste parole, pronunciate da un campione del conservatorismo, se non della reazione, si coglie proprio la specificità della condizione umana del nostro tempo costretta a rinserrarsi nell’individualismo più assoluto per sfuggire al contatto, seppure nella forma del contagio; superare questa situazione vorrebbe dire riconquistare quel livello di solidarietà, di fratellanza, come ricorda Marx in un suo intervento, che solo consente di vivere insieme in una società; fare, in sostanza, della sofferenza che ci accomuna un momento di crescita per ricostruire ciò che la pandemia ha separato.
Intenso e teso è il dialogo sulla rivoluzione fra Burke e Lenin al quale contribuisce la Luxemburg ricordando che, in epoca di grandi rivolgimenti sociali e politici, «privata della libertà di dissenso la vita pubblica cade lentamente in letargo e si spegne».
L’INGRESSO in scena di Friedman, che difende a spada tratta le sue scelte di politica economica, in specie quelle riguardanti il Cile di Pinochet, al quale l’economista sostiene di aver regalato «dieci anni di crescita ininterrotta», crea fra i presenti una situazione di forte tensione. Notevole la battuta di Marx che, ricordando il Nobel assegnato a Friedman, sottolinea che «in quel periodo a Stoccolma devono essersi bevuti il cervello».
Alle critiche di chi era già presente si aggiungono quelle degli ultimi due arrivati, Nietzsche e Gramsci; in specie il filosofo tedesco ricorda all’economista statunitense che «l’America ha infettato lo spirito del nostro continente, tutto l’edificio del suo umanesimo è stato minato alle fondamenta dall’americanismo». E Gramsci interviene parlando dell’imperialismo statunitense che, in specie in America Latina, con colpi di Stato, inneschi di guerre civili, sabotaggi, assassini di leader scomodi, monopoli economici, ha esteso il suo dominio: «Bisogna raccontarla nei manuali per la scuola, questa storia edificante!».
FRIEDMAN, PICCATO, lascia la riunione mentre ci si prepara al pranzo accompagnati al desco dalle parole di Gramsci: «Qualcuno ha sempre messo in salvo i gioielli dell’umano genio sotto l’imperversare della guerra». Ma bisogna fare in fretta!
I temi che Bevilacqua tocca con il suo lavoro, come si evince, sono molti ma tutti di grande attualità e, va riconosciuto come pregio specifico del suo testo, riesce a realizzare, attraverso la teatralità, un’operazione da vero storico che ricostruisce un ordito più che secolare di fatti e vicende calandolo, con le parole di alcune/i grandi, nella concreta realtà del mondo in cui viviamo.
È UN LAVORO dal quale emerge il rigore del mestiere dello storico unito, in questo caso, alla brillantezza di un racconto affidato non più alle pagine di un saggio ma al fascino indiscutibile del teatro; e sarebbe interessante, a voler cogliere lo stimolo che fornisce Gramsci in una delle battute riportate, che le scuole si facessero carico di rappresentare questa storia del mondo contemporaneo senza attendere un manuale da inserire fra i libri in adozione.
fonte “il manifesto” del 17 novembre 2021
Piero Bevilacqua
Illustri fantasmi nel castello di Tocqueville
In una piovosa giornata del gennaio 2021, nel castello di Tocqueville si radunano per una breve rimpatriata alcuni grandi spiriti della modernità. Oltre al padrone di casa, siedono in salotto Marx, Lenin, Edmund Burke, Milton Friedman, Rosa Luxemburg, Nietzsche e Gramsci. A dispetto della loro condizione di trapassati, gli ospiti non solo conservano intatta l’eredità del loro pensiero, ma sono informatissimi sul presente, su cui intervengono con l’asprezza e la passione dei vivi. E pochi grandi nodi della modernità sfuggono al loro argomentare: la lunga decadenza dell’Italia, il capitalismo americano e la democrazia, le religioni nel mondo contemporaneo, lo sfruttamento coloniale e il razzismo, la libertà e il mercato, la Rivoluzione d’Ottobre e il crollo del mondo sovietico, la frantumazione individualistica delle società, il nichilismo di massa, la scomparsa della verità dalla discussione pubblica, le minacce che il riscaldamento climatico e la predazione delle risorse proiettano sul futuro prossimo. La condivisa consapevolezza dello stretto sentiero su cui gli uomini si sono irresponsabilmente incamminati li porta a cercare una possibile via d’uscita imposta dalla necessità della salvezza.