di Lelio La Porta – pubblicato il 01 Agosto 2019 su Azioni Parallele
Nel Quaderno 251 (1934) Gramsci propone alcuni criteri di metodo con cui procedere nell’analisi della storia delle classi subalterne caratterizzata dal formarsi dei gruppi subalterni, dalla loro iniziale difficoltà a liberarsi dalla tutela di altri gruppi preesistenti, dallo sforzo di imporre delle svolte in senso progressivo alle politiche dei gruppi dominanti, dalla creazione di formazioni specifiche dei gruppi subalterni al fine di costruire una posizione autonoma rispetto a quella precedentemente, seppure in parte, condivisa dagli stessi gruppi subalterni con altri gruppi. Quindi, va storicamente analizzata ed individuata, continua Gramsci, la linea di sviluppo storico nel corso della quale si sia manifestato lo spirito di scissione, cioè
«il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica» (Q3, 49, 333), ossia il processo necessario allo sviluppo delle «forze innovatrici da gruppi subalterni a gruppi dirigenti e dominanti», dotate di «autonomia integrale» e unificate in uno Stato (Q25, 5, 2288)2.
Spetta allo storico il compito di rintracciare anche la minima iniziativa autonoma dei gruppi subalterni per ricomporre il quadro generale di una storia degli stessi gruppi subalterni;
da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere (Q25, 2, 2284).
Labriola e fra Dolcino
L’applicazione della premessa metodologica che Gramsci indica nel Q25 è individuabile nei corsi universitari che Antonio Labriola tenne, tra il 1896-97 e il 1899-1900, su Fra Dolcino3. Negli appunti preparatori dei corsi Labriola, infatti, procede a partire dalla fissazione di necessari punti di riferimento storici senza i quali non sarebbe comprensibile la vicenda di Fra Dolcino:
Il punto capitale è la formazione dei comuni, ossia la loro autonomia, e poi l’inizio delle libertà civili ossia la preformazione della borghesia e la liberazione della campagna dalla servitù personale dalla gleba e dal fitto perpetuo; l’assimilazione giuridica della terra al libero contrattante e quindi il fitto a tempo (di cui la mezzadria non è che una sottospecie), il predominio della città su la campagna, e l’impossibilità che si formasse un ceto di contadini piccoli proprietarii. Questo fatto primordiale ha deciso di tutta la sorte ulteriore della fisionomia sociale dell’Italia dove una classe di contadini (Germania, Norvegia) non c’è mai stata e viceversa non c’è stata che in modo minimo quella lotta che ha dato luogo alla guerra dei contadini4.
Dopo aver fatto presente che nella sua trattazione non affronterà tutta la storia della formazione dei Comuni, continua:
E poi d’altra parte noi siamo ad una epoca (principio del secolo XIV) nella quale questi comuni si sono formati da un pezzo e alcuni sono venuti in grandezza e in altri s’è già ingenerata la differenziazione politica che mena alla signoria ed alla tirannia e già la lotta generica fra chiesa e Impero cede il punto a quella più moderna e specifica fra Curia romana e monarcato e l’Italia Meridionale continentale s’è già cristallizzata in una monarchia di dominio signoriale e le classi sono già sviluppate5.
Conclusione:
Noi vogliamo studiare monograficamente alcuni riflessi ideologici di questa condizione di cose nei comunisti di allora (e specie le cause della sommossa di Fra Dolcino)6.
Labriola, perciò, si prefigge di affrontare “monograficamente” (come suggerirà Gramsci diversi anni dopo) gli aspetti morfologico-genetici che costituirono la base strutturale della sommossa dolciniana sotto il punto di vista dei “riflessi ideologici”, ossia del modo con cui una struttura ben definita potesse produrre una sovrastruttura ideologica fortemente innervata di motivazioni comuniste. L’impossibilità che in Italia si formasse una classe di contadini proprietari era dipesa, secondo Labriola, dal processo di sviluppo dell’autonomia dei comuni i quali avevano così prodotto quelle specificità tipiche della fisionomia sociale italiana nella quale non si era verificato ciò che invece era avvenuto in Germania, dove la classe dei contadini aveva prodotto una lotta che aveva assunto i caratteri della guerra (il riferimento è alla guerra dei contadini del 1525 di cui si scriverà più avanti):
Il Labriola pensa che il risultato economico della rivoluzione, che nel secolo XII cambia, nell’Italia superiore e media, la condizione dei contadini e mette capo nel dominio borghese nelle forme della città sovrana, sia costituito dal fitto a tempo e abbia come caratteristica la mancanza di formazione di un ceto di piccoli proprietari7.
Le città cercano di attirare i contadini offrendo loro sicurezza e privilegi. Tendenzialmente sparisce la servitù e si creano nuove condizioni:
Le città si allargano … Molta proprietà signorile passa nel dominio delle città… I contadini diventano sudditi della città, quando non diventano cittadini (nelle arti) e molta parte di proprietà signoriale diventa demanio – o contado – e i contadini ancora soggetti passano in soggezione del comune. A molti signori non rimane altra via che di farsi cittadini. La città come costituzione di classi si allarga e si fortifica a spese del clero e nobiltà ed a svantaggio dei contadini. Ciò sarebbe cresciuto all’infinito se i signori non si fossero fatti cittadini. (…) Le località e conglomerazioni di abitanti del ex- o quasi feudo ebbero in più luoghi e per qualche tempo una certa autonomia, con capi eletti o indicati dagli antichi signori. Tasse superiori a quelle dei cittadini, l’obbligo di vendere il grano nella città … Ma in quei luoghi vi furono ribellioni, sebbene le tasse fossero inferiori a quelle di ogni altra parte della cristianità, o adesioni a guerre di altre città o signori, e quindi ne nacque l’istituto dei podestà di campagna. Da questa lotta del comune con le località comunalizzate nacquero rapporti di signoria e ragioni di monopolio…: non potersi vendere il grano del contado che nella città stessa8.
Da una situazione simile derivarono
la rapida sparizione della piccola proprietà endemica e la creazione di una massa di straccioni di campagna che il podestà si mette sotto i piedi. Ecco la via aperta alla meravigliosa diffusione dei francescani e al reclutamento delle compagnie di ventura! (…) Questo studio preliminare servì al Labriola per vedere le ragioni, per le quali alla fine del secolo XIII abbiamo un enorme proletariato di campagna, sul quale s’impernia il moto dolciniano9.
Inoltre l’epoca storica presa in considerazione da Labriola, ossia quella a cavallo fra il XIII e il XIV secolo, è di transizione dalla fase comunale a quella delle Signorie, o meglio delle tirannie10, nella quale lo scontro fra gli universalismi imperiale e pontificio è divenuto scontro fra la Curia romana e la monarchia (Labriola si riferisce al contrasto fra Filippo IV il Bello re di Francia e il papa Bonifacio VIII che, iniziato con la bolla Unam Sanctam del 1302 nella quale il pontefice afferma la superiorità del suo potere rispetto a quello del monarca, ha la sua prima acme nell’episodio dell’anno dopo, noto come lo schiaffo di Anagni, e conduce, infine, alla decisione del re che nomina un papa francese che, trasferitosi Oltralpe, origina la cosiddetta “cattività avignonese”11). La monarchia di “dominio signoriale” di cui scrive Labriola a proposito dell’Italia meridionale continentale è quella angioina che sopravvisse fino al 1442 quando tutto il Sud, compresa la Sicilia, si trovò sotto il dominio del sovrano aragonese Alfonso V il Magnanimo. All’interno di un quadro storico-sociale del genere, nel quale la borghesia è già formata e dominano le aristocrazie dinastiche o baronali, gli episodi di storia delle classi subalterne possono essere analizzati, così sembra scrivere Labriola, dal punto di vista di “alcuni riflessi ideologici di questa condizione nei comunisti di allora” e non ancora dal punto di vista dell’acquisizione di quell’autonomia di cui scriveva Gramsci nel Q25. Il cassinate, nel mentre prepara le sue lezioni su Fra Dolcino, compone il primo dei suoi Saggi nel quale fa chiaramente intendere che, affrontando la figura dell’Apostolico, pur comprendendone l’eroismo, sta per l’appunto analizzando i “riflessi ideologici” della sua azione in quanto ben altro è ciò che viene proposto come terreno di analisi dal comunismo critico e dalla sua dottrina:
La previsione storica, che sta in fondo alla dottrina del Manifesto, e che il comunismo critico ha poi in seguito ampliata e specificata con la più larga e più minuta analisi del mondo presente, ebbe di certo, per le circostanze del tempo in cui apparve la prima volta, calore di battaglia, e colore vivissimo di espressione. Ma non implicava, come non implica tuttora, né una data cronologica, né la dipintura anticipata di una configurazione sociale, come fu ed è proprio delle antiche e nuove profezie e apocalissi. L’eroico Fra Dolcino non era sorto di nuovo a levar per le terre il grido di battaglia, per la profezia di Gioacchino di Fiore. (…) Qui, invece, nella dottrina del comunismo critico, è la società tutta intera, che in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a sé stessa per dichiarare la legge del suo movimento. La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava, era, non cronologica, di preannunzio o di promessa; ma era, per dirla in una parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica12.
In questo contesto quello di Fra Dolcino è sì “un piccolo fatto” ma “significativo” proprio per il contesto nel quale avviene e presenta “caratteri notevoli di precorrimento e di eroismo”13. Il metodo seguito da Labriola è deduttivo, ossia parte dall’analisi delle condizioni generali per pervenire al particolare, e si prefigge come obiettivo
Presentare … Fra Dolcino come il condottiero di un esercito di infimi pei quali la guerra è un atto di apostolato e di redenzione14.
La predicazione dolciniana ottiene il suo massimo risultato fra la fine del 1303 e l’inizio dell’anno successivo con l’occupazione, da parte di tremila persone, del castello di Gattinara e con una resistenza che durò per quattro anni. Il problema intorno al quale riflette Labriola, stando agli appunti delle sue lezioni, è relativo alla modalità attraverso la quale Dolcino ottenne un tale consenso ed a quale fosse l’estrazione sociale dei suoi sostenitori. Si trattava di certo di contadini
più che mai localizzati dal modo d’origine della loro emancipazione, dal loro assoggettamento al comune, dalla varia pressione tributaria, dal vario sviluppo della proprietà piccola e grande, dalla loro ignoranza …15.
Nella sostanza si tratta di quegli “straccioni” di cui scriveva Dal Pane commentando Labriola i quali si riunirono intorno a Dolcino recependo il suo messaggio antiecclesiastico e comunistico sub specie religiosa poiché, allora,
chi avrebbe concepita la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte di una collettività democraticamente organizzata?16
Dolcino raccoglie i suoi seguaci ai quali invia tre lettere (in realtà soltanto due sono note)17 nelle quali spiega che il loro ideale doveva essere la povertà, che nel movimento non esistevano vincoli esteriori di obbedienza ma soltanto vincoli interiori e spirituali, che a lui spettava il compito di dissigillare le profezie e capire le Scritture. Contro il movimento dolciniano, prima in forma di guerriglia poi in quella di una vera e propria crociata, si scatenò la reazione della Chiesa ufficiale supportata dai poteri locali (la zona è quella di Vercelli) fino alla cattura e all’esecuzione.
Arduo trarre dagli appunti di Labriola una conclusione in quanto essi restano appunti per un corso universitario; ma attraverso i Saggi si può tentare di capire il senso dell’attenzione del filosofo a Dolcino e alla sua impresa disperata che viene catalogata fra quei fatti e avvenimenti che furono
correlativi al divenire della borghesia, a misura che essa dilacera, sconvolge, vince e sfascia il sistema feudale. (…) Questa storia del proletariato e delle altre classi di oppressi, e delle vicende delle loro rivolte, ci è già guida sufficiente per intendere come e perché fossero premature, o immature, le ideologie del comunismo di altri tempi18.
Quindi
Il moto dolciniano è uno dei momenti della gran catena delle sollevazioni delle plebi cristiane, che, con varia fortuna e con varia complicazione, si ribellarono alla gerarchia, e nei momenti più acuti furon portate alla inevitabile conseguenza dell’aspettazione del comunismo. (…) non fu cosa di poco conto la rivolta dolciniana; specie per le condizioni di precoce modernità economica in cui trovavasi la valle del Po, in principio del secolo XIV. Ora, l’istinto dell’affinità portava le menti dei rappresentanti e dei condottieri delle plebi in rivolta a tornare verso l’immagine, o verso il confuso ricordo, o verso l’approssimativa riproduzione fantastica di quel cristianesimo primitivo, che fu tutto di minuto popolo, di gente afflitta e sofferente, aspettante la redenzione dalle miserie di questo reo mondo. Il cristianesimo vero, verso del quale, per simpatia procedente da similarità di condizioni, quei ribelli esaltati tornavano con tanto ardore di fede e di fantasia, fu una realtà: non nel senso dell’ideale e del tipico, da cui l’umana debolezza abbia deviato per aberrazione o per malizia, ma nel senso del fatto poveramente empirico. Il cristianesimo primitivo, mutatis mutandis, fu nel tipo, nell’insieme, nella fisonomia e nei moventi, più affine a ciò che Montano, o Dolcino, o Tommaso Münzer vollero, in tempi a ciò non adatti, ristabilire, che non a tutti i dogmi, liturgie, gradi gerarchici, dominii e demanii, lotte politiche, supremazie, inquisizioni ed altre simili miserie, in cui s’aggira la storia umanamente terrena della chiesa. Nei tentativi di cotesti ribelli, si rivede, come se essi avessero voluto dare in ispettacolo un esperimento del passato, quale debba essere stata, a un di presso, la figura originaria del cristianesimo come setta di perfetti santi, ossia di assolutamente eguali, senza differenze di clero e di laici, tutti parimenti capaci dello spirito divino, sanculotti e devoti al tempo stesso, tutti ad un modo19.
Nella sostanza i leader dei movimenti pauperistici ed antigerarchici si sentivano affini al cristianesimo primitivo che si manifestava nella redenzione dei poveri dalla loro condizione. Quel cristianesimo, sostiene Labriola, c’è stato e i suoi epigoni non furono di certo i rappresentanti di una Chiesa corrotta e gerarchizzata ma uomini come Fra Dolcino il quale volle rappresentare, in un’epoca diversa e di rinnovata corruzione, l’originario messaggio evangelico nell’ottica di una prospettiva egualitaria che, però, nel cristianesimo è riservata ai “perfetti santi”. L’utopia dolciniana risiede nell’incomprensione del fatto che la Chiesa del suo secolo riproduceva le stesse differenze di classe presenti nel mondo laico e mantenute con gli stessi strumenti utilizzati dai laici, ossia la violenza e la forza; per ristabilire una condizione di eguaglianza sostanziale è pur vero che Dolcino non si peritò di usare la violenza ma è anche vero che, in assenza di una capacità organizzativa politica, si scontrò con forze preponderanti perdendo anche, progressivamente, il consenso di quei ceti che lo avevano appoggiato inizialmente. Ossia, quel movimento, gramscianamente, non fu in grado di raggiungere l’autonomia integrale e farsi Stato ma, in ogni caso, fu in grado di
dar forma, al sorgere della civiltà moderna, ad una prima etica della liberazione20.
La guerra dei contadini in Germania (1525)
Quel che avvenne in Germania nel 1525, nel pieno dello sviluppo della Riforma luterana, va interpretato come un ulteriore episodio di “etica della liberazione” oppure, seguendo Engels, già si configura come ciò che Gramsci intendeva con “autonomia integrale” dei gruppi subalterni? Oppure si trattò di una vicenda tutta interna alla storia tedesca e alla nascita di una Nazione unitaria che per divenire tale dovrà attendere il 1871?
L’analisi engelsiana della vicenda risale al 185021, ossia all’anno successivo al biennio rivoluzionario 1848-1849 che si era concluso in modo fallimentare per le forze progressiste. Il procedimento analitico engelsiano anticipa e quasi funge da modello a quello labrioliano usato a proposito del movimento dolciniano22. Anche Engels parte dalle condizioni dei contadini tedeschi che vengono descritte nel modo seguente dallo scrittore (seconda metà del XVI secolo) Johan Böhme:
L’ultimo grado de’ Germani è di coloro che coltivano la terra, e stanno ne le ville; de’ quali è assai misera e dura conditione: vivono appartati da gli altri assai humilmente con la famiglia loro, e con le loro bestie, le casuccie loro son piccole e poco alte di terra, fatte di legno e luto; e coverte d’herbaggie secche: il mangiar loro è pane grosso, e menestre di legume la maggior parte; beveno acqua o siero: il vestire loro è di lno; con duo scarponi ne’ pie; e un cappelletto in testa; i miseri sono d’ogni tempo inquieti; s’affatigano sempre, e son sempre sozzi; vanno a vendere ne le città vicine tutto quello, che essi cavano di frutti, o dal terreno o dagli armenti loro; e la si comprano tutto quello, che fa bisogno e per se, e per la casa; percio che non hanno ne le loro ville arteggiani. Ogni villa ha comunemente una chiesa; dove le feste si ragunano tutti inanzi mezo giorno: e intendono dal piovano loro il verbo d’iddio: ma dopo mezzo di si sedono sotto uno arbore di teglia, o in altro luoco publico; e quivi raggionano e trattano le cose loro; e appresso di poi i giovani a suono di piffari fanno una ballata, e i vecchi ne vanno a bere ne le taverne. Niuno homo esce di casa mai disarmato; sempre la spada alato. Ogni villa o casale elegge duo, o quattro al più; i quali così chiamano maestri de la villa e questi sono i mezzani, a tutte le contentioni loro, e contratti; e dispensano le cose de la republica loro; non hanno però il governo; impero che è del signor de la villa, o di colui, che il signor ci pone in suo luogo; che essi in lingua loro chiamano sculteti: spesse volte ne l’anno serveno il signor loro; gli coltivano e seminano la terra; gli meteno poi le biade; e ce le portano infin dentro i greanari; li tagliano le legna, gli edificano le case, li cavano le fosse grandi; e finalmente non è cosa, alla quale i disavventurati non li siano obligati e soggeti; e nessuno have ardire essendoli comandata alcuna cosa, di recusarla, e chi fallisce, ne viene ad esser gravemente punito; ma quello, che gli è più, che tutto ‘l resto de le miserie loro grave; e che la maggior parte del terreno, che essi coltivano; non è loro propria, ma di quelli, a i quali sono abligati ogni anno darli una certa parte di quello che ne cavano de’ frutti23.
Anche se la fonte documentaria di Engels non è il testo di Böhme ma quello di Zimmermann24, ripercorrendo le pagine dello scritto del 1850, almeno per quello che riguarda gli aspetti strutturali della condizione dei contadini tedeschi, si nota una notevole coincidenza fra il testo del 1542 e quello engelsiano del 1850. In quest’ultimo veniva presa in considerazione, in modo particolare, la situazione di subalternità dei contadini ai principi:
Il bisogno di denaro del principe cresceva con l’estendersi del lusso e delle spese per il mantenimento della corte, con la costituzione di eserciti permanenti, con il costo crescente del governo. La pressione fiscale diventò quindi sempre più aspra. Ma le città erano al riparo da essa per via dei loro privilegi. Cosicché tutto il peso fiscale ricadeva sulle spalle dei contadini, tanto di quelli che appartenevano ai domini del principe, quanto dei servi della gleba, degli asserviti e dei censuari appartenenti ai vassalli25.
Per essere ancora più espliciti, il contadino doveva impiegare la massima parte del suo tempo
a lavorare sui beni del suo signore, su quello che guadagnava nelle poche ore libere dovevano essere pagate decime, interesse, censo, dogana … Non poteva sposarsi né morire senza pagare un’imposta al padrone26.
Insomma, parafrasando le parole di Thomas Müntzer, Engels sostiene che
La sentina di ogni usura, di ogni ladreria, di ogni brigantaggio sono i principi e i signori: essi si appropriano di tutte le creature, dei pesci dell’acqua, degli uccelli dell’aria, delle piante della terra. E son proprio loro a predicare ai poveri il comandamento «non rubare», mentre essi arraffano dove trovano, scorticano e pelano il contadino e l’artigiano27.
Ma questo Müntzer era “ancora anzitutto teologo”28 ossia, sebbene in lui e nella sua predicazione Engels rinvenisse potenzialità rivoluzionarie, queste ultime avevano le loro radici nella concezione religiosa. Tutti i motivi tipici della predicazione müntzeriana sono di certo rivoluzionari nonostante, di fatto, la consapevolezza che i contadini tedeschi dell’epoca avevano delle loro condizioni materiali non poteva in alcun modo preannunciare un’esplosione come quella del 1525 la quale, quindi, è ricondotta da Engels non a motivazioni strutturali quanto piuttosto all’opera di diffusione delle idee della Riforma sulle quali si innestò la parola di Müntzer (motivazioni sovrastrutturali). Il fallimento dell’esperienza del 1525, soffocata nel sangue dai principi tedeschi, trova in Engels la sua causa nella inadeguatezza delle condizioni storiche e nell’incapacità del movimento dei contadini di comprenderle e non nel fatto che la molla fosse costituita dalla teologia. Completamente opposto è il parere di Marx secondo il quale
… la guerra dei contadini, il fatto più radicale della storia tedesca, fece naufragio contro la teologia29.
Questa contrapposizione fra Marx ed Engels ha il suo cuore nella diversa considerazione che i due hanno del leader del movimento dei contadini. Per il primo è un teologo, per il secondo è un rivoluzionario il cui linguaggio viene secolarizzato al punto che la teologia diventa
un semplice rivestimento esteriore, la maschera di un pensiero sociale e politico che, dati i tempi e per una maggiore efficacia divulgativa, prende in prestito dalla teologia linguaggio e modelli concettuali30.
Quello che emerge dalla lettura del testo engelsiano è il profilo di un eroe, appunto Müntzer, che tale deve apparire, al di là di ogni riflessione di carattere teorico, a quanti, travolti dal fallimento del biennio 1848-1849, si chiedano come alla fine si possa realizzare un movimento veramente rivoluzionario nella Germania non ancora unitaria. E’ un Müntzer molto simile quello proposto da Bloch31 diversi anni dopo, nel 1921, in un’epoca di ripensamento dopo una stagione rivoluzionaria conclusasi, in Germania, con un nuovo fallimento. Si tratta, infatti, di una figura tragica e complessa di leader, animato da un’interiore volontà rivoluzionaria che si concretizza in uno spirito, lo spirito dell’utopia, che reclama il sovvertimento, attraverso la prassi politica, di quei valori terreni che condizionavano il dispiegamento della autentica religiosità. La fede non scende dal cielo come la manna, bensì è il fine da raggiungere. Bloch individua la vera forza di Müntzer nella sua capacità di smascherare la religione come ideologia e di presentare il superamento dello status quo come obiettivo di un grande movimento rivoluzionario. Eppure, per lui, in Müntzer la teologia resta fonte diretta della rivoluzione al punto che nel titolo del suo scritto compare quella che Marx non avrebbe esitato a definire un’espressione ossimorica: teologo della rivoluzione. E la lettura blochiana trovò una critica quasi contemporanea nel Lukács di Storia e coscienza di classe (1923) il quale, soffermandosi sul decisivo problema del nesso teoria-prassi per ogni movimento rivoluzionario, notò che Bloch interprete di Müntzer ritenesse che il legame fra la religione e un elemento che si presenta rivoluzionario dal punto di vista economico-sociale (la condizione dei contadini nella Germania del XVI secolo) potesse determinare un evento da ricondurre nel contesto del concetto marxiano di rivoluzione: i contadini sono sconfitti perché in loro non agisce la coscienza di classe che non è la mera consapevolezza di una condizione di sfruttamento, ma consiste nella capacità di porsi come guida di un fronte che, partendo dalla salvaguardia degli interessi di classe, organizzi tutte le forze potenzialmente rivoluzionarie:
(…) l’attività … di un Müntzer può a prima vista celare la duplicità insuperabile ancora presente e l’incerta fusione fra empiria e utopismo. Ma se si fa un esame più attento e se si indaga più da vicino il concreto dispiegarsi della base religioso-utopistica della teoria nelle sue conseguenze pratiche, in rapporto alle azioni di Müntzer, si scoprirà tra l’una e le altre lo stesso «oscuro e vuoto spazio», lo stesso «hiatus irrationalis» che sono sempre presenti ogni qualvolta un’utopia soggettiva, e perciò adialettica, si fa direttamente avanti nella realtà storica con l’intenzione di influire su di essa e di modificarla. Le azioni reali appaiono allora – proprio nel loro senso oggettivamente rivoluzionario – quasi completamente dipendenti dall’utopia religiosa: questa non può guidarle realmente e neppure fornire ad esse scopi o mezzi concreti di realizzazione. Perciò, quando Ernst Bloch pensa che in questo legame della sfera religiosa con un elemento rivoluzionario dal punto di vista economico-sociale si possa trovare una via per l’approfondimento del materialismo storico «puramente economico», non si rende conto che in questo modo egli trascura proprio l’effettiva profondità del materialismo storico32.
In sostanza Lukács critica Bloch relativamente al fatto che non può porsi la contrapposizione, rappresentata proprio dalla predicazione müntzeriana, fra l’economia e l’interiorità in quanto la rivoluzione sociale consiste nel cambiamento delle reali condizioni di vita, cambiamento che non può darsi a partire da ciò che afferisce alla sfera psichica e interiore come, invece, fa la religione.
Si potrebbe sostenere che il marxismo, da Engels a Lukács attraverso Bloch, abbia dapprima analizzato e poi rivisitato l’opera di Müntzer pervenendo alla conclusione che, seppure quella predicazione non potesse avere caratteristiche tali da ricondurla al concetto marxiano di rivoluzione, comunque essa si collocava in una prospettiva paradigmatica del rapporto fra governati e governanti così come si andava configurando all’interno dei rapporti di forza stabiliti dal capitalismo. Infatti, non si trattava più del feudatario contro il servo della gleba bensì di una classe di possessori di ricchezza contro una massa di uomini e di donne privati di tutto; una massa di uomini comuni:
Si trattava … di quegli individui che per difendere o estendere i propri diritti politici ereditari furono costretti a lottare, nel momento in cui l’insieme delle relazioni fra signore e servo stava per trasformarsi in quello dei rapporti fra autorità e suddito. Ecco spiegato il motivo per cui, prima della fine del Medioevo, non capita mai di incontrare il concetto di uomo comune. E d’altra parte, ciò non fa che confermare la correlazione fra questo concetto e quello di autorità. (…) l’uomo comune (minatore, contadino, cittadino) rivendica incondizionatamente dei diritti politici che, fino ad allora, erano stati appannaggio della nobiltà e del clero, chiedendo che l’interesse privato si trasformi in interesse comune, poiché solo così il mondo può divenire più pacifico e giusto33.
Müntzer coglie, al dunque, la doppia esigenza politica e sociale della battaglia degli uomini comuni creando fra loro una fratellanza a fondamento biblico-evangelico, cioè teologico, grazie al quale riuscì ad individuare anche i nemici degli uomini comuni: i signori spirituali e terreni. L’obiettivo fu stabilito nella fondazione di una società democratico-comunale o repubblicano teocratica da realizzarsi soltanto superando, rivoluzionariamente, il vecchio ordine politico e sociale34. La formula müntzeriana “Omnia sunt communia” altro non è che
Il nuovo diritto, … che doveva dare espressione all’uguaglianza … di tutti gli uomini dinanzi a Dio e tra di loro anche in relazione ai beni di questo mondo35.
Ma, come già ricordato, Marx notava che la guerra dei contadini aveva fatto naufragio proprio contro la teologia36.
Gramsci e le classi subalterne: fra Engels e Labriola?
Gramsci non è riuscito a realizzare un lavoro monografico, come auspicava che qualcuno facesse nella nota del Quaderno 25 citata all’inizio, sulle classi subalterne ma, compulsando le note dedicate al tema, si evince che stesse raccogliendo una cospicua bibliografia in merito.
Escludendo il testo A di Q4, 59, 505 il cui titolo [Storia delle classi subalterne] compare modificato nel testo C Q11, 7, 1371 in A. Rosmini, tutte le altre note in cui compaiono indicazioni bibliografiche relative alla storia delle classi subalterne sono dei testi B, cioè di stesura unica. Ragionando in termini di indizio, poiché il materiale bibliografico è raccolto in note di stesura unica si può dedurne che Gramsci avesse ben chiaro il materiale, a partire dalla nota del Q4 di seguito riportata, da utilizzare per una futura monografia sulla storia delle classi subalterne:
Storia delle classi subalterne. Pietro Ellero, La quistione sociale, Bologna 1877 (Q4, 95, 536)
Gramsci collega il libro di Ellero con la storia delle classi subalterne avendo letto un articolo della «Civiltà Cattolica» del settembre del 1932 nel quale si affermava che il giurista e senatore nella XVI legislatura del Regno d’Italia sosteneva che
l’Evangelo era animato dal principio antipolitico con cui formava cotali cittadini che “non avrebbero potuto divenir mai né magistrati, né soldati, né cortigiani, né sudditi, né ribelli37.
Storia delle classi subalterne. Su alcuni aspetti del movimento del 1848 in Italia, in quanto riflettono le teorie degli utopisti francesi, cfr Petruccelli della Gattina, La rivoluzione di Napoli nel1848, 2a ed., 1912, a cura di Francesco Torraca; Mondaini, I moti politici del 48; G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale.(Q6, 132, 798)
Storia delle classi subalterne. Cfr l’articolo di Armando Cavalli, Correnti messianiche dopo il ’70, «Nuova Antologia» del 16 novembre 1930. Il Cavalli si è occupato anche altre volte diargomenti simili (vedere i suoi articoli nelle riviste di Gobetti, «Rivoluzione Liberale» e «Baretti» e altrove) sebbene con molta superficialità. In questo articolo accenna a DavideLazzaretti, alle Bande di Benevento, ai movimenti repubblicani (Barsanti) e internazionalisti inRomagna e nel Mezzogiorno. Chiamare «correnti messianiche» è esagerato, perché si tratta di fatti singoli e isolati, che dimostrano più la «passività» delle grandi masse rurali che non una loro vibrazione per sentirsi attraversate da «correnti». Così il Cavalli esagera l’importanza di certe affermazioni «protestantiche» o «riformatrici in generale» della religione che si verificano non solo dopo il 70, ma anche prima, da parte di R. Bonghi e altri liberali (è noto che la «Perseveranza» prima del 70 credeva di far pressione sul papato con queste minacce di una adesione italiana alprotestantesimo) e il suo errore è mostruoso quando pare che voglia porre sullo stesso piano queste affermazioni riformatrici e Davide Lazzaretti. La conclusione è giusta formalmente: dittatura della destra, esclusione dalla vita politica dei partiti repubblicano e clericale, indifferenza del governo per la miseria delle masse agricole. Il concetto di «ideale» formatosi nelle masse di sinistra; nella sua vacuità formale, serve bene a caratterizzare la situazione: non fini e programmi politici concreti e definiti, ma uno stato d’animo vago e oscillante che trovava il suo appagamento in una vuota formula, perché vuota capace di contenere ogni cosa la più disparata. La parola «ideale» è complementare a quella di «sovversivo»: è la formula utile per fare delle frasi ai piccoli intellettuali che formavano l’organizzazione di sinistra. L’«ideale» è un residuo del mazzinianismo popolare in cui si innesta il bakuninismo, e si trascinò fino ai tempi più moderni, mostrando così che una vera direzione politica delle masse non si era formata. (Q6, 158, 812-813)
Storia delle classi subalterne. Intellettuali italiani. Da un articolo di Alfredo Panzini (Biancofiore, nel «Corriere della Sera» del 2 dicembre 1931) su Severino Ferrari e il suo poemetto Il Mago: «Al pari di molti figli della piccola borghesia, specie quelli che frequentavano l’Università, si era sentimentalmente accostato al fonte battesimale di Bakunin più forse che di Carlo Marx. I giovani, nell’entrare della vita, domandano un battesimo; e di Giuseppe Mazzini rimaneva la tomba e il gran fulgore della tomba; ma la parola del grande apostolo non bastava più alle nuove generazioni». Da che il Panzini trae che i giovani, ecc., si accostassero più al Bakunin, ecc.? Forse semplicemente dai ricordi personali di Università (Severino Ferrari era nato nel 1856; il Mago fu pubblicato nel 1884) sebbene il Panzini abbia frequentato l’Università di Bologna molti anni dopo il Ferrari. (Q7, 70, 907)
Storia delle classi subalterne. Bibliografia. Nelle edizioni Remo Sandron molti libri per questa rubrica. Due direzioni. Il Sandron ha avuto un momento di carattere «nazionale»: ha pubblicato molti libri che riguardano la cultura nazionale e internazionale (edizioni originali di opere del Sorel); ed è editore «siciliano», cioè ha pubblicato libri sulle quistioni siciliane, specialmente legate agli avvenimenti del 93-94. Carattere positivistico da una parte e dall’altra sindacalistico delle pubblicazioni del Sandron. Molte edizioni esauritissime, da ricercare nell’antiquaria. Pare che la collezione degli scritti di Marx-Engels-Lassalle diretta da Ettore Ciccotti, prima che da Luigi Mongini, sia stata iniziata dal Sandron (col Capitale) (vedere questo particolare di storia della cultura). Il libro di Bonomi sulle Vie nuove del socialismo, di A. Zerboglio Il socialismo e le obbiezioni più comuni, di Enrico Ferri Discordie positiviste delsocialismo, di Gerolamo Gatti Agricoltura e socialismo (ediz. francese con prefazione di Sorel), di G. E. Modigliani La fine della lotta per la vita fra gli uomini, di A. Loria Marx e la sua dottrina, di E. Leone sul Sindacalismo, di Arturo Labriola su La teoria del valore di Carlo Marx (sul III libro del Capitale), di E. Bruni su Socialismo e diritto privato, di Carlo F. Ferraris su Il materialismostorico e lo Stato ecc. Libri sulla quistione meridionale. Del capitano Francesco Piccoli la Difesadel Dr. Nicola Barbato innanzi al Tribunale di Guerra, pronunziata in Palermo, maggio 1894. (Q8, 66, 980)
Storia delle classi subalterne. Bibliografia. Nel Catalogo Sandron è contenuto anche un libro di Filippo Lo Vetere sull’agricoltura siciliana. Il Lo Vetere (cfr «Problemi del Lavoro» del 1° febbraio 1932) era della generazione dei Fasci siciliani. Dirigeva una rivista «Problemi Siciliani» che sarà interessante ricercare e vedere. È morto nel settembre 1931. Era del gruppo Rigola. (Q8, 70, 982)
Storia delle classi subalterne. La Bohème. Carlo Baudelaire. Cfr C. Baudelaire, Les Fleurs du Mal et autres poèmes, Texte intégral précédé d’une étude inédite d’Henri de Régnier [(«LaRenaissance du Livre», Paris s. d.)]. Nello studio del de Régnier (a pp. 14-15, a contare dalla paginastampata, perché nel testo [della prefazione] non c’è numerazione) si ricorda che il Baudelairepartecipò [attivamente] ai fatti del febbraio e del giugno 1848. «Fait étrange de contagion révolutionnaire, dans cette cervelle si méticuleusement lucide», scrive il de Régnier. Il Baudelaire, con Champfleury, fondò un giornale repubblicano in cui scrisse articoli violenti. Diresse poi un giornale locale a Châteauroux. «Cette double campagne typographique (sic) et la part qu’il prit au mouvement populaire suffirent, il faut le dire, à guérir ce qu’il appela plus tard sa “folie” et que, dans Mon coeur mis à nu, il cherche à s’expliquer à lui-même quand il écrit: “Mon ivresse de 1848. De quelle nature était cette ivresse? Goût de la vengeance, plaisir naturel de la démolition. Ivresse littéraire. Souvenirs de lectures”. Crise bizarre qui transforma cet aristocrate d’idées et de goûts qu’était foncièrement Baudelaire en un énergumène que nous décrit dans ses notes son camarade Le Valvasseur et dont les mains “sentaient la poudre”, proclamant “l’apothéose de la banqueroute sociale”; crise bizarre d’où il rapporta une horreur sincère de la démocratie mais qui était peut-être aussi un premier avertissement physiologique» ecc. [è un primo sintomo della nevrastenia del Baudelaire (ma perché non il contrario? cioè perché la malattia del Baudelaire non avrebbe invece determinato il suo distacco dal movimento popolare? ecc.). In ogni caso vedere se questi scritti politici del Baudelaire sono stati studiati e raccolti. (Q8, 127, 1017)
Storia delle classi subalterne. De Amicis. Del De Amicis sono da vedere la raccolta di discorsi Speranze e Glorie e il volume su Lotte civili. La sua attività letteraria e di oratore in questo senso va dal 90 al 900 ed è da vedere per ricercare l’atteggiamento di certe correnti intellettuali del tempo in confronto della politica statale. Si può vedere quali erano i motivi dominanti, le preoccupazioni morali e gli interessi di queste correnti. Del resto non si tratta di una corrente unica. Sebbene si debba parlare di un socialnazionalismo o socialpatriottismo nel De Amicis, è evidente la sua differenza dal Pascoli, per esempio: il De Amicis era contro la politica africanista, il Pascoli invece era un colonialista di programma. (Q9, 4, 1099)
Storia delle classi subalterne. Di Lucien Herr sono stati pubblicati nel 1932 due volumi di Choix d’écrits (Paris, Rieder, in 16°, pp. 282 e 292) in cui è riprodotto l’articolo su Hegel scritto nel 1890 nella Grande Encyclopédie, e i frammenti di un altro studio, al quale lo Herr attendeva nel 1893. Un motivo (al quale accenna il Croce nella «Critica» del gennaio 1933) e che potrebbe essere alla base del pensiero di Engels sul passaggio dal regno della necessità a quello della libertà e dell’ipotesi di un avvenire senza lotta e antagonismi dialettici, è contenuto in questo frammento, là dove lo Herr spiega (secondo le parole del Croce) «per quale processo mentale il filosofo tedesco fosse tratto a pensare che lo Stato politico (al pari della religione) aveva terminato il suo svolgimento, aveva toccato nella sua sfera l’assolutezza (come la religione col cristianesimo), e che perciò non c’era più luogo per rivoluzioni e tendenze a rivoluzioni. Si era entrati nell’età della vita contemplativa, della Filosofia: si era oltrepassato il mondo pel “sopramondo”. Questo tratto antistorico c’era veramente in Hegel storicissimo». Accenni alla funzione avuta dallo Herr nel movimento popolare francese si trovano nelle lettere di Sorel a Lagardelle pubblicate nell’«Educazione Fascista» del 1933. (Q15, 28, 1783)
Le nove note bibliografiche appena riportate, che non sono un semplice elenco di letture per il detenuto, si riflettono in ciò che Gramsci si proponeva di realizzare e che si può determinare confrontando i due testi di seguito riportati: il primo è un testo A del 1930 e il secondo è il testo C del 1934 che, seppur in modo parziale, è stato citato all’inizio della presente riflessione. Si comparino i due testi. Cambiano i titoli: si passa da Storia della classe dominante e storia delle classi subalterne a Criteri metodologici. Eppure nel testo C si parla di “storico integrale” mentre nel testo A la figura dello storico non compare. Gramsci inserisce la figura dell’intellettuale che ha come compito l’indagine della storia che “riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi”38. Ancora, si passa dallo stato di “difesa allarmata” generica dei subalterni nel testo A, in quanto si pone comunque uno stato di subordinazione rispetto a chi domina, alla situazione in cui la “difesa allarmata” diventa la condizione in cui il gruppo subalterno si trova a dover fare i conti anche in caso di vittoria “permanente”. Per cui sembra di capire che l’iniziativa autonoma è quella che coincide con un’iniziativa dei subalterni che si ponga nella forma della fondazione di un nuovo tipo di Stato nel quale chi prima dominava, e continuava a farlo anche in presenza di un’attività insurrezionale, non può più esercitare il suo dominio. Porre la realizzabilità di monografie sulla storia delle classi subalterne in relazione con la quantità di materiale a disposizione dello storico significa, per Gramsci, trovare episodi e momenti in cui la consapevolezza raggiunta dai subalterni del senso della battaglia da loro combattuta si sia manifestata nella forma concreta dello Stato trasformando l’ideale in concreto, l’astratto principio in forma concreta e, quindi, riempita di contenuti.
Storia della classe dominante e storia delle classi subalterne. La storia delle classi subalterne è necessariamente disgregata ed episodica: c’è nell’attività di queste classi una tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma essa è la parte meno appariscente e che si dimostrasolo a vittoria ottenuta. Le classi subalterne subiscono l’iniziativa della classe dominante, anche quando si ribellano; sono in istato di difesa allarmata. Ogni traccia di iniziativa autonoma è perciòdi inestimabile valore. In ogni modo la monografia è la forma più adatta di questa storia, che domanda un cumulo molto grande di materiali parziali. (Q3, 14, 299-300)
Criteri metodologici. La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in istato di difesa allarmata (questa verità si può dimostrare con la storia della Rivoluzione francese fino al 1830 almeno). Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere.(Q25, 2, 2283-2284)
Sarebbe semplicistico concludere che le classi subalterne avevano trasformato la loro iniziativa autonoma in Stato con la Rivoluzione d’Ottobre e riportare tutto il tentativo gramsciano alla presa d’atto di un fatto evidente di per se stesso. Infatti, se anche Gramsci pensava a quell’esito, pure il suo oggetto era nazionale nel senso che la sua riflessione aveva come origine l’analisi dell’Italia e la verifica se mai in Italia ci fosse stata un’iniziativa autonoma delle classi subalterne. Il problema sta nel fatto che Gramsci, però, non fa riferimento ad episodi specifici della storia d’Italia in cui si fossero manifestati eventi che avrebbero potuto in qualche modo prospettare un’“iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni”. Cenni sporadici, senza, però, alcun approfondimento che mettesse in luce le potenzialità autonome dell’accaduto. Qualche esempio:
i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente. Eppure [anche] nelle Noterelle di G. C. Abba ci sono elementi per dimostrare che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse: basta ricordare i discorsi dell’Abba col frate che va incontro ai garibaldini subito dopo lo sbarco di Marsala. In alcune novelle di G. Verga ci sono elementi pittoreschi di queste sommosse contadine che la guardia nazionale soffocò col terrore e con la fucilazione in massa. (Q19, 26, 2045-2046)
L’episodio a cui Gramsci pone maggior attenzione è legato alla figura di Davide Lazzaretti, ossia ad una figura che ricondurrebbe in qualche modo al fra Dolcino di Labriola o al Müntzer di Engels; una figura, cioè, in cui la motivazione religiosa sembra essere preponderante rispetto ad altre motivazioni o, comunque, a motivazioni di carattere sociale e politico.
Sono cinque le note che Gramsci dedica a Lazzaretti: di esse due sono note B, entrambe del Q6 (144 e 158); delle altre tre, due sono note A (Q3, 12 e Q9, 81) che confluiscono nella nota C del Q25, 1.
Soltanto la nota 158 del Q6 compare nell’elenco delle note bibliografiche, prima riportato. Nella nota B (Q6, 144, 805) in cui compare un esplicito riferimento a Lazzaretti, Gramsci propone un passo di Pascoli, tratto dalla prefazione ad un’antologia scolastica, nel quale il poeta si interroga su quale sarà il futuro dell’umanità nel XX secolo facendo riferimento ad una pubblicazione di Barzellotti su Lazzaretti; se si legge la nota a partire dalla conclusione e poi si aggiungono le parole di Pascoli ne sortisce un quadro di notevole rilievo per la storia delle classi subalterne in Italia; dunque:
Questo brano interessa: 1) per il pensiero politico del Pascoli nel 1899-900. 2) Per mostrare l’efficacia ideologica della morte del Lazzaretti. 3) Per vedere quali rapporti il Pascoli voleva tra gli intellettuali e il popolo.
Questa appena riportata è la conclusione. Ora la citazione da Pascoli:
Ebbene, codesto barrocciaio commosso da un nuovo impulso di fede viva, che cade nel suo sangue, e cotesto pensatore (il Barzellotti), coscienza e mente dei nostri tempi, che lo studia, lo narra, lo compiange, mi sembrano come unsimbolo: l’umanità sapiente che piange e ammonisce, col petto alto e col capo chino, tra lasicurezza del suo pensiero e la pietà del suo sentimento, sull’altra umanità, su quella che delira emuore.
Per quel che riguarda il pensiero politico del Pascoli fin de siècle, di certo non è ancora l’autore della “grande proletaria si è mossa”39. Il barrocciaio che muore nel suo sangue è efficace ideologicamente, in quanto umanità “che delira e muore”, ma politicamente dice nulla in quanto è ancora subalterno non solo alle classi dominanti dell’Italia postunitaria ma soprattutto a quegli intellettuali, rappresentanti, peraltro, proprio di quelle classi, che si manifestano nelle forme di una “umanità sapiente che piange e ammonisce, col petto alto e col capo chino, tra la sicurezza del suo pensiero e la pietà del suo sentimento”. Una condizione di distacco e di non partecipazione. Ben altro dall’intellettuale descritto da Gramsci in Q11, 67, 1505-6.
Da queste note emerge, si può dire, un Lazzaretti efficace, appunto, per dirla con Gramsci, ideologicamente. Ma politicamente?
A Lazzaretti è dedicata la nota 1 del Q25 e, come già scritto, si tratta di una nota di seconda stesura, ossia C. Ma a ben vedere, tutte le otto note che danno vita al Q25 sono di seconda stesura e le corrispondenti note di prima stesura sono tutte, ad esclusione di un caso40, del Q3 e del Q9.
La riflessione di Gramsci parte da una considerazione che è il frutto della lettura della bibliografia delle opere dedicate a Lazzaretti così come riportate da Bulferetti nell’articolo della “Fiera letteraria” citato nella nota (il titolo dello scritto di Lombroso è riportato in modo erroneo da Gramsci in quanto non è Pazzi e anomali bensì Pazzi e anormali. Saggi). Scrive Gramsci:
questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico (Q25, 1, 2279).
Si individuano due elementi del discorso gramsciano che, a ben vedere, ne costituiranno la solida base: 1) l’incapacità da parte degli studiosi di affrontare un fatto collettivo a partire dalle sue motivazioni di fondo e, invece, la tendenza consolidata ad isolare il leader attribuendo al suo atteggiamento un fondo patologico; 2) la costante, che Gramsci individua attraverso l’uso dell’avverbio di tempo “sempre”, da parte della élite sociale, ossia dei dominanti, di attribuire ai subalterni e alle loro lotte, anche soltanto potenziali, la patente del “barbarico o patologico”. In questo contesto si inserisce anche il libro di Barzellotti, ritenuto uno dei più importanti su Lazzaretti, che altro non è
che una manifestazione di patriottismo letterario (– per amor di patria! – come si dice) che portava a cercar di nascondere lecause di malessere generale che esistevano in Italia dopo il 70, dando, dei singoli episodi diesplosione di tale malessere, spiegazioni restrittive, individuali, folcloristiche, patologiche ecc.La stessa cosa è avvenuta più in grande per il «brigantaggio» meridionale e delle isole. (Q25, 1, 2279-2280).
Nessun politico dell’epoca ha messo in evidenza la ferocia con cui Lazzaretti fu ucciso e gli stessi repubblicani, che in qualche modo avrebbero dovuto sostenere un movimento che era repubblicano alle radici, seppur di un repubblicanesimo frammisto “all’elemento religioso e profetico”, se ne disinteressarono. Proprio qui sta il punto, come nota Gramsci; ossia
questo miscuglio rappresenta la caratteristica principale dell’avvenimento perché dimostra la sua popolarità e spontaneità. (Ibidem)
Sulla popolarità e spontaneità del movimento lazzarettista e, soprattutto, sul peso che una sua affermazione avrebbe potuto avere sulla politica dei governi italiani (dal 1876 governava la Sinistra di Depretis) Gramsci suggerisce uno spunto di riflessione per nulla peregrino. Infatti
È da ritenere inoltre che il movimento lazzarettista sia stato legato al non-expedit del Vaticano, e abbia mostrato al governo quale tendenza sovversiva-popolare-elementare poteva nascere tra i contadini in seguito all’astensionismo politico clericale e al fatto che le masse rurali, in assenza di partiti regolari, si cercavano dirigenti locali che emergevano dalla massa stessa, mescolando la religione e il fanatismo all’insieme di rivendicazioni che in forma elementare fermentavano nelle campagne. (Ibidem)
Il non-expedit era alla base dell’astensionismo politico clericale e quasi costringeva le masse rurali a muoversi, in senso sovversivo, spontaneamente individuando leader locali all’interno della stessa massa visto che latitavano partiti regolari. Uno di questi leader era appunto Lazzaretti che alimentava la sua azione attraverso il “miscuglio” di repubblicanesimo e religione. La Sinistra al potere, peraltro, aveva alimentato grandi aspettative, andate deluse, nel popolo e proprio il governo delle sinistre
spiegherebbe anche la tiepidezza nel sostenere una lotta contro il governo per l’uccisione delittuosa di uno che poteva essere presentato come un codino papalino clericale ecc.41 (Q3, 12, 298)
Il resto della nota è da Gramsci dedicato al racconto della vita e dell’attività di Lazzaretti così come emergono dal libro di Barzellotti e ad un tentativo di comprendere quale fosse il fine della setta sopravvissuta alla morte di Lazzaretti stesso e radicalizzatasi nella zona di Arcidosso. Passando, però, dalle notazioni biografiche a quelle più strettamente valutative circa il ruolo della setta lazzarettista, Gramsci scrive alcune righe che potrebbero essere definite una sorta di sospensione del giudizio:
Il dramma del Lazzaretti deve essere riannodato alle «imprese» delle così dette bande di Benevento, che sono quasi simultanee: i preti e i contadini coinvolti nel processo di Malatesta pensavano in modo molto analogo a quello dei Lazzarettisti, come risulta dai resoconti giudiziari… In ogni modo, il dramma del Lazzaretti è stato finora veduto solo dal punto di vista dell’impressionismo letterario, mentre meriterebbe un’analisi politico-storica. (Q25, 1, 2282)
Peraltro l’uscita dall’”impressionismo letterario” e il tentativo di “un’analisi storico-politica” a proposito di Lazzaretti Gramsci li aveva già saggiati nella nota 158 del Q6, già riportata in precedenza,
nella quale Gramsci esplicita, a partire da un articolo di Cavalli sul messianesimo dopo il 1870 (presa di Roma e fine del potere temporale della Chiesa), il suo punto di vista intorno alle tendenze riformatrici all’interno della Chiesa definendo un errore da parte di Cavalli ritenere che l’episodio di Lazzaretti possa essere inserito nell’ambito di tale movimento riformatore (lo stesso vale per le “bande di Benevento”); infatti
si tratta di fatti singoli e isolati, che dimostrano più la «passività» delle grandi masse rurali che non una loro vibrazione per sentirsi attraversate da «correnti».
La parte finale della nota sembra essere un’aggiunta rispetto al senso della nota stessa il cui carattere è eminentemente descrittivo. Infatti Gramsci propone una riflessione intorno al vuoto teorico in cui sono lasciate le classi subalterne italiane da intellettuali propensi a sproloquiare intorno al concetto di “ideale” ritenendolo un succedaneo di “sovversivo”: può proporsi come rivoluzionario, afferma Gramsci, ciò che è organizzato, altrimenti si resta nel campo del “flatus vocis” il cui unico risultato è il permanere delle masse nella loro passività; detto in modo diverso nella forma ma non nel contenuto, se manca la direzione politica non può esserci attività rivoluzionaria.
Conclusione
Sembra che la ricognizione sui testi gramsciani conduca alla conclusione che
Si può dire che l’elemento della spontaneità è perciò caratteristico della «storia delle classi subalterne» e anzi degli elementi più marginali e periferici di queste classi, che non hanno raggiunto la coscienza della classe «per sé» e che perciò non sospettano neanche che la loro storia possa avere una qualsiasi importanza e che abbia un qualsiasi valore lasciarne tracce documentarie. (Q3, 48, 328)
Prendendo come esempio il movimento dei Consigli torinese del 1920, Gramsci aggiunge che il suo specifico carattere spontaneo
fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna (ivi, 330)
dove per “teoria moderna” deve intendersi la filosofia della prassi, ossia il marxismo. Quindi unità della “spontaneità” e della “direzione consapevole”, la necessaria disciplina che
è appunto la azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa (ibidem).
Passando dal terreno metodologico a quello dell’analisi “concreta della situazione concreta”, Gramsci scrive ancora
Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti «spontanei», cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi (ivi, 331).
Infatti lo spontaneismo incontrollato, ossia non diretto consapevolmente, può avere come conseguenza la formazione di “un movimento reazionario della destra della classe dominante”. Gramsci conclude la nota con un’indicazione di lavoro e di metodo che riconduce al punto del Q25 da cui ha preso inizio questa riflessione ricollocando nel modo storicamente più cogente il rapporto teoria-prassi all’interno della stessa filosofia della prassi:
La concezione storico-politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta. Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività (ivi, 332).
Note
1 I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci saranno citati nell’edizione critica curata da V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, indicando il numero del Quaderno, del paragrafo e della pagina.
2 Rocco Lacorte, Spirito di scissione in G. Liguori-P. Voza (a cura di) Dizionario gramsciano, Carocci, Roma 2009, p. 793.
3 «Mi proposi di trattare all’Università della condizione economica dell’Italia superiore e media in su la fine del XIII, e in sul cominciamento del XIV secolo, col principale intento di spiegare l’origine del proletariato di campagna e di città, per trovar poscia qualche prammatica spiegazione al sorgere di certe agitazioni comunistiche, e per dichiarare da ultimo le vicende assai oscure della eroica vita di fra Dolcino. Fu certo intento mio d’essere e rimanere marxista; ma non posso non prendere sotto la mia responsabilità personale le cose che dissi a mio rischio e pericolo, perché le fonti su le quali mi toccava di lavorare son quelle che maneggiano tutti gli altri storici, d’ogni altra scuola o indirizzo, e a Marx non aveva niente da chiedere, poiché lui non aveva niente da offrirmi nella fattispecie» (A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia in Saggi sul materialismo storico, introduzione e cura di Antonio A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 215).
4 Antonio Labriola, Fra Dolcino, a cura di A. Savorelli, Edizioni della Normale, Pisa 2013, pp. 26-27 (d’ora in avanti FD).
5 FD, pp. 27-28.
6 FD, ibidem.
7 L. Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Einaudi, Torino 1975, p. 409.
8 FD, pp. 31-32.
9 L. Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, cit., pp. 412-413
10 In questa ottica «Firenze è l’arena dei combattimenti della lotta di classe, finché dalla plutocrazia sorge la tirannia, e da questa il principato civile e l’amministrazione moderna. Cosimo dei Medici è banchiere» (FD, p. 42).
11 Quasi a definire i caratteri della transizione dal feudalesimo al capitalismo, prendendo come riferimento proprio l’episodio di Anagni, anche nei suoi aspetti aneddotici, Labriola descrive nel modo seguente “il commissario del sire di Francia” che fu protagonista della vicenda: «… a preparare l’umiliazione di Anagni non fu un capitano di banda feudale, ma un legista, che negoziò il danaro occorrente alla bisogna in una cambiale rilasciata a un banchiere di Firenze. Furono questi legisti, e principi usurpatori di diritti storici, e banchieri accumulatori del danaro, che poi divenne più tardi il capitale, quelli i quali iniziarono la moderna società così trasparente nella prosaica struttura degli intenti e dei mezzi suoi» (A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia in Saggi sul materialismo storico, cit., p. 298).
12 A. Labriola, In memoria del Manifesto dei Comunisti in Saggi sul materialismo storico, cit., pp. 56-57.
13 FD, p. 47.
14 FD, p. 48.
15 FD, pp. 73-74.
16 FD, p. 74.
17 FD, p. 77-84. «Beato te, Fra Dolcino, che nelle tue tre lettere potesti trasfigurare gli accidenti politici del momento (Papa Celestino e Papa Bonifacio VIII, Angioini ed Aragonesi, Guelfi e Ghibellini, misere plebi e patriziati dei comuni, e così via) in tipi già simboleggiati dai profeti e dall’Apocalisse, misurando ad anni, a mesi ed a giorni, con successive correzioni, i tempi della provvidenza. Ma fosti un eroe; la qual cosa dimostra, che quelle fantasie non furon la causa del tuo operare, ma l’involucro ideale, nel quale tu rendevi conto a te stesso, come fecer tanti altri, per tutto un secolo innanzi a te, e Francesco d’Assisi compreso, del disperato moto delle plebi contro la gerarchia papale, contro la borghesia già forte nei comuni e contro il nascente monarcato» (A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia in Saggi sul materialismo storico, cit., pp. 311-312).
18 A. Labriola, In memoria del Manifesto dei Comunisti in Saggi sul materialismo storico, cit., pp. 76-77.
19 A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia in Saggi sul materialismo storico, cit., pp. 295-296.
20 M. Zanantoni, Per una storia del cristianesimo primitivo in Antonio Labriola in Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, a cura di A. Burgio, Quodlibet, Macerata 2005, p. 52; sul tema si veda anche N. Badaloni, Sulla dialettica materialistica della liberazione in «Critica Marxista», 5/6, 1976.
21 F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Editori Riuniti, Roma 1976 (Die deutsche Bauernkrieg pubblicato nel maggio-agosto 1850 in «Neue Rheinische Zeitung. Politisch-ökonomische Revue», 5/6, Amburgo 1850).
22 Introducendo FD, Alessandro Savorelli, in riferimento ai corsi labrioliani del 1893-94 e del 1895-96, quasi propedeutici a quelli su fra Dolcino, scrive: «Nelle lezioni sugli antecedenti storici del socialismo Labriola aveva fatto ricorso a La guerra dei contadini in Germania di Friedrich Engels (1850), dove peraltro Dolcino non era nominato, ma lo stimolo più diretto gli venne dalla pubblicazione, nel 1895, del primo volume dei Precursori del socialismo di Karl Kautsky» (FD, p. 7) nel quale si faceva esplicito riferimento al novarese. E’ abbastanza lecito sostenere, quindi, che la presenza engelsiana nei corsi sugli antecedenti del socialismo si ripercosse anche nei corsi su Dolcino. Va notato che il libro di Kautsky (Die Vorläufer des Neueren Sozialismus ossia i Precursori del socialismo), edito a Stoccarda da Dietz, è utilizzato, proprio con riferimento al primo volume, da Lukács nel suo Manoscritto Dostoevskij (G. Lukács, Dostoevskij, a cura di M. Cometa, SE, Milano 2000-2012), risalente al 1915, a proposito dei Taboriti e della possibilità di un comunismo derivante dai movimenti ereticali e pauperistici. E’ interessante che il marxismo di Labriola e quello di Lukács, partendo dal presupposto che il secondo non conosceva nulla del primo né mai se ne interesserà, abbiano comuni radici nella teologia. La circostanza è confermata dallo stesso Cassinate: «Da giovane, come accadeva allora di tutti quelli che si aggirassero nella cerchia della filosofia classica di Germania, lessi lo Strauss e i principali scritti della scuola di Tubinga; ed ora, con tanti altri, potrei, con piccola variante, ripetere la esclamazione di Faust: ich habe, leider, auch Theologie studiert!» (A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia in Saggi sul materialismo storico, cit., pp. 279-280).
23 J. Boemus, Gli costumi, le leggi, et l’usanze di tutte le genti, traduzione di Lucio Fauno, Venezia 1542, pp.126-127.
24 W. Zimmermann, Allgemeine Geschichte des grossen Bauernkrieges, Stoccarda 1841-43, Berlino est 1975.
25 F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, cit., p. 35.
26 Ivi, p. 45.
27 Ivi, p. 66.
28 Ivi, p. 62.
29 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione in id., La questione ebraica, a cura di G. Pisanò, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 41.
30 T. La Rocca, Interpretazioni di Müntzer da Lutero a Engels in Aa. Vv., Thomas Müntzer e la rivoluzione dell’uomo comune, a cura di T. La Rocca, Claudiana, Torino 1990, p. 147. Che per Engels fosse così lo si intuisce da diversi passi del suo scritto fra i quali il seguente è emblematico: «Per Müntzer il regno di Dio è un’organizzazione della società in cui non ci sono più né differenze sociali, né proprietà privata, né autorità statale estranea e indipendente, contrapposta ai membri della società» (F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, cit., p. 65).
31 E. Bloch, Thomas Müntzer, teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980-2010.
32 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1974, pp. 253-254.
33 P. Blickle, La Riforma luterana e la guerra dei contadini, il Mulino, Bologna 1983, p. 228 e 230.
34 H. J. Goertz, Thomas Müntzer, un rivoluzionario tra Medioevo ed età moderna in Aa. Vv., Thomas Müntzer e la rivoluzione dell’uomo comune, cit., p. 43.
35 Ibidem.
36 Cfr. nota 28.
37 Q. Apparato critico, 2666.
38 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo 20132, p. 806.
39 Il discorso di Pascoli La grande proletaria si è mossa fu pubblicato su “La Tribuna” il 27 novembre 1911. Le considerazioni gramsciane sul pensiero politico pascoliano in Q2, 51 e 52, 205-210.
40 “Adriano Tilgher, Homo faber. Storia del concetto del lavoro nella civiltà occidentale, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1929. L. 15.” Si tratta della nota 3 del Q25, seconda stesura di Q1, 95, 92.
41 A. Gramsci, Quaderni del carcere. 2 Quaderni miscellanei (1929-1935), a cura di G. Cospito, G. Francioni e F. Frosini, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2017, p. 452.