Il Servizio Sanitario Nazionale nasce per garantire a tutti i cittadini l’assistenza e le cure necessarie, al passo con i progressi scientifici, su tutto il territorio nazionale.
Nasce per garantire il diritto costituzionale alla salute.
Nasce in un contesto in cui esistevano strutture ospedaliere, cliniche, studi professionali, medici, infermieri, portantini, che lavoravano e che sono diventati “personale dipendente dal SSN” oppure “personale dipendente da strutture convenzionato e/o personale convenzionato”.
Tutto ciò, finanziato con lo stesso fondo dedicato alla spesa sanitaria dal bilancio statale, anno per anno.
In altri articoli su questo blog ho chiarito la mia idea rispetto a questo meccanismo perverso, per cui tutti i soldi destinati alle strutture convenzionate comprendono quanto viene speso in toto per le prestazioni erogate e quanto è guadagno per le strutture stesse.
Il grande e bellissimo Policlinico Agostino Gemelli di Roma è una di esse, così come l’Ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, le strutture appartenenti al Campus Biomedico, la Columbus, e varie altre, che tutti noi romani conosciamo perfettamente, e alle quali ci rivolgiamo con fiducia per la fama di alta qualità delle prestazioni mediche erogate.
Tuttavia, l’ospedale è un luogo di cura, e non soltanto di erogazione di terapie, e LA CURA inizia nel momento in cui il paziente accede al Pronto Soccorso, con tutte le sue patologie pregresse, le sue disabilità, le acuzie che lo portano alla richiesta di aiuto; la complessità della sua condizione umana e clinica non può essere semplificata né schematizzata, ciascun paziente deve ricevere tutto ciò di cui necessita in termini di terapia, assistenza alla persona, attenzione alle peculiarità del caso.
Tutto ciò necessita di una quantità adeguata di personale: MEDICI, INFERMIERI, OSS, devono essere presenti in ogni turno in numero sufficiente a garantire tutto questo e devono essere inquadrati come PERSONALE ASSUNTO IN SERVIZIO sul quale poter fare affidamento per tutto quanto occorre: raccolta anamnestica, assistenza al letto del paziente, colloquio e trasmissione di notizie dai/ai familiari, decisioni sulle procedure diagnostiche e terapeutiche da intraprendere.
Il lavoro SULL’EMERGENZA non deve essere lavoro IN EMERGENZA.
L’alto livello di stress che comporta l’emergenza sanitaria, per chi la subisce e per chi la cura, rende qualsiasi politica di risparmio sulla spesa un’operazione pericolosa i cui frutti sono inevitabilmente amari.
Dal dott. Nicola Vanacore, collega e amico di vecchia data, ricevo e volentieri, con la sua autorizzazione a farlo, pubblico.
Il seguente articolo è stato pubblicato dalla rivista “Recenti Progressi in Medicina”, 113 (4), aprile 2022, Il Pensiero Scientifico Editore
L’ACCOGLIENZA AL PRONTO SOCCORSO PER LE PERSONE NON AUTOSUFFICIENTI
Dott. NICOLA VANACORE – Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Il racconto
Ero in Istituto, presto, come tutti i giorni e ricevo una telefonata di mio fratello che mi annuncia che nostra madre è caduta in bagno, ha battuto violentemente la testa sul pavimento, mentre si muoveva con il suo deambulatore. La badante sarebbe arrivata a minuti. Sento al telefono le urla strazianti di dolore mentre gli operatori del 118 la conducono in ospedale. Nella roulette della centrale del 118, tra i tre ospedali disponibili in zona, viene scelto il Pronto Soccorso (PS) del Policlinico Gemelli di Roma. Una donna di 88 anni, non autosufficiente da due anni per una coxartrosi inoperabile, cognitivamente integra, viene quindi condotta venerdì 25 febbraio da un’autombulanza del 118 alle ore 8.40 al PS del Policlinico Gemelli di Roma con una ferita lacero-contusa nella regione frontale sinistra e una probabile frattura dell’omero destro in seguito a una caduta accidentale in casa. Nella mattinata del 25 febbraio viene posta diagnosi di frattura scomposta dell’omero destro ed eseguita una TAC cerebrale con esito negativo. Mia madre, collocata su una barella, resta in attesa di un ricovero presso il reparto di ortopedia per l’esecuzione dell’intervento chirurgico. Nella mattinata di sabato 26 febbraio viene eseguita una seconda TAC cerebrale con esito negativo. Nella serata di domenica 27 febbraio mia madre segnala al personale medico-infermieristico vertigini e cefalea e nella mattinata di lunedì 28 febbraio viene eseguita una terza TAC cerebrale che documenta un’emorragia. Viene richiesta una consulenza neurochirurgica e si decide di ripetere una TAC per il giorno successivo, martedì 1° marzo. Nella serata di lunedì 28 febbraio viene trasferita presso il reparto di neurologia dello stesso nosocomio dopo 80 ore di permanenza presso il PS.
Questa è la sintesi clinica degli eventi.
Dall’ingresso in PS inizia per me e i miei fratelli un incubo che ci cambierà la vita. Il PS del Policlinico Gemelli è organizzato nella relazione con i parenti con un numero telefonico disponibile dal lunedì al venerdì dalle ore 11.30 alle 12.30 e dalle ore 17.00 alle 18.00. Il sabato il servizio è previsto solo la mattina sempre dalle 11.30 alle 12.30. Non è previsto alcun contatto per i familiari con i sanitari per il sabato pomeriggio e l’intera giornata della domenica. Incomprensibile. Evidentemente per qualcuno della Direzione Sanitaria la relazione con i familiari, intesa quindi come un problema, finisce alle 11.30 del sabato e nel fine settimana si sospende. Riesco a parlare con i medici del PS per pochissimi minuti al numero telefonico disponibile nella mattinata di venerdì 25 febbraio dopo 42 tentativi, nel pomeriggio dopo 44 tentativi, nella mattinata di sabato 26 febbraio dopo 122 tentativi, nella mattinata di lunedì 28 febbraio dopo 77 tentativi e nel pomeriggio dopo 34 tentativi.
Non dimenticherò mai questa crudele “gara” tra me e gli altri familiari dei pazienti che a pochi metri di distanza, nello spazio antistante il PS, cercavamo di prendere la linea… per sapere qualcosa dei nostri cari in modo da contenere le nostre ansie e preoccupazioni. Qualche volta ci siamo parlati, ma non serviva, bastava leggere gli sguardi e l’espressione dei volti.
Mia madre riceve un cellulare solo nella mattinata di sabato 26 febbraio in quanto il personale del triage ci aveva preannunciato un imminente trasferimento nel reparto di ortopedia dicendo quindi di soprassedere dalla consegna del telefono. Mia madre, con una frattura al braccio destro, si trova in grande difficoltà a usare il cellulare che, in un paio di occasioni, cade in terra e viene recuperato dal personale del PS solo dopo numerose ore. Io e i miei fratelli, impossibilitati a raggiungerla telefonicamente per gran parte del tempo, riusciamo ad apprendere della situazione solo grazie alla collaborazione del personale della ditta privata addetta alla vigilanza. Nell’arco delle 80 ore di ricovero presso il PS mia madre riesce a ricevere solo sette telefonate dai suoi quattro figli. Penso come avremmo potuto sostenerla nella sua sofferenza, eravamo lì, a pochi metri dall’entrata del PS dove siamo stati per quattro giorni.
Comunico una complessa e articolata terapia di mia madre per ben tre volte: una volta agli operatori del 118, una seconda volta a un medico del PS nella mattinata del 25 febbraio e una terza volta nel pomeriggio del 25 febbraio a un nuovo medico del PS. I contatti con i colleghi del PS sono avvenuti per pochissimi minuti, in piedi, scrivendo la terapia sulle mura dei locali antistanti l’ingresso al PS. Penso e rifletto sull’organizzazione in essere in quel PS e la memoria va a quando mi sono trovato io dall’altra parte in un reparto o in un ambulatorio a chiedere la terapia ai familiari dei pazienti. Durante almeno due contatti telefonici con mia madre intuisco che si trova in un palese stato confusionale, mi chiede di chiamare il 118 e di portarla via da lì. Lo segnalo immediatamente ai colleghi durante i colloqui telefonici. Ma non so che cosa succede. Alle 15.00 di lunedì 28 febbraio, mi squilla il cellulare da un numero sconosciuto, di solito non rispondo ma questa volta istintivamente lo faccio: è mia madre che da un cellulare di un vicino di barella, a cui ha chiesto la cortesia di comporre il mio numero, mi dice di aver effettuato, in mattinata, una TAC cerebrale che documenta una condizione emorragica e di essere stata visitata da un neurochirurgo.
Ed ecco un’altra anomalia. Nonostante al momento dell’accesso al PS abbia comunicato il mio numero di cellulare, apprendo ufficialmente la notizia di questo rilevante e cruciale cambiamento delle condizioni cliniche di mia madre solo alle 17.11 di lunedì 28 febbraio ad almeno 8 ore dall’esecuzione della TAC durante il colloquio telefonico previsto con i medici del PS. Nei quattro giorni di permanenza al PS, innumerevoli volte io e i miei fratelli abbiamo contattato il personale del triage informandoli della situazione clinica e logistica in corso. La risposta è stata sempre la stessa: chiamare al numero telefonico indicato. Ecco, siamo rimasti per l’intera durata del ricovero di nostra madre accampati nello spazio antistante il PS in attesa di informazioni in un crescente stato di ansia e di angoscia anche perché, periodicamente, nell’arco della giornata, i sanitari uscivano dal PS e urlando il cognome dei ricoverati cercavano un contatto con i familiari per un raccordo anamnestico o cercando di acquisire informazioni di altro genere. E questo stato d’animo si è acuito il sabato pomeriggio e la domenica in cui nessun contatto ufficiale è previsto.
Dopo 80 ore permanenza al PS mia madre viene trasferita al reparto di neurologia. Accoglienza eccezionale, riesco finalmente a vederla, toccarla e parlarci. Un altro mondo, un’altra dimensione. Questo cambiamento mi disorienta. È lucidissima, arrabbiata con noi e gli altri perché non si sa spiegare quello che è accaduto nei giorni precedenti. Lei, cattolicissima, nell’ospedale del Papa. L’assisto, le do da bere e si mangia una caramella. Insieme disegniamo il futuro, le dico cosa accadrà dal punto di vista medico nei giorni successivi. Purtroppo gli eventi precipitano. Alla TAC cerebrale del giorno successivo si documenta un’emorragia massiva. Con il neurochirurgo si decide di non operarla. Entra in coma e dopo 24 ore muore. Le sto vicino in questo tempo, osservo i cambiamenti del suo respiro e la modifica dei valori dei parametri vitali fino a una linea retta sul monitor.
Mentre sono accanto a mia madre, deceduta da un paio di ore, nel reparto di neurologia arrivano gli operatori della camera mortuaria per il trasferimento della salma. Mi consegnano un foglio a firma del Direttore Sanitario che recita: « … nel porgerle le più sentite condoglianze per la dolorosa scomparsa della persona cara, pensiamo possa esserle utile ricevere alcune informazioni per affrontare questa circostanza…». Queste parole fanno un viaggio nel mio cuore e nella mia mente.
Il contesto delle norme
Sono il direttore di un reparto all’Istituto Superiore di Sanità che si occupa di malattie croniche e di anziani nonché responsabile dell’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Il nostro gruppo, composto da 17 persone, si occupa di ricerca in questo settore e contribuiamo a scrivere documenti di consenso, linee di indirizzo e linee guida (LG). In queste settimane stiamo fornendo un supporto tecnico alla Regione Lazio sulla stesura di un percorso diagnostico-terapeutico assistenziale (PDTA) per persone non autosufficienti e stiamo partecipando alla stesura di una LG sulla valutazione multidimensionale dell’anziano nonché ad alcuni tavoli tecnicoscientifici istituzionali, fornendo la nostra expertise su specifiche tematiche della cronicità.
Inizio quindi un viaggio nei documenti, nella teoria.
Il Decreto del Commissario ad Acta della Regione Lazio del 3 settembre del 2019, relativo al recepimento dell’Accordo tra Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sui documenti “Linee di indirizzo nazionali sul Triage ospedaliero”, “Linee di indirizzo nazionali sull’Osservazione Breve Intensiva (OBI)” e “Linee di indirizzo nazionali per lo sviluppo del Piano di gestione del sovraffollamento in Pronto Soccorso” sancito dalla Conferenza Permanente Stato-Regioni nella seduta del 1 agosto 2019 prevede al paragrafo 2.1 (Accoglienza e attribuzione del codice di priorità) quanto segue: «Con la definizione di Accoglienza in Triage ci si riferisce alla presa in carico globale della persona e alla gestione delle informazioni con i relativi caregivers, dal momento dell’arrivo in PS e durante l’attesa. Questa è una fase critica del rapporto tra il cittadino e il Servizio Sanitario, perché gravata da aspettative emotivamente importanti relative alla necessità di ottenere una soddisfazione rapida del proprio bisogno di salute. Nelle diverse esperienze internazionali è ormai riconosciuta la complementarietà degli interventi sanitari e psicosociali nei confronti della popolazione e con essa la necessità di un supporto agli operatori. È evidente, quindi, la necessità di una stretta relazione metodologica tra gli aspetti sanitari e quelli psicosociali negli interventi di assistenza e supporto agli utenti. Per una corretta presa in carico della persona e dei suoi accompagnatori, è municazione e delle capacità relazionali con la persona assistita e con il nucleo familiare soprattutto nella gestione di conflitti e di eventi critici. A tale scopo, oltre la formazione specifica per l’infermiere di Triage, è opportuno formare più unità di personale e disporre di una funzione di Psicologia aziendale che, sulla base di procedure organizzative concordate, intervenga sia nelle situazioni ritenute più complesse che richiedono un contributo specialistico, sia per sostenere l’équipe assistenziale, attraverso incontri periodici e, eventualmente, la presa in carico di eventi critici. Per accogliere i cittadini che giungono in PS, è possibile prevedere nella sala d’attesa anche la presenza di personale laico volontario, specificatamente formato, ed autorizzato, attraverso appositi progetti. Questa funzione può essere svolta, ad esempio, da personale appartenente ad Associazioni di volontariato accreditate. Tali figure hanno il compito di rispondere tempestivamente ai bisogni di informazione ed accudimento del paziente e degli accompagnatori, fornendo indicazioni e raccogliendone le segnalazioni. Non è richiesta a queste figure alcuna conoscenza sanitaria di tipo assistenziale o clinico, poiché esse non sostituiscono la funzione del personale sanitario. Nella gestione complessiva del cittadino-utente-paziente l’organizzazione degli spazi prevede un’area dedicata alla presa in carico della persona, in quanto entità sociale con una famiglia ed un ambiente di riferimento. Con questo si intende considerare, nell’ambito delle attività assistenziali, non solo le valutazioni clinico assistenziali proprie della condizione che porta il paziente al Pronto Soccorso, ma anche la presa in carico della persona stessa nella sua interezza, considerando quindi la sua “umanità”. Questa attenzione, che oggi chiamiamo “umanizzazione delle cure”, in effetti è un aspetto del piano assistenziale. Particolare attenzione deve essere posta anche all’implementazione di strategie informative con strumenti quali l’uso di idonea cartellonistica e di sistemi di monitoraggio che aggiornino in tempo reale la situazione del servizio di Pronto Soccorso». Inoltre, per quanto riguarda l’organizzazione in OBI (paragrafo 3.1 del suddetto provvedimento), si prevede che: «L’ammissione dei pazienti in OBI, laddove appropriata, deve avvenire entro un tempo massimo di 8 ore dalla presa in carico e la permanenza non deve superare le 44 ore dalla presa in carico al triage.
Il trattamento in OBI può esitare in:
■ Ricovero presso una unità di degenza della struttura ospedaliera mediante attivazione della relativa proce[1]dura con apertura della scheda di ammissione;
■ Trasferimento presso altra struttura per acuti o post acuti con l’attivazione della relativa procedura;
■ Invio al domicilio con affidamento alle strutture territoriali prevedendo, se necessario, il follow-up presso strutture ambulatoriali».
Ed infine il paragrafo 6.1 denominato “Umanizzazione” si prevede che:
«L’attesa in Pronto Soccorso per pazienti e famigliari rappresenta una fase critica del rapporto del cittadino con il Servizio Sanitario. Numerosi sono i fattori che fanno diminuire il livello di qualità di servizio percepito dall’utente: la durata dell’attesa, l’ansia legata alla preoccupazione per la propria salute, le aspettative di risposta rapida. Il tempo d’attesa in Pronto Soccorso può rappresentare un’opportunità per trasmettere al cittadino informazioni utili e coerenti sull’esperienza che sta vivendo come paziente o accompagnatore. Proprio per questo, si ritiene necessario promuovere una serie di iniziative di “attesa attiva” finalizzate al miglioramento degli aspetti di comfort in sala d’attesa; tra questi la presenza di strumenti quali cartellonistica, opuscoli cartacei, videoproiezioni, monitor TC, filodiffusione musicale, erogatori di bevande e cibo; la presenza di display che permettono di conoscere in tempo reale il numero di postazioni di emergenza impegnate, il numero di pazienti nelle sale visita o in attesa di ricovero, in modo da tenere aggiornati i pazienti oltre che sul proprio iter anche sul carico di lavoro complessivo del Pronto Soccorso.
La verifica oggettiva da parte del paziente e del familiare del percorso d’assistenza, a partire dall’ora d’accettazione fino all’esecuzione delle diverse prestazioni dà la possibilità di limitare le problematiche connesse alle attese ed è funzionale all’erogazione di una migliore prestazione, diminuendo la possibilità di essere chiamati a gestire situazioni di front-desk a forte tensione. Alla cittadinanza sarà garantita maggiore trasparenza attraverso un ottimale livello di informazioni, costantemente aggiornate. La presenza di un Referente per la gestione dei conflitti con utenti in attesa può contribuire a migliorare la fase della comunicazione delle informazioni relative alla gestione dell’evento; ad esso si può fare riferimento per questioni relazionali che non riescono a trovare risto[1]ri nella relazione con gli infermieri del Triage. Analogamente, la figura dell’Assistente di sala attesa, da reperire nell’ambito delle Associazioni di volontariato accreditate a livello nazionale o regionale, può svolgere il ruolo di mediatore delle relazioni tra il personale sanitario ed i cittadini. Nelle strutture a più elevato livello di complessità (nodi hub delle reti), può essere prevista la figura dello Psicologo all’interno del Pronto Soccorso, il cui intervento è rivolto non solo ai pazienti ed agli accompagnatori, ma anche agli operatori sanitari».
La lettura prosegue con la Carta dei Servizi del Policlinico Gemelli e con il Regolamento dei Diritti e dei Doveri del Cittadino predisposto dallo stesso nosocomio che si richiama a principi enunciati nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 19 maggio 1995 e nella Carta Europea dei Diritti del Malato. L’attenzione si concentra sull’enunciazione di alcuni principi basati sulla «sensibilità umana, etica e valori cattolici», sul rispetto della dignità della persona malata, sul declamato “Codice Argento” e infine su tre diritti: “Diritto all’informazione”, “Diritto al rispetto di standard di qualità” e soprattutto “Diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessari” («Ogni individuo ha il diritto di evitare quanto più sofferenza possibile in ogni fase della sua malattia»).
Nella mia quotidianità lavorativa cerco di spiegare, soprattutto ai colleghi più giovani, che cosa è la sanità pubblica.
Potremmo dirla semplicemente così.
Noi scriviamo o contribuiamo a scrivere linee di indirizzo, PDTA, LG per poter migliorare la realtà. L’insieme di questi documenti non è la realtà… esisterà sempre un gap, una differenza, ma quando questa sottrazione è eccessiva allora abbiamo bisogno di un’azione forte di sanità pubblica che primanecessario prevedere interventi di miglioramento finalizzati alla formazione specifica degli infermieri di Triage sugli aspetti relazionali, la gestione dei conflitti ed il rafforzamento della motivazione. Particolare rilevanza rivestono anche gli aspetti della codocumenti e poi chieda conto delle modifiche della realtà. Con questo spirito, al rientro lavorativo, ho scritto al Direttore sanitario di quella struttura, come responsabile di un reparto dell’ISS.
Molte volte riceviamo delle segnalazioni dei cittadini e agiamo.
Ho chiesto informazioni sulle macroscopiche differenze tra le norme e la realtà organizzativa. Ho messo in cc diversi referenti di istituzioni. Sono trascorsi sette giorni. Silenzio, a esclusione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale che protocolla la lettera e gli allegati e mi comunica che «che questa Autorità di garanzia sta avviando le opportune interlocuzioni in merito a quanto da Lei rappresentato». Tra le richieste formulate ce ne è una in particolare: con quali modalità i familiari che accedono al PS sono informati del comma 5 dell’articolo 11 del DPCM del 2 marzo 2021? Questa norma prevede che i familiari delle persone non autosufficienti possano entrare nei reparti e assistere i loro cari. Il contesto socio-sanitario In questi giorni mi ricordo di aver letto di un fatto di cronaca di qualche mese fa e approfondisco la notizia: una persona con demenza di Alzheimer viene “dimenticata” in quel PS e la si trova deceduta dopo qualche giorno a qualche chilometro di distanza.
In Italia si stimano circa due milioni e mezzo di persone non autosufficienti, in gran parte anziani. In quel PS in un anno si contano circa 75.000 accessi. E allora mi chiedo quanti di questi hanno riguardato persone non autosufficienti, e se la storia di mia madre possa rientrare nello 0,0001 per cento dei casi negativi a fronte della grande maggioranza positiva.
Rifletto.
Se il rispetto della dignità di una persona malata diventa un semplice e mero fatto statistico, penso che abbiamo perso, tutti, come società civile. Questa vicenda inizia a circolare tra gli amici, i conoscenti e sui social… e come prima un rivolo, poi un fiume carsico si raccontano storie molto simili alle nostre… le persone escono dall’ombra e raccontano esperienze dei loro cari in quello e in altri PS come se stessimo scrivendo, inconsapevolmente e collettivamente, un capitolo di un testo di medicina narrativa. Colleghi di quello e di altri ospedali, con in quali ho dialogato in questi giorni, sanno, conoscono le criticità dei loro PS, ma non dicono nulla. E allora riprendo il mio viaggio nei documenti, questa volta nella realtà. Nel programma dell’AgeNaS sul miglioramento continuo dell’umanizzazione e della sicurezza de[1]gli ospedali si apprende che in una scala da 1 a 10 sulla misurazione del grado di umanizzazione dei PS il 29,6% di 278 PS ha avuto un punteggio infe[1]riore a 7 e il servizio di accoglienza per i cittadini che accedono al PS risulta essere non adempiente in circa un 1/3 dei casi (62/171). Nell’anno 2015, Cittadinanzattiva e la Società Italiana di Medici[1]na di Emergenza-Urgenza (SIMEU) hanno avviato un’iniziativa comune per mettere in evidenza i pun[1]ti di forza e i punti di debolezza dei PS. Da questa indagine risulta che non più del 40% dei familiari dei pazienti intervistati riceve informazioni da parte del personale sanitario e soltanto un familiare su 5 (circa 20%) viene periodicamente aggiornato sulle condizioni di salute e sullo svolgimento del percorso assistenziale. Infine, circa la metà dei 2954 familiari che sono stati intervistati rispondono che è stato loro consentito di star accanto al proprio caro.
Nella XXIII edizione del Rapporto Pit Salute si giunge alla conclusione che i PS di mezza Italia sono in crisi, con pochi letti dove ricoverare i pazienti e una pressione di malati in codice rosso sempre maggiore. Su circa 24 milioni di accessi all’anno ai PS, il 28% riguarda persone con età superiore ai 75 anni. Chissà se tra le criticità segnalate nei report precedenti si può estrapolare il punto di vista degli anziani non autosufficienti.
Questo viaggio mi fa comprendere che probabilmente la piccola storia di mia madre si inscrive in una grande storia di criticità del nostro Paese.
La storia siamo noi, diceva un poeta. Le decisioni assunte in questi anni, come la riduzione dei posti letto per acuti e la progressiva aziendalizzazione delle strutture sanitarie attente più alle tariffe dei ricoveri per acuti che alla qualità delle prestazioni fornite, fanno ipotizzare scenari cupi se non si inverte rapidamente la rotta. Non vorrei, come operatore di sanità pubblica che assiste ormai alla costante e progressiva intrusione delle assicurazioni private, diventate ormai sostitutive, in alcuni settori, dell’assistenza sanitaria pubblica, trovarci un giorno a parlare anche di PS per i solventi.
In questi giorni apprendo dai media che il Policlinico Gemelli secondo la classifica “World’s Best Hospital 2021” stilata come ogni anno dallo storico magazine statunitense Newsweek è il migliore ospedale d’Italia. Allora, per deformazione professionale, vado a leggere la metodologia di questa indagine, per comprendere come il punto di vista dei familiari e dei pazienti viene considerato. Leggo con stupore che nel calcolo dello score complessivo il livello di soddisfazione pesa incredibilmente solo per il 15%. Chissà poi se distinguono i pazienti ricoverati da quelli che accedono dai PS e se tra questi considerano anche quelli non autosufficienti. Non si capisce. Per l’Italia i dati dei pazienti vengono raccolti da una piattaforma online che vede tra i nove membri del comitato scientifico ben quattro personalità dell’Università Cattolica di Roma. Penso semplicemente che una maggiore indipendenza sarebbe preferibile nel costruire queste graduatorie.
Il cambiamento
Io e i miei fratelli abbiamo deciso di rendere pubblica una vicenda privata per un solo e semplice motivo: perché qualcosa cambi. Come ricercatore penso che i dati e le indagini siano troppo esigue rispetto alla rilevanza del fenomeno. Organizzazioni nazionali e locali devono fare di più, molto di più, compresa la mia Istituzione, per analizzare la realtà variegata dei PS e proporre soluzioni.
Penso che bisogna individuare e superare le criticità che vedono l’istituzione del Sistema informativo per il monitoraggio dell’assistenza in Emergenza-Urgenza (EMUR) ancora, dopo molti anni, una chimera in moltissime regioni.
Bisogna capire perché moltissimi professionisti sanitari letteralmente scappano dal setting dei PS.
Bisogna che quei luoghi di cura attirino sempre più i migliori professionisti.
Ritengo poi che culturalmente dobbiamo identificare e sconfiggere un virus subdolo, pervasivo, che si sta diffondendo moltissimo nelle coscienze dei professionisti sanitari e dei responsabili della cosa pubblica, quello dell’ageismo.
E la vicenda della pandemia ne è una triste e amara conferma.
Mia madre era nata nella terra della Lucania, quella dei centenari. Sua nonna aveva vissuto 103 anni. La genetica era quindi quella “buona” se il caso non si fosse accanito su di lei. In questo viaggio verso il futuro ci attendiamo molto dal PNRR che dovrà produrre un netto miglioramento della rete territoriale, in particolare la capillare distribuzione delle Case della Comunità su tutto il territorio nazionale, dovrebbe essere in grado di garantire alla popolazione, soprattutto quella non autosufficiente, l’assistenza sanitaria di base 24 ore su 24, fornendo una reale alternativa al PS per tutte quelle condizioni classificate come non urgenti. Gli accessi con codici bianco e verde rappresentano oggi circa il 74% degli accessi.
Ma tutto questo non basta.
Non è solo questione di sovraffollamento. Abbiamo necessità di creare una forte discontinuità nei valori e nell’etica pubblica rispetto all’esistente. Bisogna riprendersi il senso profondo della scelta di una professione socio-sanitaria. Abbiamo necessità che il quarto potere ritorni a essere tale.
Dobbiamo fare in modo che la Carta dei Diritti e dei Doveri del cittadino entri nelle pieghe della realtà e non sia solo un documento da declamare per tacitare le nostre coscienze.
Ripenso alla tutela del “Diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessari” come un baluardo da non superare.
Abbiamo ricevuto l’affetto di moltissime persone per la perdita di nostra madre, ma non posso, non posso proprio accettare le condoglianze del Direttore sanitario dell’ospedale del Papa.
Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.
Dichiarazione: le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’istituzione di appartenenza.