Le parti precedenti sono uscite il 9 e il 10 ottobre 2022
VI
La riflessione di Guevara sul marxismo e, in specie, sul tema dell’alienazione e della filosofia della prassi, conosce, a voler sintetizzare il ragionamento, tre momenti cruciali: 1960, 1963, 1965.
1960: si tratta dello scritto Note per lo studio dell’ideologia della rivoluzione cubana, già citato all’inizio del terzo paragrafo di questa Introduzione. Il tema marxiano della trasformazione della natura si unisce alla considerazione del fatto che il “gruppo politico”, come lo definisce Guevara, che diede corpo a quella riflessione si basava su Marx ed Engels ma si sviluppava
attraverso fasi successive con personalità come Lenin, Stalin, Mao Tse tung e i nuovi dirigenti sovietici e cinesi [stabilendo, n.d.c.] un corpo di dottrine e, diciamo, di esempi da seguire[i].
1963: lo scritto intitolato Sul sistema di finanziamento di bilancio[ii] è dedicato al tema della transizione a partire dal Marx del Capitale. “In questo monumento dell’intelligenza umana”[iii] la parte iniziale dell’analisi riguarda la forma elementare del sistema di produzione capitalistico, ossia la merce. Le merci possono essere scambiate fra di loro ma l’elemento creatore del valore è il lavoro umano. Marx intende dire che l’arcano della merce, il suo mistero[iv], sta nel fatto che la sua essenza è il risultato del lavoro umano che viene regolarmente occultato dal sistema capitalistico al punto che l’operaio non pone mai in relazione il suo lavoro con il prodotto dello stesso lavoro. La merce, al dunque, si presenta come un feticcio e il soggetto del processo di produzione, ossia l’uomo, non è cosciente di ciò e si sottomette al processo di valorizzazione del valore. Il cuore pulsante della produzione capitalista è l’annientamento dell’uomo. Per Guevara ciò che è arcano deve essere disvelato, deve diventare cosciente per il lavoratore. L’acquisizione della coscienza dello sfruttamento tipico della società capitalista e della consapevole necessità del suo superamento sono indispensabili per la maturazione di quella volontà libera che costruisce il socialismo:
… l’uomo è l’attore cosciente della storia. Senza questa coscienza, che include quella del proprio essere sociale, non può esserci comunismo. (…) Il comunismo è una meta dell’umanità che si raggiunge coscientemente…[v]
Da qui, l’obiettivo che si pone di raggiungere Guevara con il sistema di finanziamento del bilancio è la costruzione della coscienza attraverso la liberazione della coscienza stessa dall’alienazione. Soltanto l’eliminazione delle forme mercantili di scambio che si basano sull’uso del denaro e, quindi, la lotta contro il feticismo delle merci può riproporre la centralità dell’essere umano e della morale rivoluzionaria:
La tendenza dev’essere (…) di liquidare il più vigorosamente possibile le antiche categorie, tra le quali sono inclusi il mercato, il denaro e, quindi, la leva dell’interesse materiale o (…) le condizioni che provocano l’esistenza di queste stesse categorie[vi].
La soluzione, soprattutto nella fase di transizione[vii], non può, secondo Guevara, che essere la pianificazione:
… la pianificazione centralizzata è il modo d’essere della società socialista, la categoria che ne definisce le caratteristiche e il punto in cui la coscienza dell’uomo arriva infine a sintetizzare e dirigere l’economia verso la sua meta, la piena liberazione dell’essere umano nel quadro della società comunista[viii].
Guevara collega strettamente la forma economica socialista nell’epoca della transizione con la prassi che ne deve essere la levatrice al punto di affermare che
La meccanica dei rapporti di produzione e la sua conseguenza – la lotta di classe – occultano in una certa misura il fatto obiettivo che sono gli uomini a muoversi nell’ambito della storia[ix].
Guevara pone, perciò, la questione della transizione proprio nei termini della terza tesi marxiana su Feuerbach (la quale, peraltro, non compare negli Apuntes filosóficos) sostenendo che è la prassi rivoluzionaria delle masse che costruisce il socialismo attraverso una metodologia che implica, da un lato, il cambiamento delle strutture economiche e, dall’altro, la modificazione dei comportamenti umani (l’uomo nuovo). Fra cambiamento delle strutture economiche e modificazione dei comportamenti umani esiste un nesso dialettico e di reciprocità che non consente di porre la questione nei termini della priorità dell’uno rispetto all’altra: le due cose devono avvenire nello stesso tempo. Il ruolo della volontà è centrale, è di certo l’elemento soggettivo che alimenta la rivoluzione ma a Guevara non sfugge, come appena scritto, l’importanza delle contraddizioni interne del sistema capitalistico che rappresentano l’elemento oggettivo. L’azione cosciente, però, è decisiva: può anche presentarsi nella forma di un’accelerazione degli eventi ma comunque nei limiti di quanto è oggettivamente possibile. Si tratta di un punto di vista che è ben oltre l’economicismo del materialismo metafisico accostandosi di molto, invece, a quel soggettivismo materialistico che fa scrivere a Marx quanto segue:
Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni[x].
Nella sostanza, se la situazione che il rivoluzionario trova davanti a sé è rivoluzionaria, il suo compito è fare la rivoluzione; se la coscienza del rivoluzionario individua una situazione rivoluzionaria, è compito del rivoluzionario agire nella consapevolezza che la storia umana la fanno gli uomini, a differenza di quanto avviene con la storia naturale[xi]. L’esempio storico a cui si richiama Guevara è la Rivoluzione russa del 1917; lì si è dimostrato che la rivoluzione socialista ha una sua specificità che consiste nel fatto che i suoi protagonisti hanno agito coscientemente, pur nei limiti della situazione che oggettivamente si presentava loro; questo fa della Rivoluzione del 1917 un fatto unico nella storia:
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, la rivoluzione di Lenin, l’uomo ha acquistato una nuova coscienza. Gli uomini della rivoluzione francese che diedero all’umanità tante cose importanti, che furono d’esempio e le cui tradizioni sono ancora vive, erano, tuttavia, dei semplici strumenti della storia. Le forze economiche si muovevano e loro interpretavano il sentimento popolare, il sentimento degli uomini in quel periodo, alcuni intuivano un futuro più lontano ma non erano ancora in grado di dirigere la storia, di costruire coscientemente la loro storia. Questo è stato ottenuto dalla Rivoluzione d’Ottobre…[xii]
Per cui, al contrario di quanto avvenuto nei tentativi di trasformazione messi in atto nel passato, “Il comunismo è una meta dell’umanità che si raggiunge coscientemente…”[xiii].
Come corollario alle indicazioni di Guevara va preso in considerazione un articolo molto noto, e altrettanto discusso, di Gramsci nel quale sono presenti atteggiamenti e temi che il “Che” riprenderà tanti anni dopo:
La storia della pubblicazione dell’articolo La rivoluzione contro il “Capitale” gli conferisce il crisma dell’assoluta importanza. Gramsci lo aveva scritto per “Il Grido del Popolo” del 1° dicembre del 1917; la censura lo soppresse. Allora fu pubblicato come editoriale nell’”Avanti!” del 24 dicembre per essere, poi, ristampato da Gramsci stesso (con la firma A.G.) ne “Il Grido del Popolo” del 5 gennaio del 1918. L’articolo era accompagnato dalla seguente avvertenza: “La censura torinese ha una volta completamente imbiancato questo articolo nel «Grido». Lo riproduciamo ora dall’«Avanti!» passato al crivello delle censure di Milano e di Roma”. Gramsci, mentre sottolinea che la lotta di classe e la rivoluzione proletaria sono il cuore stesso del marxismo (d’altronde erano gli elementi che avevano consentito ai bolscevichi di conquistare il potere), mette in guardia contro quelle interpretazioni del marxismo che vorrebbero trasformare il Capitale di Marx in una sorta di Bibbia da seguire in maniera acritica. Nell’articolo Gramsci mette in evidenza gli aspetti soggettivi della rivoluzione, il suo essere un vero atto di libertà, come sosteneva proprio Marx, non causato esclusivamente dalla condizione economica oggettivamente difficile della Russia, ma anche dalla volontà rivoluzionaria di un popolo che sarà in grado di sopportare la sofferenza che seguirà alla pace “in quanto i proletari sentiranno che sta nella loro volontà, nella loro tenacia al lavoro di sopprimerla nel minor tempo possibile”[xiv].
1965: nello scritto Il socialismo e l’uomo a Cuba viene a maturazione, quasi nella forma di un testamento intellettuale e politico, il pensiero di Guevara e i suoi nessi profondamente originari con il marxismo. Ciò che nei primi due scritti analizzati era in potenza diventa in atto; inoltre si manifesta un allontanamento netto e deciso dal marxismo come veniva inteso nella vulgata sovietica post-stalinista[xv]. Guevara scrive che all’interno della società capitalistica
… l’uomo è guidato da un ordinamento impersonale che, in genere, sfugge alla sua comprensione. L’essere umano, alienato, ha un cordone ombelicale invisibile che lo lega alla società nel suo insieme: la legge del valore. Essa agisce in tutti gli aspetti della sua vita, modellandogli la strada e il destino[xvi].
Liberarsi dal fardello della legge del valore non è e non sarà semplice soprattutto nella fase di transizione. Alla base del processo di liberazione c’è la coscienza, ma la coscienza dell’uomo nuovo ossia una coscienza che sappia sottrarsi alle lusinghe degli incentivi materiali per indirizzarsi all’utilizzo degli incentivi morali (dall’economico-corporativo all’etico-politico, direbbe Gramsci).
L’elemento etico è centrale nell’elaborazione guevariana
ricordando che una fonte di ispirazione per questa concezione così fortemente eticizzata della storia e del divenire umano, è stata certamente per lui (…) José Carlos Mariátegui[xvii].
Del marxista peruviano la rivista “Tricontinental”, nata per impulso dello stesso “Che”, pubblicò nel 1967 (Guevara era già in Bolivia) il sesto capitolo, intitolato Etica e socialismo, dell’opera Difesa del marxismo. Scrive Mariátegui:
Una morale di produttori (…) non nasce automaticamente dall’interesse economico: si forma nella lotta di classe, portata avanti con animo eroico, con volontà appassionata. (…) L’etica del socialismo si forma nella lotta di classe. Affinché il proletariato porti a compimento, nel corso del progresso morale, la sua missione storica, è necessario che prima prenda coscienza del suo interesse di classe; ma l’interesse di classe, da solo, non basta[xviii].
A sostegno della sua impostazione l’intellettuale latinoamericano propone passi di uno scritto di Gobetti e di Discorrendo di socialismo e di filosofia di Antonio Labriola, ossia cita da due intellettuali fondamentali per Gramsci (va ricordata, come già fatto presente nel corso di quest’Introduzione, la comune frequentazione al Congresso fondativo del Pcd’I nel 1921 e il fatto che Mariátegui avesse letto articoli dell’”Ordine Nuovo”); e la vicinanza dei toni trova una consistente conferma nel fatto che l’intellettuale peruviano prende le mosse da Croce, proprio come Gramsci che, nel carcere, ebbe modo di far presente come negli Anni Venti fosse “tendenzialmente crociano”. Si può sostenere che il comune sentire il marxismo dal punto di vista etico-politico crei una concordanza, al di là delle dirette conoscenze, fra Guevara, Mariátegui e Gramsci? La risposta è tutta dentro lo sviluppo del ragionamento del “Che” nello scritto del 1965.
Il potenziamento di tali incentivi morali deve essere prodotto per mezzo di un processo educativo possibile attraverso la trasformazione della società “in una gigantesca scuola”[xix]. L’educazione sarà indiretta, nel senso che ad essa contribuirà per una parte l’apparato dello Stato, ma, per l’altra parte, l’educazione sarà cosciente, sarà autoeducazione, ossia la progressiva ma necessaria presa di coscienza del fatto che ogni singolo può contribuire alla nascita della nuova società, cioè della “società dell’uomo comunista”[xx] nella quale l’uomo è liberato dalla sua alienazione:
L’uomo acquisterà così la piena coscienza del proprio essere sociale, il che equivale alla sua completa realizzazione come creatura umana, una volta spezzate le catene dell’alienazione. Ciò si tradurrà concretamente nella riappropriazione della propria natura attraverso il lavoro liberato e l’espressione della propria condizione umana attraverso la cultura e l’arte[xxi].
In questo prometeico processo di educazione, Guevara riserva un posto particolare alla gioventù:
Essa riceve un trattamento corrispondente alle nostre ambizioni. La sua educazione è sempre più completa e non trascuriamo di integrarla nel lavoro sin dal primo momento. I nostri studenti fanno un lavoro manuale durante le vacanze e contemporaneamente allo studio. Il lavoro è un premio in certi casi, uno strumento educativo in altri, mai un castigo. Una nuova generazione sta nascendo[xxii].
Lavoro pedagogico e lavoro politico quasi coincidono in totale assonanza con l’impostazione gramsciana. D’altronde come non sottolineare il fatto che per il comunista sardo pedagogia e politica sono in rapporto fra loro come il concavo con il convesso al punto che è stato possibile sostenere che è la “scuola, strumento dell’egemonia”[xxiii]? Come nel marxista italiano la pedagogia non è un luogo separato della sua riflessione, alla stessa maniera nel marxista argentino pedagogia e politica coincidono.
Negli Apuntes filosóficos Guevara riporta alcuni passi dal testo di Althusser Per Marx (Guevara appunta dall’edizione spagnola di uno dei saggi, intitolato Contraddizione e surdeterminazione. Note per una ricerca) dove sono espliciti i riferimenti a Gramsci in rapporto al nesso pedagogia-politica e al ruolo degli intellettuali. In particolare il “Che” segnala in rosso il passo seguente che nello scritto del filosofo francese fa parte di una lunga nota a pie’ di pagina quasi interamente dedicata a Gramsci[xxiv]:
Per questo Gramsci può scrivere: “Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi, un partito potrà avere una maggiore o minore composizione del grado più alto o di quello più basso, non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale. (Q12, 1, 1523)
Ed ancora, sempre citando da Althusser, appunta:
Se infatti è vero che Marx ci dà principi generali ed esempi concreti (Il 18 brumaio, La guerra civile in Francia, ecc.), se è vero che tutta la pratica politica della storia del movimento socialista e comunista costituisce una sconfinata riserva di “protocolli di esperienze” concrete, bisogna pur dire che la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture e delle altre “circostanze” resta in gran parte da elaborare, e , prima della teoria della loro efficacia o contemporaneamente (giacché attraverso l’indagine sulla loro efficacia si può cogliere la loro essenza), la teoria dell’essenza propria degli elementi specifici della sovrastruttura. Questa teoria resta, come la carta dell’Africa prima delle grandi esplorazioni, una terra conosciuta nei suoi contorni, nei grandi rilievi e corsi d’acqua, ma il più delle volte, salvo qualche regione ben disegnata, sconosciuta nei particolari. Chi, dopo Marx e Lenin, ne ha davvero tentata e continuata l’esplorazione? Non conosco che Gramsci[xxv].
Ciò che interessa Guevara è la “teoria dell’essenza propria degli elementi specifici della sovrastruttura” vale a dire la natura di quegli elementi sovrastrutturali che consentono una teoria della rivoluzione che, a partire dalla struttura e dalla sua necessaria modificazione, metta a fuoco la necessità dell’egemonia come momento fondamentale nel passaggio dalla società capitalista a quella socialista: Guevara, nella sostanza, riteneva che il lavoro pedagogico fosse necessario per la costruzione del consenso intorno ai risultati raggiunti dalla rivoluzione cubana. Nella trascrizione che Guevara opera del testo di Althusser manca la nota in fondo alla pagina che riguarda il riferimento del filosofo francese a Gramsci. Vi si legge:
I tentativi di Lukács, limitati alla storia della letteratura e della filosofia, mi sembrano contagiati da un hegelianismo vergognoso, come se Lukács volesse farsi assolvere da Hegel di essere stato l’allievo di Simmel e di Dilthey. Gramsci è un’altra levatura. Le note e gli appunti dei suoi Quaderni del carcere prendono in esame tutti i problemi fondamentali della storia italiana ed europea: economica, sociale, politica, culturale. Vi si trovano, sul problema, oggi fondamentale, della sovrastruttura, idee assolutamente originali e talvolta anche geniali. Inoltre vi si trovano, come avviene quando si tratta di vere scoperte, nuovi concetti, per esempio il concetto di egemonia, ottimo esempio di un abbozzo di soluzione teorica in merito ai problemi dell’interpretazione delle sfere economica e politica.[xxvi]
Il motivo di questa mancanza può essere ipotizzato in due modi: 1) nell’edizione in possesso di Guevara del libro del filosofo francese non compare la nota; 2) Guevara decide di non riportare la nota. Non avendo a disposizione l’edizione del libro di Althusser usata da Guevara, si tenterà di elaborare la seconda ipotesi con tutti gli avvertimenti che il caso suggerisce: cautela nella serena disponibilità dell’arrivo di una secca smentita. Dunque: Guevara può aver deciso di non riportare la nota in quanto non condivideva il giudizio di Althusser su Lukács e, dall’altro lato, pur avendo a disposizione alcuni dei Quaderni gramsciani nell’edizione tematica tradotta in spagnolo (come già è stato fatto presente in questa Introduzione), non era nelle condizioni di esprimersi compiutamente a favore dell’italiano o dell’ungherese. Resta il fatto che in Bolivia, quindi l’anno successivo rispetto alla stesura delle note su Althusser, nel suo ultimo viaggio, aveva con sé il lukácsiano Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica dal quale riportò diversi passi chiosati nel modo seguente:
E’ un libro di notevole profondità che analizza in maniera esaustiva la filosofia hegeliana giovanile e tenta di spiegarla. Contribuisce ad introdurci nella complessa filosofia hegeliana, spiegandone anche il vocabolario insieme alla metodologia. Presenta analisi in grado di fornire molti spunti, tra cui l’affermazione che la dialettica hegeliana non è solo l’opposto di quella materialista, ma ha le sue leggi i suoi meccanismi, sprofondando in mistificazioni che la trasformano in una palude inestricabile. Ciò che non risulta sufficientemente dimostrato, a mio parere, è che Hegel rappresenti il prodotto delle contraddizioni capitaliste. E’ un punto da prendere o lasciare senza ulteriori discussioni.[xxvii]
La differenza con Gramsci è in cosa debba intendersi per egemonia, ossia nel fatto che per Gramsci il lavoro pedagogico-culturale, e perciò politico, è necessario già nella fase di preparazione di quel processo di trasformazione che condurrà, attraverso la “riforma intellettuale e morale”, alla edificazione della “società regolata” e servirà per conquistare le trincee e le casematte della società civile borghese; per Guevara, che opera in una realtà arretrata, il lavoro pedagogico è successivo alla presa del potere e costituisce un elemento indispensabile della dittatura del proletariato. Per usare due categorie gramsciane, per il comunista italiano si tratta di “guerra di posizione” mentre per il comunista argentino si tratta di “guerra di movimento”. La diversità delle soluzioni è principalmente la conseguenza dei contesti economici, storici e politici all’interno dei quali i due si muovono. E’ noto che Gramsci articola un discorso complesso grazie al quale dimostra la necessità di una “guerra di posizione” nella società capitalistica avanzata che lo porterà a concludere intorno ai modi diversi di approccio egemonico passando dalla Russia di Lenin all’Italia; la società cubana della fine degli Anni Cinquanta del secolo scorso era molto simile alla Russia dell’epoca della Rivoluzione d’Ottobre, con una società civile di fatto inesistente e una società politica fortemente arroccata intorno alla figura di Batista. Ciò ha richiesto una “guerra di movimento”, il cui peso maggiore è ricaduto su un gruppo d’avanguardia, la quale ha portato alla sconfitta del dittatore e all’edificazione di un nuovo tipo di Stato per il cui rafforzamento sono serviti degli incentivi morali ancor più di quelli materiali; per questo, scrive Guevara:
Indipendentemente dall’importanza data agli incentivi morali, il fatto che esista la divisione in due gruppi principali (…) dimostra la relativa mancanza di sviluppo della coscienza morale. Il gruppo d’avanguardia è ideologicamente più avanzato delle masse: queste conoscono i nuovi valori, ma in modo parziale. Mentre tra i primi si produce un cambiamento qualitativo che permette loro di andare incontro al sacrificio nella loro funzione di avanguardia, i secondi hanno solo una visione parziale e devono essere sottoposti a stimoli e pressioni di una certa intensità; è la dittatura del proletariato che si esercita non solo sulla classe sconfitta, ma anche a livello individuale, sulla classe vincitrice[xxviii].
Anche il governato che è diventato governante deve essere educato ed a questo fine puntano gli incentivi morali di cui scrive Guevara, e che costituiscono il suo umanismo, che sono fondamentalmente quattro: l’umanità, la giustizia, la dignità e la libertà.
L’umanità in quanto tale è la base di questo umanismo. Si rivolge nel modo seguente ai giovani comunisti:
… si impone al giovane comunista di essere essenzialmente umano, essere tanto umano da accostarsi al meglio dell’uomo; purificare il meglio dell’uomo per mezzo del lavoro, dello studio, dell’esercizio continuo della solidarietà con il popolo e con tutti i popoli del mondo; sviluppare al massimo la sensibilità fino a sentire l’angoscia ogni volta che in qualsiasi angolo del mondo viene assassinato un uomo e fino a sentirsi entusiasta ogni volta che in qualsiasi angolo del mondo si innalza una nuova bandiera di libertà[xxix].
La solidarietà “con il popolo e con tutti i popoli del mondo” indica, inoltre, quali siano le caratteristiche tipiche dell’internazionalismo proletario secondo Guevara.
La dignità è l’elemento ontologico che dà forma all’umanità e la giustizia ne è il correlato decisivo. Il rapporto simbiotico fra i due elementi è posto da Guevara in un’affermazione, ripetuta in più occasioni, di Josè Martì:
Ogni uomo vero deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato alla guancia di qualsiasi altro uomo[xxx].
Si potrebbe facilmente concludere che si tratta di filantropia di matrice cristiana o di semplice utopia, quasi un retaggio di quel Don Chisciotte tanto amato da Guevara (va, peraltro, ricordato il particolare che proprio il romanzo di Cervantes fu la prima pubblicazione, come dire, popolare e in un numero notevole di copie dell’Istituto Nazionale del libro dopo la presa del potere nel 1959 a Cuba) e, quindi, quasi di un elemento estraneo rispetto al marxismo. All’osservazione risponde lo stesso Marx:
I principi sociali del cristianesimo predicano la viltà, il disprezzo di se stessi, l’umiliazione, la servilità, l’umiltà, in breve, tutte le qualità della canaglia, e il proletariato, che non vuole farsi trattare come una canaglia, ha molta più necessità del suo coraggio, della sua coscienza di sé, del suo orgoglio e spirito di indipendenza che del pane[xxxi].
Dignità e giustizia sociale, come espressi da Marx e tradotti da Guevara nella teoria della rivoluzione, diventano la base stessa della libertà. Si è liberi soltanto emancipandosi dall’alienazione tipica del capitalismo. Per questo è necessario che la libertà non sia un dato astratto, come succede nella società borghese, ma venga costruita divenendo l’obiettivo ultimo della società comunista. In questo senso l’uomo comunista di cui scrive Guevara sarà l’uomo nuovo del XXI secolo[xxxii].
VII
Si legge nel cap. 24 del Libro I del Capitale di Marx[xxxiii] intitolato La cosiddetta accumulazione originaria:
La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella. (…) il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco. (…) l’éra capitalistica data solo dal secolo XVI
continua Marx, ossia da quando lo sfruttamento feudale è divenuto sfruttamento capitalistico, da quando, attraverso la loro espulsione dalle terre, ha avuto inizio l’espropriazione dei produttori reali, dei contadini. Questo processo di espropriazione ebbe il suo culmine nell’esclamazione di Elisabetta I: “Pauper ubique jacet”. Nel quarantatreesimo anno del suo regno, fu costretta “a riconoscere ufficialmente il pauperismo mediante l’introduzione della tassa dei poveri”. Il passo ulteriore fu la trasformazione della proprietà comune in proprietà privata per mezzo di una serie di azioni violente che culminarono nel clearing of estates. Questi sistemi terroristici condussero all’espropriazione della popolazione rurale e alla sua sottomissione “a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato”. Inoltre, in questa fase, la borghesia usò il potere dello Stato per regolare il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria. A ciò si aggiungano, continua Marx,
la scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere.
L’Inghilterra combinò fra loro questi momenti, usò brutalmente il potere dello Stato,
violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico… La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica[xxxiv].
Marx affronta, quindi, la questione della povertà, e perciò dello sfruttamento e dell’alienazione, da un punto di vista storico e non ideologico. La povertà, come si manifesta nel sistema capitalistico, è la conseguenza del violento processo di accumulazione messo in atto nel corso del XVI secolo: si tratta proprio di un fatto storico.
In Marx la libertà è dalla necessità e non è la libertà della volontà. Secondo molti studiosi, fra i quali Hannah Arendt occupa un posto di primo piano[xxxv], in questo modo il marxismo condurrebbe ad una forma di tirannide fra le peggiori, il totalitarismo, presentandosi come negazione della libertà. Cerchiamo di seguire Marx a partire dall’Ideologia tedesca:
… il rapporto di comunità nel quale entravano individui di una classe e che era condizionato dai loro interessi comuni di fronte a un terzo, era sempre una comunità alla quale questi individui appartenevano soltanto come individui medi, soltanto in quanto vivevano nelle condizioni di esistenza della loro classe; era un rapporto al quale essi partecipavano non come individui, ma come membri di una classe. Nella comunità dei proletari rivoluzionari, invece, i quali prendono sotto il loro controllo le condizioni di esistenza propria e di tutti i membri della società, è proprio l’opposto: ad essa gli individui prendono parte come individui[xxxvi];
la libertà personale, quella liberale, non soggiace alla casualità, non consente soltanto un indisturbato godimento della casualità, bensì si presenta, nel comunismo, come libertà dell’individuo personale e non dell’individuo contingente. Tale libertà dell’individuo personale si eserciterà in uno spazio pubblico/politico non limitato dalla libertà di tutti, altrimenti continuerebbe ad essere una libertà contingente. Intorno a questo affrancamento dell’individuo dalla libertà contingente Marx costruisce il suo percorso che, quindi, ha come momento iniziale la tendenza a trasformare la vecchia libertà contingente nella nuova libertà personale. Ecco il punto: la regola è costituita dalla tendenza insita nell’individuo a trasformare la libertà positiva contingente nella libertà negativa personale che è la piena libertà:
Non è tanto importante sapere se e quando gli individui riusciranno a liberarsi del tutto dalla contingenza e dalla casualità, quanto poter contare sulla loro tendenza a liberarsene[xxxvii].
Il superamento della contingenza, o necessità, non è il nodo teoretico che separa irrimediabilmente la praxis (azione libera) e la poiesis (il fare). Se praxis è azione libera con la quale l’uomo cerca di raggiungere la propria perfezione, come si riteneva nel mondo greco-classico, ed è privilegio dei cittadini liberi, ossia non lavoratori e non schiavi, e poiesis è necessità, azione necessaria, servile, sempre presso i Greci, completamente sottoposta alla natura e alle cose, la cui perfezione è data dalla perfezione del prodotto, Marx le identifica; in questo è la novità della sua filosofia. In Marx sembrerebbe assente proprio una priorità della poiesis sulla praxis. Marx, al contrario, si pone dal punto di vista di quella tesi rivoluzionaria “secondo la quale la praxis passa continuamente nella poiesis, e reciprocamente”[xxxviii] vale a dire che
Non vi è mai libertà effettiva che non sia anche una trasformazione materiale, che non si iscriva storicamente nell’esteriorità, ma non vi è mai neppure lavoro che non sia una trasformazione di sé, come se gli uomini potessero cambiare le loro condizioni di esistenza conservando un’«essenza» invariante[xxxix].
Scrive Marx:
…il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa[xl].
Il regno della libertà, sottolinea quindi Marx, si dà a partire da una ristrutturazione della giornata lavorativa nel senso della concessione agli individui lavoratori di uno spazio maggiore di tempo libero di cui godere per esercitare tutte quelle attività tipiche della natura umana libera. Il problema sta nel verificare se siano di più gli uomini liberi di agire o quelli la cui condizione è fortemente segnata da una necessità, che è quella del lavoro, che si presenta come oppressione, la quale, occupando la maggior parte della loro giornata, nega loro la fruizione della libertà (è proprio quell’alienazione intorno alla quale tanto si sofferma Guevara). O comunque, pur volendo accantonare il dato numerico, non è possibile parlare di libertà lì dove questa è negata anche soltanto ad un individuo che è costretto dalla necessità a non usufruire del proprio spazio di libertà. L’obiettivo di Marx è raggiungere un livello dell’agire tale che tutti gli attori siano liberi di muoversi sulla base della nota affermazione del Manifesto secondo la quale “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”[xli]. Specificando:
La libertà — di fare, di avere, di sapere, di deliberare — che ottengo per me è maggiore se tutti l’ottengono in egual misura, e viceversa: se non asservirò l’altro, in forma diretta o mediata, anch’io sarò più libero; se l’altro non sarà un soggetto alienato, anche la mia dignità sarà più alta[xlii].
Per coloro che sono liberi si pone l’esigenza del mantenimento della libertà, ma per gli altri si pone l’obiettivo dell’affrancamento dalla necessità. Se la distinzione fra uomini liberi e subalterni permane, come la storia ha indubbiamente mostrato, ciò significa che lo stesso processo storico crea delle difficoltà al conseguimento della libertà universale, difficoltà che sono attestate dalla successione di modi di produzione che determinano le condizioni oggettive della sopravvivenza della separazione fra regno della libertà e regno della necessità. Se condizione umana significa essere condizionato, tale condizionamento non può che derivare dal contesto nel quale si vive, ossia da una condizione oggettiva, dal rapporto che si stabilisce fra il soggetto e l’oggetto che, nel capitalismo, è un rapporto di sottomissione del proletario al capitale attraverso l’alienazione[xliii].
Al dunque, diventa centrale la Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica in cui si legge:
… nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione[xliv].
Da quanto scritto, sembra proprio che Guevara sia andato oltre lo stesso Marx appena citato, pur rimanendo all’interno del marxismo in modo originale ed antidogmatico, fornendo una lettura etica di Marx che divenne la “filosofia della prassi” della rivoluzione cubana come la lettura gramsciana di Marx divenne la “filosofia della prassi” di quella “riforma intellettuale e morale” che è alla base dell’edificazione della “società regolata”; in un caso come nell’altro si tratta del comunismo.
[i] Ernesto Che Guevara, Note per lo studio dell’ideologia della rivoluzione cubana, cit., p. 403.
[ii] Ernesto Che Guevara, Sul sistema di finanziamento di bilancio (Sobre el sistema presupuestario de financiamento, in “Comercio Exterior”, giugno 1963; anche in “Nuestra Industria Económica”, nn. 3 e 5, ottobre 1963 e febbraio 1964) in Id. Scritti scelti, cit., pp. 480-518.
[iii] Ivi, p. 482.
[iv] “L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori” (K. Marx, Il Capitale, introduzione di M. Dobb, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1974, libro I, p. 104).
[v] Ernesto Che Guevara, Sul sistema di finanziamento di bilancio, cit., p. 483 e 489.
[vi] Ivi, p. 503.
[vii] Per meglio chiarire cosa intenda per fase di transizione, Guevara ricorre ad una citazione da Marx: “Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le «macchie» della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro” (K. Marx, Critica al programma di Gotha, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 30).
[viii] Ernesto Che Guevara, Sul sistema di finanziamento di bilancio, cit.,p. 505.
[ix] Ivi, p. 482.
[x] K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 19742, p. 44.
[xi] E’ ipotizzabile che Guevara avesse presente quel luogo dell’opera di Marx in cui si sostiene, con riferimento esplicito a Vico, che “la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra” (K. Marx, Il Capitale, cit., libro I, p. 414).
[xii] Ernesto Che Guevara, Opere. Nella fucina del socialismo, cit., v. III/1, p. 466. Si tratta di un passo del discorso pronunciato durante la cerimonia di consegna dei Certificati del Lavoro Comunista l’11 gennaio 1964 intitolato Facciamo in modo che l’esempio preceda le parole.
[xiii] Ernesto Che Guevara, Sul sistema di finanziamento di bilancio, cit., p. 489 (cfr. nota 35).
[xiv] A. Gramsci, Un Gramsci per le nostre scuole. Antologia, a cura di L. La Porta, Editori Riuniti, Roma 2016, pp. 58-59. Al di là delle diverse occasioni in cui è stato pubblicato, come quella da cui è tratta la precedente citazione, oppure A. Gramsci, Come alla volontà piace. Scritti sulla Rivoluzione russa, a cura di G. Liguori, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 50-53, per un’analisi filologicamente accurata dell’articolo gramsciano si rimanda ad A. Gramsci, Edizione Nazionale degli Scritti, Scritti (1910-1926) 1917/2, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2015, pp. 617-621.
[xv] Ernesto Che Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, cit., p. 706.
[xvi] Ivi, p. 698.
[xvii] R. Massari, Che Guevara. Pensiero e politica dell’utopia, cit., p. 118.
[xviii] J. C. Mariátegui, Difesa del marxismo, postfazione di A. Melis, Fahrenheit 451, Roma 1996, p. 40.
[xix] Ivi, p. 701.
[xx] Ivi, p. 702.
[xxi] Ivi, p. 704.
[xxii] Ivi, p. 710.
[xxiii] A. Natta, Problemi della scuola negli scritti di Gramsci in “Società”, agosto 1957.
[xxiv] L. Althusser, Per Marx, nota introduttiva di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 19742, p. 86; la sottolineatura di Guevara in id., Apuntes filosóficos, cit., p. 310.
[xxv] L. Althusser, cit., p. 94; riportata in Ernesto Che Guevara, Apuntes filosóficos, cit., p. 312.
[xxvi] L. Althusser, cit., p. 94.
[xxvii] Ernesto Che Guevara, Prima di morire. Appunti e note di lettura, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 56-57.
[xxviii] Ernesto Che Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, cit., p. 703. Per la definizione e il chiarimento del significato dei lemmi gramsciani presenti nel testo si rimanda ad Aa. Vv., Dizionario gramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009.
[xxix] Ernesto Che Guevara, Opere. Nella fucina del socialismo, cit., v. III/2, p. 95. Si tratta del Discorso tenuto durante la commemorazione del II anniversario della unificazione del movimento giovanile, il 20 ottobre 1962.
[xxx] Ernesto Che Guevara, Scritti scelti, cit. vol. II, p. 442. Si tratta del discorso pronunciato il 28 gennaio 1960 durante la cerimonia di commemorazione dell’anniversario della nascita di Martì.
[xxxi] K. Marx, Il comunismo del “Reinisch Beobachter” in “Deutsche-Brüsseler Zeitung”, 12 settembre 1847, n. 73, in Marx-Engels, Scritti sulla religione, Garzanti, Milano 1979, p. 150.
[xxxii] Ernesto Che Guevara, Scritti scelti, cit. vol. II, p. 709.
[xxxiii] Le conoscenze che Guevara aveva del libro fondamentale di Marx sono molto approfondite come si evince, fra le altre cose, dal dibattito economico che si tenne nel 1963-64 consultabile in Ernesto Che Guevara, Opere. Le scelte di una vera rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1968, v. II, pp. 193-322.
[xxxiv] K. Marx, Il Capitale, Libro I, a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 779–814.
[xxxv] Si rimanda, nella sterminata bibliografia arendtiana, fra gli altri, per il punto di vista critico nei confronti della pensatrice, a L. La Porta, Hannah Arendt. Il problema storico della libertà, Unicopli, Milano 2017, dal quale, peraltro, si riprendono alcune fra le riflessioni che seguono.
[xxxvi] Marx–Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 57.
[xxxvii] V. Gerratana, Il giovane Marx e l’idea del comunismo in Aa. Vv., Marx, un secolo, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 129.
[xxxviii] E. Balibar, La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, p. 45.
[xxxix] Ibidem.
[xl] K. Marx, Il Capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 933.
[xli] Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, traduzione di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 35.
[xlii] G. Prestipino, Realismo e utopia, Editori Riuniti, Roma 2002, p.170. Ancora i temi cari a Guevara: libertà, dignità, liberazione dall’alienazione.
[xliii] “C’è una frase di Mao molto bella che dice pressappoco «l’uomo come essere alienato è schiavo della sua propria produzione», schiavo di un lavoro in cui spende una parte della sua natura, mentre può realizzarsi come persona soltanto quando compie cose che non sono necessarie alla sua sopravvivenza fisica, cioè quando il lavoro si trasforma in arte, o quando compie un lavoro volontario e apporta alla società qualche cosa di suo” (Ernesto Che Guevara, Il Piano e gli uomini. Conversazioni tenute al Ministero dell’Industria in “il manifesto”, 7/1969).
[xliv] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 5-6.