Quello che segue è un articolo sortito dalla sommatoria di due scritti: uno pubblicato il 29 aprile del 2005 du “La Rinascita della sinistra”, l’altro, recentissimo, estratto da un mio libricino intitolato “Sulla sempiternità della natura. Riflessioni di un materialista (non soltanto) storico”.
Nel corso di una conferenza tenuta nel 1997 ed intitolata “Le relativisme est aujourd’hui le problème central de la foi et de la théologie”, l’allora cardinale Ratzinger, papa Benedetto XVI, sosteneva quanto segue: “Se si osserva la situazione attuale della religione […] ci si può meravigliare che, malgrado tutto, si continui a credere ancora cristianamente. Come è possibile che la fede abbia ancora una possibilità di successo? Direi che questo avviene perché essa trova una corrispondenza nella natura dell’uomo. In effetti l’uomo possiede una capacità più ampia di quella che Kant e i diversi filosofi post-kantiani gli hanno attribuito”. In un saggio pubblicato sul numero 2 del 2000 di MicroMega ed intitolato “La verità cattolica”, ancora Ratzinger argomentava nel modo seguente: “… la fede cristiana … si basa sulla conoscenza. Nel cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario. Perché ciò avvenisse, perché il cristianesimo si comprendesse come vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione specifica che ne reprime altre in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende superflua l’apparenza”. In ultimo l’omelia durante la messa Pro eligendo Pontefice del 18 aprile [anno 2005: n.d.a.]:” Il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi moderni. Si va costruendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultimo problema il proprio io e le sue voglie”. Rivolgendosi ai non credenti, nel corso di una conferenza tenuta nel monastero di Santa Scolastica a Subiaco il 1° aprile scorso [sempre 2005: n.d.a.], Ratzinger affermava: “Anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio cerchi di vivere come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno”.
La fede è nella natura dell’uomo, il cristianesimo è conoscenza e verità, il relativismo è una dittatura, i limiti alla libertà sono posti dalla credenza in Dio, unico criterio di riconoscimento di se stessi. In sostanza il messaggio inviato da Ratzinger si muove all’interno di una serie di questioni riconducibili ai rapporti tra fede e ragione, al ruolo dell’individualismo e della sua progressiva trasformazione in egoismo, allo scetticismo disincantato come forma di approccio ai problemi dell’esistenza tout court e dell’esistenza di Dio. Molto si è disusso intorno alle posizioni filosofiche del Papa scomparso; a chi scrive sembra che si debba procedere con un po’ di ordine affrontandole una per volta.
Il tema dell’accusa pontificia nei confronti del relativismo non può essere ricondotto, credo, come dimostrano, in modo parziale, ma sempre indicativo, le citazioni in precedenza riportate, ad un semplice “crucifige’, nei confronti della modernità. Esiste, infatti, un relativismo in quanto tale ed un relativismo con aggettivazione, cioè culturale. Penso che il testo dell’omelia del 18 aprile si riferisse al primo e non al secondo; infatti, il timore è che il ruolo del soggetto nel processo gnoseologico possa essere così totalizzante da togliere ogni possibilità di un fondamento assoluto del sapere che trova, secondo Ratzinger, nella razionalità del Cristianesimo il suo elemento originario. Insomma l’avversario sembra essere lo Spengler (autore de Il tramonto dell’ Occidente, una delle opere filosofiche del Novecento in cui, seppure in forme molto particolari, si parlava della crisi della società borghese) che scrive: “L’immagine del mondo è per ognuno diversa da quella dell’altro, secondo il suo percepire e comprendere, secondo la sua posizione nel mondo, secondo il suo tempo”. Il relativismo culturale, invece, è quello che consente l’apertura al diverso, la comprensione di un’altra cultura al di fuori di falsi paragoni con la nostra; su questo punto la posizione della Chiesa sembra essere sufficientemente chiara: non solo apertura al diverso, ma altrettanto aperta ostilità per tutte quelle manifestazioni guerrafondaie che incrinano la possibilità di nuove aperture e pretendono di combattere il terrorismo con le sue stesse armi.
Ciò che turba è il consiglio ai non credenti: comportarsi come se Dio ci fosse. Su questo punto la discussione è avviata almeno dall’Illuminismo e dalla diffusione del concetto di tolleranza. Un non credente non vive come se Dio ci fosse soltanto perché questo dovrebbe essere un limite alla sua libertà di pensare e di agire, una forma di controllo. Un non credente, ove consapevolmente ateo, ha compiuto il suo percorso; essendosi riconciliato con il mondo proprio in virtù di un recupero della centralità della natura e della sua importanza ecologica (anche nel senso diderotiano di ecologia dell’uomo), avendo tagliato i ponti con qualsiasi orpello della metafisica nascosto dietro la teologia, il non credente trova il suo limite non in chi non c’è ma in ciò di cui ha riscoperto la necessità, ossia la fedeltà alla terra. Il non credente non è spaventato dalla possibile scomparsa dell’uomo dalla terra ma dalla probabile scomparsa della terra a causa degli artifici umani; per evitare questo, un po’ di semplice scetticismo non è del tutto fuori luogo, quello stesso scetticismo grazie al quale Montaigne invitava a mettere da parte il concetto dell’uomo come immagine di Dio, la cui applicazione avrebbe prodotto quasi in modo taumaturgico la salvezza dell’uomo stesso, per recuperare la consapevolezza dell’uomo uno fra i tanti. Questo senso dell’egualitarismo degli esseri viventi è possibile a partire da una consapevolezza acquisita della non necessità di Dio. Il che, comunque, consentirebbe sempre ad un non credente di partecipare alla marcia Perugia-Assisi al fianco di un frate francescano o di un qualsiasi ministro della Chiesa cattolica o di qualsiasi altra confessione religiosa. Quindi, anche senza Dio, la libertà sarebbe esperita nelle forme della più totale fraternità e solidarietà che sono conquiste di quell’evento fondamentale della modernità che è la Rivoluzione francese (e sviluppate dalla Rivoluzione russa del 1917).
A ben vedere, se in modo molto laico si sostituisse all’espressione «etsi Deus daretur» (come se Dio ci fosse) l’espressione «etsi Deus non daretur» (come se Dio non ci fosse) ci si potrebbe porre lungo il cammino che conduce ad una pacifica convivenza fra credenti e non credenti per dar vita ad un nuovo senso comune della solidarietà e dell’accoglienza che l’accettazione della prima formula rende difficilmente perseguibile in quanto obbliga a scegliere fra religioni negando quelle non scelte e, inoltre, esclude chi non crede, in quanto si affida alla sola ragione e fa a meno della fede. L’espressione di Grozio, coniata nel 1625, venne riutilizzata dal teologo e pastore luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) il quale, nel corso della sua prigionia nel carcere nazista di Tegel a Berlino, invitava i credenti a «vivere come se Dio non esistesse…», ossia a comportarsi correttamente non in nome della fede, ma della ragione umana. Per converso, sulla scia della scommessa di Pascal, il papa Benedetto XVI ha proposto di capovolgere «l’assioma degli illuministi, l’etsi Deus non daretur nel cui segno nasce la modernità, poiché anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse».
La formula “etsi Deus non daretur” maggiormente si adatta alle umane possibilità in quanto ricorda ad ognuno di essere sé stesso e, a ben vedere, è universale e democratica. Sul tema ha scritto parole illuminanti, rispondendo a Ratzinger, quando ancora era in carica come Benedetto XVI, e rovesciando nella sua formulazione originaria l’assioma che Ratzinger aveva capovolto, Massimo Adinolfi:
Pascal ragionava (in breve) così: Dio è una promessa infinita di felicità; a un gioco in cui si punta un bene o una somma di beni finiti per avere in cambio un bene infinito conviene partecipare, purché la probabilità di vincita sia essa stessa un numero finito. A parte una certa esitazione sull’attribuzione del grado di probabilità all’esistenza di Dio (esitazione perdonabile, visto che Pascal il calcolo lo stava per l’appunto inventando in quel frangente) quel che colpisce nel ragionamento di Pascal non è qualche sua debolezza, ma la sua eccessiva forza. Pascal prova troppo, infatti: dinanzi all’infinito promesso, la vita da scommettere non può valere che nulla, ma se la vita non vale nulla non c’è nulla da scommettere. E infatti: non è mica una scommessa quella in cui, come Pascal scrive, si ha “tanta certezza di guadagno e tanta nullità in ciò che rischiate”. Il fatto è che la scommessa è davvero conveniente solo se quel che si punta è pari a nulla, ma se è pari a nulla non è affatto una scommessa.
Che cosa sia allora l’illusionistica macchina argomentativa allestita da Pascal non è difficile vedere. Nessuno attribuirebbe valore nullo alla propria vita, come Pascal pretende, se non confidasse già nell’altra vita, nell’infinita beatitudine dell’altra vita: costui dunque non scommetterebbe affatto, perché crederebbe già. La scommessa è cioè una cartina di tornasole: rivela a chi è disposto a scommettere che è per ciò stesso un credente, e a chi non è disposto, poiché per lui la vita è tutto e non c’è probabilità di un’altra vita che possa essere più grande del tutto della vita terrena, a costui rivela quel che già è: un non credente. Lungi dall’essere il gioco decisivo, la scommessa mostra insomma quel che è già deciso. Conclusione: fare come se Dio ci fosse riesce davvero solo a chi già crede che c’è.
Ma Papa Benedetto parla d’altro. Parla della morale e del suo necessario fondamento teologico, perché non tutto sia permesso. Ma è invece la stessa cosa, come si può mostrare con l’aiuto, questa volta, di quel Kant a cui anche il Papa (alquanto discutibilmente) si richiama, il Kant la cui morale puramente razionale si iscrive tutta e intera nel solco dell’etsi Deus non daretur che il Papa intende invece rovesciare. Cosa dice infatti Kant? Anzitutto, che a ragionare come se Dio ci fosse si inquinano le sorgenti stesse della morale, poiché fa il proprio dovere chi lo farebbe comunque, che Dio ci sia o meno. In secondo luogo, che se poi Dio ci fosse, se cioè davvero noi dovessimo far nostro il pensiero che Dio c’è e ci guarda, e ci premia e ci punisce, allora la nostra piccola, finita libertà sarebbe schiacciata dalla presenza incombente dell’infinito di Dio: proprio come la puntata della vita al gioco di Pascal. Noi non faremmo mai il male, ma non avremmo più nemmeno la libertà di farlo.
Tra Dio e uomo, invece e per fortuna, c’è distanza, la distanza sufficiente all’esercizio della libertà, e costitutiva dello stesso spazio dell’etica. È proprio il contrario di quel che pensa Ratzinger: non senza Dio, nessuna morale; ma: senza morale, nessun Dio. E fare come se Dio ci fosse, usare la tattica nelle cose della morale e della religione, sembra rientrare per intero nella definizione della tirannia che Pascal ci regala in un’altra pensée, meno famosa del pari ma forse anche più attuale: “La tirannia è voler avere per una strada ciò che si può ottenere solo per un’altra”. Ciascuno faccia dunque la sua strada, e nell’uomo che prova a farla etsi Deus non daretur si abbia infine il coraggio di riconoscere il coraggio, e non la superbia di attribuirgli superbia (M. Adinolfi, L’assioma capovolto di Ratzinger, «Left Wing», 20 giugno 2005).
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