Foto di Armin Forster da Pixabay

Se si vuole studiare una concezione del mondo che non è stata mai dall’autore-pensatore esposta sistematicamente, occorre fare un lavoro minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza e di onestà scientifica. Occorre seguire, prima di tutto, il processo di sviluppo intellettuale del pensatore, per ricostruirlo secondo gli elementi divenuti stabili e permanenti, cioè che sono stati realmente assunti dall’autore come pensiero proprio, diverso e superiore al «materiale» precedentemente studiato e per il quale egli può aver avuto, in certi momenti, simpatia, fino ad averlo accettato provvisoriamente ed essersene servito per il suo lavoro critico o di ricostruzione storica o scientifica. Questa avvertenza è essenziale appunto quando si tratta di un pensatore non sistematico, quando si tratta di una personalità nella quale l’attività teorica e l’attività pratica sono intrecciate indissolubilmente, di un intelletto pertanto in continua creazione e in perpetuo movimento. Quindi: 1° biografia, molto minuziosa con [2°] esposizione di tutte le opere, anche le più trascurabili, in ordine cronologico, divise secondo i vari periodi: di formazione intellettuale, di maturità, di possesso e applicazione serena del nuovo modo di pensare. La ricerca del leitmotiv, del ritmo del pensiero, più importante delle singole citazioni staccate.

Questa ricerca originale deve essere il fondamento del lavoro. Inoltre, fra le opere dello stesso autore, bisogna distinguere quelle che egli ha condotto a termine e ha pubblicato, da quelle inedite, perché non compiute. Il contenuto di queste deve essere assunto con molta discrezione e cautela: esso deve essere ritenuto non definitivo, per lo meno in quella data forma; esso deve essere ritenuto materiale ancora in elaborazione, ancora provvisorio.

Nel caso di Marx l’opera letteraria può essere distinta in queste categorie: 1) opere pubblicate sotto la responsabilità diretta dell’autore: tra queste devono essere considerate, in linea generale, non solo quelle materialmente date alle stampe, ma anche gli scritti destinati ad operare immediatamente, anche se non stampati, come le lettere, le circolari, i manifesti, ecc. (esempio tipico: le Glosse al programma di Gotha e l’epistolario); 2) le opere non stampate sotto la responsabilità diretta dell’autore, ma da altri dopo la sua morte: intanto di queste sarebbe bene avere un testo diplomatico, non ancora cioè rielaborato dal compilatore, o per lo meno una minuziosa descrizione del testo originale fatta con criteri diplomatici.

L’una e l’altra categoria devono essere sezionate per periodi cronologico-critici in modo da poter stabilire confronti validi e non puramente meccanici ed arbitrari.

Anche il lavoro di elaborazione fatto dall’autore del materiale delle opere poi da lui stampate, dovrebbe essere studiato e analizzato: per lo meno darebbe, questo studio, degli indizi per valutare criticamente l’attendibilità delle redazioni compilate da altri delle opere inedite. Quanto più il materiale preparatorio delle opere edite si allontana dal testo definitivo redatto dallo stesso autore, e tanto meno è attendibile la redazione di altro scrittore di un materiale dello stesso tipo. Infatti un’opera non può mai essere identificata col materiale bruto raccolto per la sua compilazione: la scelta, la disposizione degli elementi, il peso maggiore o minore dato a questo o a quello degli elementi raccolti nel periodo preparatorio, sono appunto ciò che costituisce l’opera effettiva.

Anche lo studio dell’epistolario deve esser fatto con certe cautele: un’affermazione recisa fatta in una lettera non sarebbe forse ripetuta in un libro. La vivacità stilistica delle lettere, se spesso è artisticamente più efficace dello stile più misurato e ponderato di un libro, qualche volta porta a deficienze di dimostrazione: nelle lettere, come nei discorsi, come nelle conversazioni si verificano più spesso errori logici; la rapidità del pensiero è a scapito della sua solidità.

Solo in seconda linea, nello studio di un pensiero originale e personale, viene il contributo di altre persone alla sua documentazione. Per Marx: Engels. Naturalmente non bisogna sottovalutare il contributo di Engels, ma non bisogna neanche identificare Engels con Marx, non bisogna pensare che tutto ciò che Engels attribuisce a Marx sia autentico in senso assoluto. È certo che Engels ha dato la prova di un disinteresse e di un’assenza di vanità personale unica nella storia della letteratura: non è menomamente da porre in dubbio la sua assoluta lealtà personale. Ma il fatto è che Engels non è Marx e che se si vuole conoscere Marx bisogna specialmente cercarlo nelle sue opere autentiche, pubblicate sotto la sua diretta personalità. (Q4, 1, 419-420)[i].

Nel momento in cui ci si appresta a scrivere su Marx, si dovrebbero tenere nel giusto conto le indicazioni di metodo (methodos, ossia la ricerca di una via) fornite da Gramsci, ossia ripercorrere la vita del filosofo di Treviri mettendo in relazione gli eventi che Marx stava vivendo con le opere che scriveva in quel determinato momento della sua vita.

Lo stesso Marx indica la strada con la Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica[ii] nella quale ripercorre il periodo che va dal 1842 alla collaborazione con il New York Tribune degli anni Cinquanta (nel momento in cui scrive è all’ottavo anno di collaborazione con la testata statunitense e al quarto come unico corrispondente dall’Europa).

1842-1843: Gazzetta renana, quotidiano democratico uscito a Colonia dal 1° gennaio 1842 al 31 marzo 1843. Marx ne fu redattore capo dal 15 ottobre 1842. La chiusura della Gazzetta renana spinse Marx a ritirarsi “dalla scena pubblica nella stanza da studio”.

1844: Annali franco-tedeschi pubblicati a Parigi e cessati dopo la prima pubblicazione. Qui Marx pubblicò l’Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel a cui aveva iniziato a lavorare nel 1843 (ma anche La questione ebraica). La scoperta che “l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica” condusse Marx, emigrato nel frattempo da Parigi a Bruxelles per ordine di Guizot, ad alcune conclusioni che costituiscono il filo conduttore dei suoi studi e che Gramsci individua come i due “principi fondamentali della scienza politica” citandoli nel modo seguente:  “1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc.” (Q15, 17, 1774).

Nel 1845 anche Engels, già autore della Situazione della classe operaia in Inghilterra (Lipsia, 1845), si stabilì a Bruxelles. Il sodalizio fra i due iniziò con “una critica della filosofia posteriore a Hegel” (L’ideologia tedesca) che non fu pubblicata (lo fu soltanto nel 1932) e, per questo, fu abbandonata “alla rodente critica dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi”. Insieme realizzarono il Manifesto del Partito comunista e, Marx da solo, il Discorso sul libero scambio. Lo stesso Marx ricorda che “i punti decisivi” della concezione materialistica della storia furono indicati “per la pima volta, benché soltanto in forma polemica”, in Miseria della filosofia del 1847 contro Proudhon.

1848-1849: Nuova gazzetta renana, uscito a Colonia e diretto da Marx, su cui, in forma di editoriali, apparve una serie di articoli sul tema Lavoro salariato e capitale.

Espulso dal Belgio a seguito della rivoluzione di febbraio, Marx si rifugiò a Londra dove riprese i suoi studi dal 1850 alternandoli con gli articoli scritti per il New York Tribune (organo democratico-borghese americano fondato nel 1841 con il quale Marx iniziò a collaborare nel 1851 divenendone l’unico corrispondente in Europa dal 1855) in quanto doveva “lavorare per un guadagno”. Da tenere presente la conclusione della Prefazione: “Questo schizzo nel corso dei miei studi nel campo dell’economia politica deve solamente servire a dimostrare che le mie concezioni, in qualsiasi modo si voglia giudicarle e per quanto coincidano ben poco con i pregiudizi interessati delle classi dominanti, sono il risultato di lunghe coscienziose ricerche. Sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’Inferno, si deve porre questo ammonimento:

“Qui si convien lasciare ogni sospetto

Ogni viltà conviene che qui sia morta.”[iii]

Questa conclusione diventa un’ulteriore indicazione di metodo in quanto propone l’impostazione di un percorso di studio scevro da qualsiasi atteggiamento ideologico sia esso apologetico sia esso denigratorio. Marx pretende di essere affrontato in quanto studioso, in quanto ricercatore nel senso del platonico Simposio, ossia erede della filosofia come ricerca erotica in quanto povera da parte di madre e spinta all’arricchimento da parte di padre.

Ovviamente non può in questa sede mancare un riferimento all’opera più nota di Marx, ossia Il Capitale[iv], riflettendo, in quanto si tratta veramente di attualità, sul cap. 24 del Libro I del Capitale di Marx intitolato La cosiddetta accumulazione originaria:

La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella. (…) il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco. (…) l’éra capitalistica data solo dal secolo XVI

continua Marx, ossia da quando lo sfruttamento feudale è divenuto sfruttamento capitalistico, da quando, attraverso la loro espulsione dalle terre, ha avuto inizio l’espropriazione dei produttori reali, dei contadini. Questo processo di espropriazione ebbe il suo culmine nell’esclamazione di Elisabetta I: “Pauper ubique jacet”. Nel quarantatreesimo anno del suo regno, fu costretta “a riconoscere ufficialmente il pauperismo mediante l’introduzione della tassa dei poveri”. Il passo ulteriore fu la trasformazione della proprietà comune in proprietà privata per mezzo di una serie di azioni violente che culminarono nel clearing of estates. Questi sistemi terroristici condussero all’espropriazione della popolazione rurale e alla sua sottomissione

a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato”. Inoltre, in questa fase, la borghesia usò il potere dello Stato per regolare il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria.

A ciò si aggiungano, continua Marx,

la scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere.

L’Inghilterra combinò fra loro questi momenti, usò brutalmente il potere dello Stato,

violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico… La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica[v].

Marx affronta, quindi, la questione della povertà, e perciò dello sfruttamento, da un punto di vista storico e non ideologico. La povertà, come si manifesta nel sistema capitalistico, è la conseguenza del violento processo di accumulazione messo in atto nel corso del XVI secolo: si tratta proprio di un fatto storico che coincide con la progressiva perdita di libertà da parte della classe dei produttori.


[i] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975: il testo gramsciano sarà citato indicando il Quaderno, e i numeri della nota e delle pagine.

[ii] K. Marx, Prefazione del ’59 a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 19743, pp. 3-8.

[iii] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto III, vv. 14-15.

[iv] Il primo libro fu pubblicato nel 1867, il II nel 1885 e il III nel 1894; questi ultimi due libri del Capitale furono curati da Engels.

[v] K. Marx, Il Capitale, Libro I, a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 779–814.

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