Se le condizioni sociali, politiche ed economiche dei Paesi non sono il frutto del caso, ma il risultato delle scelte e degli avvenimenti che, concatenati tra loro, ne tracciano il percorso – si sarebbe detto una volta “storicamente determinato” – allora potremmo, dovremmo leggere l’attuale situazione non con gli occhi volti ad un singolo avvenimento, ad una singola scelta, ad un singolo episodio, ma all’insieme di questi che, conseguenti e uniti, hanno determinato lo stato attuale. Per brevità, Trump, Bolsonaro, Erdogan, e, nel nostro piccolo, Renzi, Conte piuttosto che Berlusconi e Salvini, non sono frutto del caso, ma della storia.
Se tutto ciò è vero, allora potremmo, dovremmo guardare un po’ oltre la quotidianità e allargare lo sguardo oltre la “politica” spicciola.
In quest’ottica, si comprende che anche la crisi della sinistra ha radici lontane, come da più parti del resto si sottolinea, di cui uno dei frutti più amari è la frammentazione che la caratterizza, in particolare in Italia, e l’incapacità, o non volontà, dei vari componenti di quest’area ad un confronto sereno, privo di pregiudizi, che non ponga pregiudiziali, e autenticamente finalizzato non solo al superamento delle divisioni, ma ad un genuino interesse a cambiare il mondo, a determinarne le sorti.
Il motivo di tale difficoltà risiede in prevalenza nell’errato o insufficiente approccio di analisi su quanto è accaduto negli anni, nel mondo e in Italia, e in particolare per un approccio, laddove timidamente si affaccia, di tipo cronachistico e non di tipo “storico”: in una parola, nella rinuncia allo studio, strumento principe per definire le proprie azioni e scelte.
Potremmo, dovremmo guardare, alla storia almeno dell’ultimo secolo e mezzo, dalla nascita delle società moderne, all’unità d’Italia, alla rivoluzione industriale e alla conseguente immigrazione interna ed emigrazione, alle guerre mondiali e ai diversi ordini mondiali seguenti e, in tutto ciò, alla trasformazione del proletariato in classe operaia e poi della classe operaia in ceto medio.
Bisognerebbe avere uno sguardo ed un pensiero “critico” sul mondo, cercare di capirne le evoluzioni e le molle che lo hanno definito qual è, e in questo ambito quindi leggere il contributo, il ruolo svolto e gli errori della sinistra.
E quindi dovremmo tornare a porci, ad esempio, persino un quesito che è stato oggetto di analisi, sia pure da un punto di vista teorico, di discussione e che fu persino causa di divisione, nell’ambito del pensiero dei primi partiti socialisti e comunisti, e che impegnò dai primi anni della nascita del PCI e dei movimenti comunisti e rivoluzionari nel mondo e del movimento operaio in generale: la classe operaia ha di per sé una natura rivoluzionaria?
È evidente che questa appare oggi domanda ormai superata, datata, che siamo andati troppo indietro. Un’impresa non affidabile ad una piccola dissertazione quale questa è, che può solo limitarsi ad indicare, parzialmente e certamente lacunosamente, alcuni spunti di riflessione.
E allora, pur tenendo in testa quel quesito, e conservando memoria del contesto sociale di quel secolo, proviamo a partire da epoche più recenti, consci però, appunto, anch’esse sono frutto di ciò che le precede e che determinano il futuro.
In questo senso, e con tale approccio, io credo che la crisi della sinistra di oggi sia frutto, tra l’altro, anche di quanto è accaduto negli anni ’80, all’epoca dell’edonismo reaganiano e del riflusso (in Italia la famosa Milano da bere), in cui il ceto medio, divenuto la principale e più estesa categoria della società, aveva visto crescere il proprio livello di benessere, quale esito delle lotte degli anni ‘60-’70.
Quell’accresciuto benessere è stato visto come punto di arrivo, definitivo e certo, verso quella tranquillità economica e sociale cui si aspirava, una condizione definitivamente conquistata e quindi solo migliorabile. Quella che allora era il riferimento della sinistra, la classe operaia (divenuta classe media e perciò centrale), ha mai davvero aspirato ad un cambio di società, al ribaltamento dei metodi “di produzione” e quindi di distribuzione delle ricchezze, ad un cambio del sistema sociale, per brevità all’abbattimento del sistema capitalistico a favore di un sistema socialista?
O ha inteso la propria partecipazione alle lotte da un lato come rivendicazione, giusta, dei propri diritti, specie salariali, soprattutto come aspirazione, al più, a prendere il posto di chi comanda, a sostituire i “potenti” di turno, e praticare una sorta di semplice “vendetta” verso chi ti governava? Quello che ha mosso le masse non era forse non il desiderio di un cambio di società, non fino in fondo, ma semplicemente mettersi al posto di chi comanda, sostituirsi al potere, non cambiare il potere? La sua spinta rivoluzionaria non si riduceva, in fondo, a quella che un tempo si sarebbe definita “un’aspirazione borghese”? Come si vede, il quesito prima citato, se pure abbandonato, ritorna per vie sotterranee.
In sostanza, e necessariamente semplificando, la risposta a quel quesito nei primi anni del secolo scorso fu che si, la classe operaia era l’unica portatrice del nuovo. E, sostanzialmente, fu vero come dimostrarono le conquiste degli anni ’70. Fu dato per scontato, anzi immaginato come conseguente, che ciò implicasse l’aspirazione per un cambio di ‘Sistema’.
Negli anni ’80 invece la risposta fu sostanzialmente no, il cambio di sistema non era più l’anima e l’obiettivo della classe operaia/ceto medio, che era cosa superata, che non era più oggetto di discussione, che il miglioramento delle condizioni materiali di vita fosse l’aspirazione massima, già l’obiettivo da raggiungere che esauriva la funzione dei movimenti rivoluzionari e che, al più, si trattava di ‘posizionarsi’, ‘gestire’ l’esistente, rimanendo entro il sistema così determinato (neoliberismo).
In quell’epoca, gli anni che hanno preceduto e poi determinato gli anni ’80, a prescindere dalle disquisizioni che ora appaiono teoriche e dottrinali, la giusta aspirazione ad un avanzamento sociale e il ribaltamento del sistema economico-sociale, erano sembrate coincidere.
E perciò le lotte operaie avevano tutto sommato funzionato, essendoci una classe media relativamente ristretta, e che aspirava a crescere e una massa prevalentemente povera, (si pensi ai due dopoguerra), che ne voleva far parte (Cit. …oggi anche l’operaio vuole il figlio Dottore…. “Contessa” – P. Pietrangeli).
Nei seguenti anni ’80 però, la classe operaia, divenuta ceto medio, e il ceto medio divenuto corpo portante della società e base maggioritaria di riferimento dei grandi partiti, non hanno a quel punto più bisogno di una sinistra, perlomeno non quella avuta fino ad allora, anzi la interpreta come ostacolo al proprio consolidamento (in Italia la marcia dei 40.000 a Torino, ne è un esempio).
Per questo quando negli anni ’80, l’accresciuta classe media vede in apparenza soddisfatta la propria aspirazione nell’avanzamento nella scala sociale, e la sinistra si arrende a quella visione/narrazione, o anche essa stessa si sente appagata, comincia il suo stesso declino perché diventa, in questa passiva subordinazione culturale, soggetto ormai inutile e obsoleto.
Quella classe media si è sentita finalmente ricca, sia pure inconsapevolmente di una ricchezza in verità non posseduta. È qui che emerge e si rafforza la narrazione della necessità di una crescita continua del PIL, quale metodo di misura della ricchezza (non della sua distribuzione, si badi bene) e conseguentemente, in apparenza, del benessere. Questa illusione, questo inganno, hanno funzionato fino a quando la bolla non è scoppiata, quando cioè è arrivato il momento di restituire quella ricchezza che appunto, era un’illusione in prestito.
Come non vedere l’inganno invece di credersi finalmente emancipati dalla condizione di povertà, e ritrovare invece nuove catene: il prestito facile, il mutuo, le rate a interessi zero, l’illusione che puoi permetterti tutto, persino il superfluo, possedere cioè gli strumenti che in apparenza segnano il tratto di una conquistata libertà ed emancipazione, e invece erano, sono, i nuovi strumenti di vassallaggio.
Tutto questo vuol dire che si è sbagliato a fare le conquiste degli anni ‘70? Ovviamente, assolutamente no. Ma aver perso quel filo che legava, rappresentava, interpretava la società, i suoi bisogni e aspirazioni, per intrecciarli ad una visione diversa di società, rappresenta oggi la radice della sconfitta.
Come non capire, o almeno sentire la necessità di ragionare, sulla banale constatazione che le mitiche ‘masse’ all’epoca della rivoluzione industriale, erano costituite da proletariato e sottoproletariato, e oggi, all’epoca della rivoluzione tecnologica, le masse sono rappresentate dal ceto medio (e di questo passo, chissà fino a quando)?
Come non capire (o ancora una volta interrogarsi) che nuove conquiste – oggi persino la difesa di conquiste antiche – a vantaggio delle classi medie, hanno una valenza sociale enorme, per gli effetti economici diffusi che producono, e in definitiva per il benessere collettivo, e che queste conquiste di conseguenza risultano più facilmente applicabili, estendibili, anche alle ‘classi subalterne’, mentre conquiste (pur giuste) per le classi minoritarie non producono gli stessi effetti sociali ed economici, e quindi restano confinati alla marginalità? Chi sono infatti i Riders laureati o i cinquantenni riciclati? Ceto medio o nuovo proletariato? Chi deve contrastare la possibile stagione del più grande processo d’impoverimento dell’ultimo secolo?
E come contrastarla? Con politiche di sostegno sussidiario, bonus, reddito di cittadinanza (pur necessarie), perseverando entro politiche che di fatto stabilizzano le condizioni di precarizzazione o con politiche volte alla creazione di possibilità di lavoro e di sviluppo (e quindi di accoglienza e di redistribuzione delle ricchezze)? Ancora una volta, politiche che guardano l’individuo (il lavoratore) o la collettività (il lavoro)?
Eppure, la Sinistra nel suo complesso non riesce a essere riferimento.
Oggi, vent’anni dopo, fine secolo e fine millennio dopo, una sinistra capace avrebbe dovuto accorgersi, intravedere i limiti di quelle illusioni, perché diventano man mano più evidenti e si sviluppano i segni del declino di quella stessa classe media (oltre quella di chi non era comunque mai riuscita a fare un salto in avanti e restata in condizioni di povertà), che comincia a vedere ridursi la sua base sociale ed estensione e che al contrario diventa sempre più ristretta, e ci si consegnava mani e piedi ad un sistema basato ancora più marcatamente sullo sfruttamento.
Altri vent’anni ancora e quella classe media diventa ormai decisamente e fortemente esposta a processi di impoverimento e precarizzazione – proletarizzazione? – che sempre più tendono a ridurne l’ampiezza e quindi il peso sociale, subendo processi inversi a quelli degli anni ’80, di regressione nella scala sociale, svelando in ciò l’illusione che certe conquiste fossero per sempre, definitive, sia in termini di status sociale che in termini di diritti.
Quella classe di “arrivati” avrebbe avuto bisogno, già allora cioè, non di liberismo “governato”, ma di una sinistra che si opponesse a quella strada, che invece intraprese, affiancò o perlomeno non contrastò con sufficiente forza.
Proprio perché era quella la strada che, adeguando i propri strumenti di sopraffazione, di “governo” della società, di profitto, seminava in realtà i germi di una nuova decadenza, creava le basi di un nuovo dominio, di nuove dipendenze, nuove servitù: precarizzazione del lavoro, e quindi delle condizioni di vita, sfruttamento incontrollato della manodopera specie e soprattutto se irregolare, sfruttamento del pianeta, persino attraverso la rivoluzione tecnologica che non viene messa al servizio dell’uomo e del miglioramento della sua qualità di vita, ma per accrescere il profitto. In quegli anni cioè, si creavano le basi, teoriche e pratiche, per la sconfitta dell’illusione che le conquiste degli anni ’70 avevano prodotto.
È lì, anche, che la sinistra compie quindi uno dei suoi più grande errori: subire o addirittura teorizzare la visione liberista del mondo, accettare acriticamente il nuovo ordine mondiale (pensiamo al “globalismo”), subordinarsi culturalmente e poi quindi politicamente, al vincente liberismo.
È in questo scenario complessivo e globale che si inseriscono, nascono, si sviluppano, si affacciano in seno alle sinistre, figure diverse, paese per paese, ma coerenti tra loro, che ne contaminano il corpo e la funzione, da Blair a Clinton, e nel nostro paese, da Veltroni a Renzi. Non è qui che muoiono, in fondo, e definitivamente, non solo Gramsci, ma Berlinguer, Nenni, Ingrao, Lombardi, e persino Olof Palme, per citarne alcuni?
Questo è il nocciolo della sconfitta, che prima ancora che politica è quindi culturale e filosofica.
In questa lettura non appare un caso che gli ultimi movimenti che si sono posti una prospettiva di cambio radicale della società, con tutte le ingenuità e velleità che pure li contraddistinsero, furono quelli legati (o legati in misura più o meno diretta) al ’68, da Barkley al maggio francese, dall’autunno caldo e persino dai fatti di Praga e la Cecoslovacchia, e finanche ai figli dei fiori (antesignani, se vogliamo, di un’aspirazione verso un mondo diverso, libero e “Green”): movimenti appunto globali, non nazionali, che contrapponevano una propria visione culturale di mondo e di esistenza alla visone dominante.
Ecco perché quindi non è un caso che sia più facile, oggi, riuscire ad organizzare una protesta per Acelor o per l’ILVA di Taranto, piuttosto che grandi manifestazioni di massa, perché (purché) quelle proteste restano rigorosamente isolate, indipendenti l’una dall’altra, persino territorialmente, e non partecipi di un disegno complessivo, di una visione generale di società.
Non è un caso che, in apparente contraddizione, si moltiplicano le iniziative e nascono associazioni di impegno sociale e civile, ma che restano, appunto, anch’esse slegate e indipendenti, avulse da un ragionamento complessivo sulla necessità di un cambio di società, non diventano massa critica, non esprimono una propria complessiva soggettività politica, restando in fondo una sorta di assistenzialismo laico talvolta, lodevole, ma appunto, circoscritto nei confini delle aspirazioni.
Gli unici a porre problematiche di tipo globale, universale sono oggi, forse, i ragazzi del FFF, se pure in maniera embrionale e privi di una definita “coscienza di classe”.
La miopia della sinistra sta nel non aver saputo vedere i singoli elementi disseminati nel corso degli anni, dei decenni, quali sintomi di una generale malattia, determinando la propria dissolvenza o nell’accettazione passiva di una lettura liberista quale prospettiva inevitabile e definitiva (e comoda), o nel rintanarsi in una nicchia identitaria che ne ha acuito l’isolamento.
I personalismi e gli identitarismi, la frammentazione e l’incomunicabilità tra soggetti, sono frutto di quella sconfitta, di quelle rinunce, di quelle passività della sinistra, non il contrario.
Ecco perché credo che finché la sinistra non saprà dotarsi di nuovi strumenti interpretativi, senza i quali nessuna risposta è possibile, e resterà incapace di leggere la società (e la Storia), la ricerca dell’unità non solo resterà impossibile, affannosa e destinata a non realizzarsi, ma anche sostanzialmente inutile.
Ecco perché c’è bisogno di una sinistra che riparta innanzitutto e fortemente dalla consapevolezza di sé, della necessità del proprio ruolo e delle sue funzioni, e che abbia la capacità di dotarsi di nuovi strumenti che le consentano di avere un ruolo decisivo per la trasformazione della società e del mondo.
Una sinistra che non ricerchi orizzonti, nuovi e possibili, è una sinistra che non ha ragione di esistere. E infatti non esiste.
Ecco perché appare persino stucchevole, in Italia banalmente e marginalmente, la discussione imperniata sovente sul problema alleanze con il PD, su quali rapporti devono costruirsi tra questi soggetti.
Finché non si ha la capacità, e la volontà, di affrontare una revisione critica, storica, ideale, sulla propria natura e aspirazione – e sulla natura e aspirazione del PD – appaiono del tutto marginali gli accordi, che pure vanno ricercati, o i disaccordi elettorali nei diversi territori o anche nazionali: sono e restano contingenti e senza respiro.
Ora siamo all’alba di una protesta sociale, possibile, forse inevitabile e forse difficilmente governabile. Transumanze chiamate migrazioni economiche, impoverimento di intere porzioni di Pianeta, rivoluzioni e stravolgimenti nei rapporti economici tra Stati, tra categorie e tra persone, diminuzione delle risorse, principalmente dell’acqua, sono solo alcuni dei temi sulle quali possono esplodere da un momento all’altro fenomeni di rivolta, sommovimenti di massa o addirittura nuove e sanguinarie guerre (tra l’altro già in corso). Altro che difendere i confini: nessun confine, fisico o teorico, può fermare fenomeni e problemi di tale vastità e profondità.
La sinistra ha il dovere quindi, compito minimo primario, di rappresentare, indirizzare e governare, anticipare questi prevedibili fenomeni, sia mettendo in guardia il mondo dai rischi cui è esposto, sia ricercando soluzioni, che non possono che essere anticapitaliste e verso un nuovo socialismo, che sappiano coniugare la vita dell’uomo, la qualità di vita dell’uomo e dei suoi rapporti reciproci, con la conservazione e la tutela della risorsa pianeta.
Se non riesce a farlo, o addirittura rinuncia a farlo, allora davvero il capitalismo resterà ancora a lungo l’ultimo orizzonte immaginabile per l’umanità, e in definitiva, di questo passo, fino alla scomparsa dell’uomo.
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