Il 12 gennaio del 1982 Enrico Berlinguer, nella sua relazione al Comitato centrale (Cc), lanciò la prospettiva della “terza fase” del socialismo. Terza perché subentrava alle due precedenti periodizzazioni. La prima, era stata segnata dalla crescita del movimento operaio sotto l’egida dei partiti socialisti e socialdemocratici riuniti nella seconda Internazionale e conclusasi ingloriosamente nella Grande guerra mondiale. Da lì era scaturita la seconda fase, partita con la Rivoluzione d’ottobre bolscevica e contraddistinta dalla formazione con la Terza Internazionale o Komintern di un movimento comunista mondiale. Una fase che aveva ottenuto successi notevoli – rivoluzione cinese, rivoluzione cubana, rivoluzioni anticoloniali e indipendenza nazionale di tanti stati africani, vittoria del Vietnam – dopo la vittoria sul nazifascismo in Europa e sul militarismo giapponese in Asia della grande alleanza antifascista fra Usa, Gran Bretagna e Unione sovietica staliniana nel secondo conflitto mondiale.
Con il colpo di stato di Jaruzelskij in Polonia avvenuto poche settimane prima, il 13 dicembre, Berlinguer aveva espresso la posizione, poi ripresa e sistematizzata nel Comitato centrale, che la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre era esaurita”. Di qui la necessità di una “terza fase” di lotta per il socialismo, in cui ridiveniva trainante – disse – il movimento operaio dell’Europa occidentale con i suoi partiti di ispirazione socialista tra cui quelli comunisti. Essa avrebbe dovuto far avanzare la trasformazione socialista nella e con la democrazia politica nei punti alti dello sviluppo capitalistico e spingere a una riforma democratica del socialismo realizzato nei paesi dell’est. Tutto questo anche grazie “al dibattito e alla ricerca – affermava Berlinguer – che sono in atto anche in alcuni partiti comunisti e in molte forze socialiste e socialdemocratiche europee (dalla Francia alla Svezia, dalla Gran Bretagna alla Germania), dibattitti e ricerche nelle quali viene affrontato esplicitamente il problema del superamento effettivo del sistema capitalistico e vengono sottoposte a critiche e aggiornamenti le tradizionali politiche sin qui seguite dalle socialdemocrazie”.
Non era la prima volta che nel Pci si affrontava il tema del superamento del capitalismo nell’Europa occidentale unita alla questione di una nuova unità fra le forze comuniste, socialiste e socialdemocratiche. Amendola nel novembre del 1964 discutendo con Bobbio, subito dopo la destituzione di Krusciov in Urss, pose il problema della confluenza in un unico partito di queste forze poiché, scrisse, nessuna delle due soluzioni, quella comunista e quella socialdemocratica “si è rivelata fino ad ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società, un mutamento di sistema”. L’affermazione fece scalpore dentro il Pci ma non ebbe gli sviluppi strategici che Amendola auspicava. Ebbe invece un certo effetto nel contrastare oggettivamente sul piano politico immediato l’unificazione che in quel momento si andava realizzando fra Psi e Psdi su basi “socialdemocratiche” con punte anticomuniste non gradite agli eredi di Togliatti. Quel Togliatti, scomparso nell’agosto precedente, che, da parte sua, ebbe ben presente quel tema unitario e che, con toni più piani e obiettivi più graduali di quelli “fuori tempo” di Amendola, lo aveva riproposto l’anno prima nel dicembre del 1963 al Comitato centrale dicendo: “Si presenta quindi, sia per il momento presente sia in una prospettiva più lontana la questione delle relazioni tra questi partiti, e cioè tra tutte quelle forze politiche organizzate che abbiano una base nella classe operaia, che veramente tendano a una trasformazione socialista degli ordinamenti attuali, che siano consapevoli della possibilità e necessita di una avanzata democratica verso il socialismo […] Oggi le cose si presentano in circostanze nuove e in modo nuovo. Si tratta di trovare, in queste circostanze, un sistema di contatti e articolazioni particolari, tra forze le quali accettino una certa base unitaria, pur avendo e conservando ciascuna una propria tradizione, organizzazione personalità”. La linea unitaria di Togliatti non era solo dettata da una visione strategica ma, nell’immediato, anche dalla preoccupazione per la nuova e incipiente scissione nel Psi che proprio in quei giorni stava prendendo corpo con la nascita del Psiup, cioè della componente di sinistra di quel partito che non accettava la nascita del centro-sinistra organico a dominanza dorotea e orientato all’isolamento dei comunisti. Il segretario del Pci la definì una “iattura”, anche se non poteva non accollarne la responsabilità alla maggioranza del Psi guidata da Nenni.
Diciotto anni dopo Berlinguer, come abbiamo visto, riprese quel discorso unitario nei termini accennati della “terza fase”. Termini diversi da quelli trattati da Togliatti e da Amendola – si pensi al pieno sostegno al processo di unità dell’Europa a cui si era convertito dopo un lungo cammino il Pci -, sebbene sempre incentrati sulla transizione al socialismo “nella democrazia e nella pace“ in Europa occidentale. La questione in Berlinguer non era più nazionale ma continentale e legata alla ripulsa dei modelli del socialismo reale in crisi evidente dopo la vicenda della Cecoslovacchia nel ‘68, la Polonia nel ’70 e ancora la Polonia nei primi anni ‘80. In quel Cc del gennaio dell’ ’82 Berlinguer sottolineava la necessità di un “nuovo internazionalismo” legato ai cambiamenti intervenuti nel mondo: l’emergere di movimenti anticoloniali e rivoluzionari nei paesi del terzo mondo non rapportabili direttamente alle esperienze comuniste, la decolonizzazione e la conquista dell’indipendenza politica dei paesi coloniali, il mutamento delle ragioni di scambio fra il nord del mondo sviluppato e il sud possessore delle materie prime. Tutto ciò faceva sì che alla contraddizione mondiale fra Est e Ovest si aggiungesse anche quella fra il Nord e il Sud del pianeta. Perciò la “terza fase” era anche riferita alla necessità di porre il movimento operaio dell’Europa occidentale “come forza trainante e aggregante di un vastissimo e articolato schieramento che nei singoli paesi, su scala continentale e su scala mondiale abbia l’intelligenza e la forza di superare le posizioni conservatrici di ogni tipo, le chiusure nazionalistiche, i fanatismi, i dogmatismi, le prevaricazioni ideologiche”. Berlinguer rivendicava orgogliosamente al Pci, grazie alla sua autonomia dal socialismo realizzato e alla sua visione politica internazionalista, di essere “in grado di promuovere un collegamento costante tra le realtà che sono frutto della Rivoluzione d’Ottobre, il movimento operaio che è rimasto fuori dall’esperienza comunista (socialisti, socialdemocratici, cristiani) e le forze rivoluzionarie, di liberazione e di progresso di altre aree del mondo e di ogni altra ispirazione”. In questo quadro, sottolineò positivamente anche la ripresa dei rapporti con il partito comunista cinese. E in effetti bastava guardare la tribuna degli ospiti stranieri nei Congressi comunisti di quel periodo per rendersi conto della vastità dei legami internazionali e internazionalistici del Pci e dell’attenzione e del prestigio goduti nel mondo.
Un’occasione mancata
In quel Comitato centrale le posizioni che furono affermate, “Terza fase”, “Nuovo internazionalismo”, nuova contraddizione mondiale Nord-Sud del mondo ecc., ebbero come punto centrale la prospettiva nuova da delineare dopo l’ “esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. Non venne trattato un altro elemento non meno importante: la politica internazionale seguita dall’Urss dopo la sconfitta degli Stati Uniti nel Vietnam. Anche lì c’era stato un mutamento non positivo da parte sovietica. A fronte della crisi in atto dell’interventismo americano e dai mutamenti abbozzati, ma significativi, della nuova Presidenza di Carter di voler cambiare strada dando vita a una ritirata strategica in America latina, in Africa e in Asia, l’Urss, invece di approfittarne per indurre gli Usa a procedere sulla strada del disarmo nucleare e di una definitiva fuoriuscita dalla politica della divisione del mondo in zone di influenza e in blocchi contrapposti, iniziando a smantellarli e consolidando la pace sulla base del principio del non intervento negli stati indipendenti, ne aveva approfittato sul piano di una politica di potenza inaugurando un’espansione geopolitica di grandi proporzioni in Africa (passando dal sostegno, ancora accettabile, all’Angola di Neto all’intervento in Etiopia e nel Corno d’Africa), in Asia con l’invasione dell’Afghanistan e in Europa squilibrando il rapporto nucleare in proprio favore con l’allocazione dei più potenti ed efficaci missili di teatro SS20. Ciò, insieme ad altri fattori indipendenti come la “rivoluzione” iraniana a forti tinte islamiche e antiamericane del ’78-’79, aveva provocato dapprima l’arroccamento del democratico Carter e poi l’arrivo del repubblicano Reagan. Quella sovietica non era più la politica seguita dopo Yalta – salvo la parentesi della guerra di Corea – di contrappeso all’interventismo imperialistico americano, era un’altra cosa che difficilmente poteva essere identificata dal Pci come una fattiva politica di pace, al di là dell’inaccettabilità del socialismo autoritario realizzato. A mettere in luce simile cambiamento era stato Paolo Bufalini – prestigioso dirigente cui erano demandati i rapporti con il Pcus nei momenti più turbolenti – in un seminario sulla politica internazionale tenuto a Frattocchie nell’aprile del 1981. Pur dando un giudizio positivo sulla relazione di Breznev al XXVI Congresso del Pcus svoltosi nel marzo precedente riguardo l’apertura a riprendere una politica di trattativa per il disarmo, compresi gli SS20, l’autorevole dirigente comunista metteva in guardia la dirigenza sovietica: “Altra cosa, non giusta, errata, noi consideriamo il rispondere con una politica di potenza; il dare minor peso all’iniziativa politica e maggior peso a quella militare; ritenere che in ogni caso l’espansione geografica dell’influenza e delle posizioni di forza giovi alla causa del progresso e del socialismo: mentre è il contrario, per i costi altissimi che una tale linea fa pagare; per l’oscuramento di essenziali princìpi rivoluzionari, democratici e socialisti; per la perdita di influenza sugli animi di grandi masse che devono essere conquistate ai nostri ideali”. Solo che il danno era già stato fatto e il vento seminato aveva già raccolto la tempesta, prima con la vittoria della Thatcher in Gran Bretagna e poi con quella di Reagan negli States.
La politica di potenza dell’Urss dopo la sconfitta americana nel Vietnam si era manifestata sul piano globale in diverse tappe in Africa e in Asia. Tutte avevano ricevuto rilievi e critiche da parte del Pci ma i comunisti italiani avevano stentato a manifestare una critica netta e generale alla mutazione complessiva della politica estera sovietica. Sta di fatto che Berlinguer si trovò a fronteggiare non solo l’”esaurimento della spinta propulsiva”, la crisi profonda di un socialismo senza libertà né democrazia, ma anche una politica internazionale dell’Urss volta a occupare le sedie lasciate libere o sguarnite dall’imperialismo americano e dagli ultimi suoi protetti neocolonialisti in Africa (Portogallo).
Perché questo ritardo nel prendere le distanze dai modelli di società dell’Est? Berlinguer lo attribuì al fatto che avendo l’Urss svolto un ruolo determinate nell’abbattimento del nazifascismo e sorretto il movimento operaio occidentale, durante la guerra fredda, nella conduzione di “grandi e decisive battaglie per la democrazia e per la pace”, verso di esso “per un certo tempo – disse – abbiamo concepito, vissuto e utilizzato tale patrimonio in modo mitico e acritico, cioè subalterno e, quindi, sbagliato”. Valutazione giusta e in qualche modo anche autocritica perché solo sette anni prima lo stesso Berlinguer al XIV Congresso del Pci parlava dell’Urss e degli altri paesi dell’est come di paesi socialisti con alcuni “tratti illiberali” dove, però, disse, non c’era la crisi economica, nata da quella petrolifera, che stava affliggendo l’Europa occidentale. Posizione che, però, fu in qualche modo capovolta appena due anni e otto mesi dopo, quando a Mosca, in occasione del 70esimo della Rivoluzione d’ottobre, il 3 novembre del ’77, parlò della democrazia pluralistica e pluripartitica come “valore storicamente universale” su cui fondare una società socialista.
La timidezza a criticare la politica di potenza dell’Urss e anche il modello di società dei paesi dell’Est (socialismo reale) poteva trovare nuovo alimento in una politica reaganiana statunitense che era tornata ai vecchi amori dell’interventismo a sostegno di regimi e forze reazionarie nel centro e sud America, in Medio Oriente e nel resto del pianeta e nel rilancio alla grande di una politica di riarmo nucleare e missilistico (lo scudo spaziale) volta a rinnovare la contrapposizione globale contro l’Urss definita “impero del male”. La “Terza fase” voleva anche divincolarsi da questa tenaglia pur rimanendo nel campo delle forze pacifiste, antimperialiste e anticolonialiste.
“Terza fase” e “terza via”.
Nella sua relazione Berlinguer identificò la “terza fase” con la “terza via”. Di “terza via” nel Pci se n’era già parlato in precedenza ed essa, tenne a ribadirlo, non era una via di mezzo fra il capitalismo e il socialismo, ma il tentativo di “fuoriuscire” dal capitalismo in Europa occidentale superando sia il modello sovietico che quello socialdemocratico. Nel Pci si era passati nel corso della sua storia dall’ “abbattimento” rivoluzionario del capitalismo alla sua “trasformazione” e, in alcune formulazioni minoritarie legate al sommovimento operaio e studentesco del ‘68, alla “transizione” verso il socialismo. Ciò, grosso modo, era coinciso con l’abbandono dell’obiettivo della “Repubblica dei soviet” sostituito dalla piena assunzione via via della “democrazia progressiva” al socialismo. Togliatti aveva ancorato questo problema del “mutamento di società” all’espansione della democrazia e alla introduzione nell’economia delle “riforme di struttura”, per distinguere la strada comunista dal “riformismo” socialdemocratico giudicato inadeguato per un passaggio di società. La sostanza di questa “via nazionale al socialismo”, ancorata saldamente in tutto e per tutto alla realizzazione della Costituzione, l’aveva già chiarita più volte. Al X Congresso del partito, dicembre 1962, aveva ribadito questa impostazione non sfuggendo al tema della gradualità: “E’ evidente – disse – che nell’accettare questa prospettiva, che è quella di una avanzata verso il socialismo nella democrazia e nella pace, noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai difficile quando, precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità”. Anche se, aggiunse, la nostra Costituzione non era socialista. Berlinguer, dal canto suo, al Comitato centrale dell’ottobre del 1976 aveva parlato dell’obiettivo di “introdurre nella complessiva vita civile, e negli orientamenti ideali, ciò che noi chiamiamo ‘elementi di socialismo’, e per cominciare a rendere comprensibili a grandi masse in che cosa essi consistono”. Sembrò allora una formulazione più impegnativa, precisa e avanzata di quella tradizionale delle “riforme di struttura”.
Nel Cc del 1982 i motivi che spingevano a questa “fuoriuscita”, secondo il leader comunista, erano molti, primo fra tutti, “una crisi profondissima di strumenti, di prospettive e di idee” in cui versava il capitalismo europeo dovuta al fatto che il movimento di liberazione di popoli e la conquista dell’indipendenza da parte dei paesi ex coloniali avevano sottratto quei margini di superprofitti economici che avevano permesso alla socialdemocrazia europea di far avanzare con successo le sue politiche riformiste. Il concetto berlingueriano era mutuato dall’analisi di Lenin dell’imperialismo visto come fase suprema del capitalismo finanziario monopolistico tra i cui mali c’era anche il formarsi, grazie ai superprofitti derivanti dallo sfruttamento dei popoli colonizzati, di quell’ “aristocrazia operaia” che era la base della socialdemocrazia riformista diventata social patriota alla vigilia della Grande Guerra. Un’analisi che rapportata all’Europa del secondo dopoguerra rischiava di essere fuorviante, perché non dava pienamente conto dello stato sociale costruito nei paesi socialdemocratici del nord Europa e in altri paesi del continente che non erano stati paesi colonialisti e, soprattutto, non dava conto del terreno strategicamente diverso in cui operava il movimento operaio occidentale, compresi i partiti socialisti e socialdemocratici. Un terreno così fittamente occupato, come aveva scritto Gramsci, da trincee e casematte nella società civile per cui la conquista dell’egemonia e del consenso, delle alleanze sociali e politiche, non poteva non avvenire che nell’ambito della democrazia politica segnata dal pluralismo politico dei partiti. Acquisizione quest’ultima che il Pci dovette al pensiero e all’azione politica di Togliatti.
A reclamare la “fuoriuscita” dal capitalismo era, secondo Berlinguer, una serie di forze nuove. “Ci sono – diceva – e crescono movimenti e associazioni, organizzazioni, gruppi, soprattutto di donne, di giovani, di lavoratori intellettuali, che esprimono in mille modi, anche fuori dei partiti dei lavoratori e oltre le forme tradizionali della politica, rivendicazioni, aspirazioni e volontà” che, entrando in contraddizione con i meccanismi del capitalismo, “reclamano una società diversa, superiore a quella capitalistica”. Non solo la classe operaia, dunque, ma i movimenti femminili, quelli pacifisti e perfino le espressioni musicali, artistiche, sportive e dello spettacolo attraverso cui si esprime “l’animo dei giovani e delle ragazze di oggi” compreso il “movimento a difesa e a valorizzazione della natura, del paesaggio e del patrimonio artistico”. A questo proposito il segretario comunista citava il poderoso sforzo di ricerca e di elaborazioni innovative prodotte dal Pci attraverso innumerevoli seminari, dibattiti, confronti interni ed esterni sui temi in discussione dalla Carta della pace e dello sviluppo alla “Proposta per un programma di politica economica-sociale”, che proprio in quei giorni aveva ricevuto l’apprezzamento non acritico dell’ex Presidente della Confindustria Guido Carli, dai documenti sulla questione femminile in tutti i suoi aspetti a quello sulle riforme istituzionali ecc.. Tra le contraddizioni nuove del capitalismo indicate da Berlinguer non c’era ancora con il dovuto rilievo quella ambientale, per cui il discorso sulla “crisi del capitalismo” europeo era ancora dentro un impianto sostanzialmente industrialista mentre la sensibilità al tema ecologico andava crescendo in Italia e in Europa e poneva già tra i connotati di uno sviluppo alternativo a quello capitalistico quello della sostenibilità ambientale.
Anche per questo rimaneva irrisolto il problema di in che cosa consistesse il “mutamento di società”, la “fuoriuscita” e il “superamento” del capitalismo che Berlinguer aveva messo al centro della prospettiva della “Terza fase” e della “Terza via”. L’unica cosa certa era che il “superamento”, in senso hegeliano, doveva avvenire nell’ambito del processo di unità europea di cui il Pci era diventato strenuo sostenitore. Non a caso Altiero Spinelli, uno dei padri, insieme a Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, del “manifesto federalista” di Ventotene, era stato eletto all’europarlamento nella lista dei comunisti italiani.
L’analisi e la ricerca del nuovo.
Nei due anni e mezzo successivi a quel Cc del gennaio ’82 Berlinguer affrontò una serie di temi che cercavano di dare corpo alla “terza fase” in relazione a quel che stava cambiando nel profondo del capitalismo europeo e mondiale. La rivoluzione conservatrice neoliberista era solo agli inizi ma già avanzava sulle robuste spalle della rivoluzione tecnologica che aveva iniziato a cambiare i metodi della produzione e a sfornare nuovi prodotti tecnologicamente avanzati. Il computer cominciava ad invadere le nostre vite e diventava sempre più invadente la TV con i suoi molteplici canali anche privati. Era caratteristica intrinseca del modo di produzione capitalistico borghese, come avevano già osservato Marx ed Engels nel “Manifesto del partito comunista” del 1848, rivoluzionare continuamente le forze produttive: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali […] Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre.” Undici anni dopo Marx avvertiva: ”Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate nel seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.”(Prefazione a Per la critica dell’economia politica).
Sta di fatto che questo rivoluzionamento, segno di una vitalità del capitalismo non ancora obsoleta, portava con sé, a differenza dei periodi precedenti, la disarticolazione del lavoro operaio, la sua riduzione numerica, la dismissione delle grandi fabbriche e, con esse, delle grandi concentrazioni operaie. All’analisi di tutto questo si dedicò Berlinguer non mancando di porre il problema del rinnovamento del partito di massa che doveva trarre nuova linfa vitale dai movimenti (pacifista, ambientalista, femminile e femminista ecc.) in atto in quel momento nella società. In un articolo su “Rinascita” del 4 dicembre del 1981, titolato “Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci”, Berlinguer chiedeva al partito di attrezzarsi ad affrontare le nuove esigenze che maturavano nel corpo società: “In definitiva, – scriveva – bisogna decidersi a capire che la politica è chiamata oggi a considerare come suo compito diretto – naturalmente, per la parte che le spetta, ossia senza prevaricare sulle altre dimensioni della vita umana, e quindi senza pretendere di essere totalizzante – la soluzione anche di quei problemi che insorgono dallo svolgersi della vita delle persone, e dei rapporti tra le persone, e tra queste e le strutture della società e il sistema politico che innerva questa società oggi […] non va superata soltanto quella concezione restrittiva della politica per la quale questa viene ridotta ai rapporti, ai giochi, alle schermaglie fra i partiti, fra maggioranza e opposizione, e tutto finisce lì, ma va superata anche una concezione tradizionale della lotta sociale e della vita della società, secondo la quale vengono considerate come degne di rilievo e di attenzione soltanto quelle masse, quelle organizzazioni e quei movimenti che esprimano esigenze e rivendicazioni di tipo economico-sindacale, non dando il giusto peso a quelle masse e a quei movimenti che non sono definibili e organizzabili secondo lo schema economico-sindacale, e che pure pongono esigenze e problemi non meno rilevanti politicamente e non meno decisivi per le sorti del paese, quali sono appunto le esigenze e i problemi che avanzano le grandi masse urbane e delle campagne che si raccolgono nel termine di emarginati”.
L’attenzione che il segretario del Pci cercò di sollecitare al suo partito, dunque, non fu solo quella rivolta ai drammi del socialismo reale, alle nuove contraddizioni planetarie ma anche a ciò che era mutato nella società e, ancor più importante, a ciò che il capitalismo stava cambiando dentro di sé, anche grazie, per certi versi, al recupero dei suoi “spiriti animali” originari. Nell’intervista su Orwell del dicembre 1983, questo sforzo di Berlinguer di guardare al futuro, alle possibilità della tecnologia, alla necessità dei “pensieri lunghi”, è più che evidente. Ed è uno sguardo realistico non messianico. Egli, infatti, respinge tutte quelle ideologie, annidatesi anche nel movimento operaio europeo per effetto “in parte dell’illuminismo e poi del positivismo” che cantano delle ininterrotte sorti magnifiche e progressive dell’umanità. “Tutte queste ideologie – dice Berlinguer – si sono rivelate fallaci: non sono mai mancate nel passato, e non mancheranno nel futuro della storia dell’uomo, interruzioni brusche, rotture, anche involuzioni. E sono stati possibili anche periodi di fosca tirannide, di fanatismo, di oppressione […] Bisogna avere coscienza che questi pericoli esistono e anche che si ripresenteranno sempre in forma diversa dal passato”. “Ma – aggiunge subito dopo – bisogna anche avere il coraggio di una Utopia che lavori sui ‘tempi lunghi’ per raggiungere l’obiettivo di utilizzare sempre nuove scoperte scientifiche per migliorare la vita degli uomini e, nello stesso tempo, di guidare consapevolmente i processi economici e sociali”.
Ed è attraverso questo sguardo e alle riflessioni sui cambiamenti epocali che Berlinguer esplicita, sollecitate dai mutamenti indotti dalla rivoluzione elettronica e delle comunicazioni allora in atto – e che noi oggi consideriamo solo come un’alba di ciò che sarebbe tanto mutato in quasi quarant’anni -, che il segretario del Pci arriva a una matura definizione del socialismo che fa uscire questa prospettiva dalle nebbie dell’astrazione ideologica per ricondurlo a contatto con la vita reale e che per essere conseguito richiede un impegno quotidiano e concreto su tanti aspetti della vita economica e sociale. “Cos’ è il socialismo, se non questo? È la direzione consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità”.
Berlinguer senza eredi
Su questo il Pci avrebbe dovuto lavorare, ma la storia sua e quella del mondo hanno preso in quegli anni un’altra direzione. La generazione che prese in mano il partito comunista non seppe fronteggiare i cambiamenti “rivoluzionari” del neoliberismo, preferì accucciarsi all’ombra della subalternità spacciata per innovazione, una partita questa che invece perse clamorosamente insieme a quella della continuità d’ispirazione politica e culturale. Liquidò lo sforzo di comprensione del nuovo di Berlinguer e dismise il Pci di nome e di fatto, demolendone via via le radici di massa, considerate un vecchiume la cui pesantezza ostacolava l’agilità della “manovra” politica. La “terza via” cui rifarsi diventò quella di Blair, una sorta di accomodamento fra il turgido neoliberismo rampante e un keynesismo devitalizzato. La nascita del Pd sulle basi culturali del famigerato discorso di Veltroni al Lingotto, ne segnarono il destino di partito mai decollato ed esposto a tutte le incursioni (Renzi). Fu questa la conclusione malinconica del declino politico di quella che con il Pci fu una sinistra seria e intelligente nel campo europeo occidentale, quel “puer robustus et malitiosus” messo in campo da Togliatti la cui immagine non a caso, e giustamente, non apparve fra le decine di numi tutelari, esteri e nazionali, da Gandhi a Kennedy, da De Gasperi a Nenni, della neonata formazione politica di centrosinistra.
Questa conclusione avveniva nell’anno stesso, il 2008, in cui scoppiava la crisi finanziaria ed economica prodotta dalla iperfinanziarizzazione dell’economia provocata dalla globalizzazione neoliberista che aveva preso avvio sul finire degli anni ’70 primi anni ’80. Il movimento socialista europeo – quello italiano era scomparso anche nel nome nel gorgo piddino – non fu scosso e non riuscì a riaversi neanche di fronte a tale sconquasso, tanto esso era stato devitalizzato dal “pensiero unico“ neoliberista. Perciò, a rimediare ai danni si ritrovarono le stesse forze di classe ed economiche che li avevano provocati e che, ovviamente, non cambiarono strada. Salvo che negli Usa con la presidenza Obama, dove l’impatto della crisi era stato più devastante. Ma anche lì l’intervento non fu sufficientemente incisivo se dopo Obama arrivò Trump. In Europa ad avere la meglio fu la politica antikeynesiana dell’austerità merkeliana. Ma l’inanità della sinistra e del moderatismo euroatlantici non rimase senza conseguenze e la via dell’immancabile protesta sociale fu egemonizzata dalla destra populista e sovranista, nazionalistica e xenofoba. A sollecitare un cambiamento radicale di politica economica e un salto nella solidarietà europea è stata l’epidemia da Covid 19. Non solo le forze della sinistra e del socialismo europeo ma anche quelle cattoliche e cristiano sociali rappresentate per gran parte dal partito popolare europeo, in particolar modo quelle tedesche della Cdu-Csu della Merkel, sono state costrette a correre ai ripari dismettendo rapidamente le vecchie politiche economiche e antisolidariste del “patto di stabilità” e dei parametri di Maastricht. Anche negli Stati Uniti il dominio del populista Trump è stato sconfitto nelle urne anche se non ancora nella società come ci si sarebbe aspettato. L’epidemia da Covid 19 ha riproposto con forza nell’opinione e nella coscienza pubblica il ritorno dello stato e della mano pubblica nella direzione dell’economia, anche a livello sovranazionale, insieme al problema della sostenibilità ambientale dello sviluppo, centrale per il futuro del pianeta. Oggi è l’occasione per rilanciare l’idea e la prospettiva di un socialismo moderno come quello preconizzato nelle sue linee generali da Enrico Berlinguer.
La sinistra europea di ispirazione socialista, almeno quella italiana, dovrebbe a tal fine trarre qualche insegnamento dai “pensieri lunghi” del segretario del Pci della “Terza fase”.
Immagine di copertina: Settembre 1980 – Comizio di Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat-Mirafiori a Torino (fonte Camera dei deputati su Flickr, licenza CC BY-ND 2.0, immagine ritagliata per esigenze di impaginazione. Autore sconosciuto)