“Possono parlare i subalterni?”: era una domanda posta diversi anni fa da Gayatri Chakravorty Spivak, una filosofa statunitense, di origine bengalese. La questione era originata dalla lettura del Q. 25 dei gramsciani Quaderni del carcere intitolato Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni. Il grande sardo non poneva la soluzione nei termini della speranza di emancipazione: piuttosto, in sintonia con una nota lettera al figlio maggiore Delio, ripercorreva la storia dell’umanità riflettendo sul fatto che essa «riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi» è cosa talmente fondamentale da impegnarci tutta la vita, tutta la passione di una vita. A questo impegno di lotta attraverso l’uso della letteratura si è dedicato Velio Abati che lo rende esplicito nel suo ultimo romanzo, La memoria delle piante (Manni, Lecce, 2023, pp. 129).
L’autore fa parlare i subalterni, che sono i veri protagonisti della storia, anzi dei secoli di storia che scorrono davanti agli occhi di chi legge. Un tempo storico che comprende il passato e il presente ma si proietta verso il futuro e non corre il rischio di essere visto nel cono d’ombra al quale, secondo la lettura gramsciana, sono condannati gli epicurei del sesto cerchio infernale della Divina Commedia di Dante. L’io narrante, che oltre a narrare è anch’esso protagonista, si identifica del tutto in una vicenda cosmica che, pur avendo come teatro di svolgimento la Maremma, nella realtà riguarda tutti i subalterni del mondo. E nel mondo di subalterni ce ne sono a milioni.
Il racconto si sviluppa su un doppio livello: quello strettamente narrativo, dove i fatti e le situazioni si susseguono con ritmo intenso, e quello riflessivo, che rappresenta il momento in cui l’io da narrante si trasforma in dialogante, quasi in modalità agostiniana, con se stesso. Il silenzio, che è la cifra della subalternità, diventa l’urlo di una comunità che sa della propria identità ma capisce che non può realizzarla in modo totale. Ed ecco allora la descrizione della sagra di paese, un momento liberatorio in quanto di affermazione piena di un essere proprio così della comunità.
Oltre al silenzio c’è un’altra parola che ricorre nel romanzo: la guerra. Scrive Abati: «La guerra è tornata…La guerra non se n’è andata». La guerra si sovrappone al silenzio, la guerra conduce al silenzio. Eppure, se il silenzio non c’è, questo può significare che anche la guerra non c’è. Può accadere ma «Se vinci la paura del senso comune». Eppure, a questa altezza del racconto, non può che sopravvenire il ricordo del dialogo fra il greco Mordo Nahum e Levi ne La tregua: «”Ma la guerra è finita”, obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. “Guerra è sempre”, rispose memorabilmente Mordo Nahum».
Fra neologismi, arcaismi, dialettismi il racconto si distende, come già scritto, in un tempo lunghissimo che consente all’autore di ricorrere anche a meditazioni letterarie come avviene all’inizio dell’ultimo capitolo, I panni erano già stati preparati. Qui il ricorso a Dante prepara la strada alla definizione della memoria delle piante, ossia all’esplicitazione del senso profondo del titolo del romanzo e del senso profondo di quest’ultimo in quanto tale. Le cose vanno dette e scritte; non ci si deve riposare come Dante tenta di fare al termine dell’ascesa delle Malebolge, subito ripreso da Virgilio che lo allerta: chi passa la sua vita senza la fama, lascia sulla terra una traccia di sé paragonabile al fumo nell’aria e alla schiuma nell’acqua. Questa è memoria. «Però – scrive Abati – c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. È la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. È nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri». È la memoria di chi alla propria storia sa dare il nome adatto che non è semplicemente speranza, la quale potrebbe tramutarsi in rassegnata attesa di eventi irrealizzabili. Si tratta di una tragedia che, in quanto tale, non attende il divino dono della redenzione ma rimane chiusa nella durezza di questo mondo: il mondo dei subalterni la cui emancipazione passa attraverso il lavoro e la lotta, verso il riconoscimento che l’appartenenza alla terra, quindi alla natura, costituisce la cifra alta del sentire che l’essere sociale non deriva dalla coscienza, bensì la coscienza deriva dall’essere sociale.