Codice Penale, Art. 422. – Strage: Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 285, al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è punito, se dal fatto deriva la morte di più persone, con l’ergastolo.
Se è cagionata la morte di una sola persona, si applica l’ergastolo. In ogni altro caso si applica la reclusione non inferiore a quindici anni.
“[Valerio Fioravanti] Successivamente aveva avuto modo di criticare il Pedretti perché il morto non c’era stato, non avendo il Pedretti – pur armato di una pistola cal. 7,65 bifilare – esploso tutto il caricatore. … omissis… E lo stesso Fioravanti [Cristiano] al dibattimento ricordava le critiche mosse dal Valerio [Fioravanti] al Pedretti che non aveva neppure esploso tutto il caricatore, pur essendo in possesso di una pistola bifilare, 7,65, arma particolarmente efficiente.” (Corte d’Assise di Roma, Sentenza 2 maggio 1985, R.G.n. 43/82, n. 16/85)
Perché, a quarantacinque anni di distanza, il 16 giugno 1979 è, per molti di noi, una data ancora importante? perché una piccola comunità umana si rammenta di quel caldo pomeriggio romano, mentre tantissimi non sanno a cosa ci riferiamo?
È un tardo pomeriggio del giugno del 1979, fa caldo a Roma a giugno, è sabato, in un seminterrato, al civico 131 di Via Cairoli, nel Rione dell’Esquilino dove c’è la Sezione del Partito Comunista Italiano omonima, nonostante il caldo e il bel tempo che inviterebbero alle scampagnate, ci sono oltre cinquanta persone che discutono animatamente. Sono compagne e compagni del Partito e della Federazione Giovanile.
Discutono sull’arretramento nei risultati del Partito nelle due tornate elettorali (politiche ed europee) che si sono appena svolte nei primi due fine settimana del mese.
La sconfitta elettorale forse oggi non sarebbe considerata catastrofica, dato che ci siamo abituati a fortune elettorali che sorgono improvvisamente e, altrettanto improvvisamente, svaniscono nel nulla o nella marginalità.
Allora, per noi che siamo li riuniti, perdere il quattro per cento a livello nazionale e oltre il 6 nella città di Roma rispetto alla grande avanzata del biennio 1975/76 è spunto per una profonda riflessione.
C’è chi accusa della sconfitta le scelte del Partito che aveva appoggiato dall’esterno il governo di solidarietà nazionale di Andreotti, governo che non aveva mostrato alcuna discontinuità con i precedenti governi a guida democristiana.
C’è chi, invece, sostiene che proprio il fatto che il Partito ha deciso di togliere la fiducia a quel governo ha determinato l’abbandono di tanti elettori più moderati ([1]).
La discussione è animata.
È talmente animata, sono talmente tante le compagne e tanti i compagni che vogliono parlare, che questa di stasera è la prosecuzione dell’assemblea tenuta il giorno prima, il 15. È un evento raro che una assemblea venga spalmata su due giorni ma è sintomatico del clima acceso.
Insomma, fa caldo fuori e fa caldo anche nel seminterrato in cui siamo riuniti.
La sezione è aperta, come al solito. Nonostante fossero anni di violenza politica, la porta di quello scantinato non veniva mai chiusa (solo dopo l’attentato installammo un citofono per poi trasferire, diversi anni dopo, la sezione in altri locali più ampi e ariosi presso la vecchia e dismessa Centrale del Latte).
Era una sezione territoriale, con diverse cellule sui tanti posti di lavoro, con centinaia di iscritti. Negli stessi locali c’era anche un circolo della Federazione Giovanile, con parecchi iscritti, attivo nelle tante scuole del quartiere e negli stessi locali era ospitata la Sezione aziendale dei ferrovieri. Insomma, una realtà viva e vivace, come solo le sezioni del PCI riuscivano ad essere.
La Sezione era, come detto, in un sotterraneo, era composta di diverse stanze, con un grande salone centrale che poteva agevolmente contenere, come quella sera, una cinquantina di compagne e compagni seduti lasciando anche spazio per chi non amava sedersi.
Vi si accedeva da due rampe di scale a elle, interrotte da un pianerottolo dove c’era il quadro elettrico (sulla sinistra scendendo) e un telefono a gettone (la disposizione della sezione è importante come vedremo in futuro).
Era una sezione aperta ad un quartiere, il rione Esquilino, che era un quartiere difficile.
Un quartiere diviso tra una parte piccolo medio borghese (quella che da Piazza Vittorio scende verso Colle Oppio, attraversando Via Merulana e si spinge fino a Santa Maria Maggiore) e una parte (quella da Piazza Vittorio verso la Stazione Termini che divide il quartiere da San Lorenzo) più popolare, quella dove ha sede la Sezione del Partito.
Una parte del quartiere fortemente degradata nell’urbanistica, piegata da quel mercato di Piazza Vittorio che solo i più grandi d’età ricorderanno circondare permanentemente una delle più belle e grandi piazze della Roma umbertina (ci torneremo in seguito).
Il quartiere era diviso anche politicamente, da un lato verso San Lorenzo e la Stazione termini c’è la nostra Sezione, attiva, presente nel quartiere e nelle scuole con volantinaggi, diffusione dell’Unità, contatti con i cittadini. Di la da via Merulana c’è la storica sezione del MSI di Colle Oppio per nulla attiva nel quartiere ma bene attenta a presidiare militarmente quello che riteneva il suo territorio (la sua parte del quartiere), da Via Merulana in poi. Tra l’altro, nel quartiere i missini sono stati, a lungo, il secondo partito dopo la DC alle elezioni, solo dal 1976 erano stati superati dal Partito nelle preferenze dei cittadini, anzi fino al 1976 il Partito era solo quarto nelle preferenze degli abitanti di Esquilino, superato persino dal Partito Liberale.
Torniamo a quel tardo pomeriggio.
Sono passate da un po’ le 19, la discussione è tutt’altro che conclusa, ci si aspetta di fare tardi.
Una prima esplosione, forte, alcuni botti più piccoli, nel frattempo va via la luce, un’altra esplosione forte, grida e fumo, scoprimmo quale fosse la puzza della cordite.
Tre compagni, Roberto M., Sandro e Pierino, si lanciano su per le scale perché intuiscono che gli attentatori stanno scappando e, su indicazione di alcune persone ferme davanti alla vicina parrocchia di Santa Bibiana, corrono verso San Lorenzo sotto il tunnel omonimo ([2]) dove sembra siano scappati gli attentatori.
Altri aiutano i feriti sperando non ci siano morti, qualcuno dopo pochi minuti riattacca il quadro elettrico e torna la luce e lo spettacolo è di devastazione, sedie rovesciate, una vetrina all’ingresso in frantumi, macchie scure di sangue sui vestiti, grida di dolore.
Le compagne e i compagni feriti vengono aiutati ad uscire, un compagno medico, Fabio, improvvisa uno smistamento, i feriti salgono sulle auto dei compagni e vengono portati al Policlinico Umberto Primo o al San Giovanni che sono gli ospedali più vicini.
Ci sono feriti che, immediatamente, appaiono più gravi di altri, Angelo colpito al gomito da un proiettile e schegge sul corpo, Rodolfo con ferite multiple, Rosy con la faccia una maschera di sangue, una bimba di tre anni in braccio alla madre che piange disperatamente (scoprimmo poi, per lo spavento, essendo rimasta miracolosamente illesa, ma la preoccupazione fu tanta in tutti). Altri compagni salgono nelle macchine con le loro gambe, anche se i vestiti sono sporchi di sangue. Insieme alla polizia e ai vigili de fuoco iniziano ad arrivare i compagni dalla Federazione Romana (vicina e avvertita in contemporanea con le autorità, come allora si usa perché il Partito è importante e questo è un attacco al Partito), anzi i compagni della Federazione arrivano anche prima dello spiegamento delle forze dell’Ordine. Il primo della Direzione nazionale ad arrivare è il compagno Pietro Ingrao, all’epoca Presidente della Camera dei Deputati, che guida da solo la sua macchina e abita non molto lontano dalla Sezione. Fa un giro dei locali insieme al Segretario e si fa spiegare quello che è successo nel dettaglio e improvvisa un minicomizio davanti alla sezione, incoraggiando le compagne e i compagni presenti.
Alla fine, contammo 27 feriti (la Sentenza che ha condannato i fascisti dei NAR, dice 23, l’Unità del giorno dopo, 25) un miracolo per chi crede, il caso fortuito per gli altri. E per chi, dopo, parlerà di mancanza di volontà di uccidere da parte dei fascisti, quasi a giustificarli, basta la reazione stizzita di Giuseppe Valerio Fioravanti (uno dei capi dei NAR) ma anche la considerazione del luogo dove avvenne l’attentato. Uno scantinato senza vie di fuga, cinquanta e più persone riunite, è impossibile che i fascisti non intendessero uccidere, provate voi a farvi scoppiare due bombe e a farvi sparare cinque colpi di pistola in uno scantinato e vedrete quali sono gli effetti.
Più tardi nella serata e poi nella notte, i NAR fecero pervenire due rivendicazioni che legavano quanto successo alla morte di Francesco Cecchin, avvenuta la notte prima, dopo quasi un mese di coma.
Di quella morte i missini accusarono, senza alcuna prova, alcuni compagni del Partito di Vescovio (un quartiere, per chi non conosce Roma, abbastanza lontano ma non lontanissimo dalla nostra sezione).
Al processo per quella morte, orribile e senza alcuna giustificazione, anche perché riguardava un ragazzino, si noti, l’unico imputato fu assolto e resta sicuramente una ferita, come l’omicidio di Valerio Verbano o di tanti altri.
A riprova della volontà di uccidere, omicidiaria e stragista, afferma la Sentenza, è non solo il volume di fuoco ma anche il fatto che, nella prima, farneticante, rivendicazione dell’attentato i NAR affermano: “è stato abbattuto un compagno” (telefonata delle ore 20,20 al Messaggero).
Di più, prova dell’intento stragista è il disappunto di Valerio Fioravanti, capo quasi indiscusso dei NAR, espresso contro il Pedretti che non avrebbe usato tutti i colpi della Beretta bifilare che lo stesso Fioravanti gli aveva consegnato (circostanza confermata nella Sentenza e dalle parole del fratello Cristiano, imputato per altri fatti, nello stesso maxiprocesso NAR1).
Ora, perché ritorniamo a quarantacinque anni fa? Perché di tanti episodi violenti, violentissimi, di quegli anni parliamo proprio di questo che, alla fine, ha fatto “poco sangue” (per dirla con il “camerata” Fioravanti: non c’è scappato il morto).
In primo luogo, perché, scusate, il sangue è stato il nostro o di nostre compagne e nostri compagni, assolutamente innocenti (“complici morali” dissero i NAR nella loro follia, come se una ragazzina di tre anni potesse essere complice di qualcosa, una vera e propria vendetta trasversale).
In secondo luogo, perché i fascisti di oggi, quelli del XXI secolo, come qualcuno di loro si definisce, o quelli che sono transitati in ruoli istituzionali e che amano definirsi post-fascisti o a-fascisti, con il consueto vittimismo, amano presentarsi come le sole vittime del terrorismo o degli anni di piombo.
In effetti, vediamo un fiorire di pubblicistica in cui i fascisti sono i “Cuori neri”, i NAR giovani romantici che combattono contro un regime.
Ebbene, noi che ne fummo vittime senza essere carnefici di nessuno, vorremmo, con le testimonianze delle nostre compagne e dei nostri compagni, che stiamo filmando e raccogliendo, affermare e rammentare che ci fu un’altra strada.
Che ci furono donne, uomini, ragazze e ragazzi che pur lottando per un mondo diverso seppero isolare i violenti sin da subito. C’è, invece, oggi alla ribalta un ceto politico che quei personaggi non solo non li isolò ma fu loro contiguo, perché l’ideologia che li ispira è, di fondo, ancora quella della sopraffazione. Insomma, vorremmo, per dirla con Nanni Moretti, che fosse chiaro che rossi e neri non sono uguali e che non siamo in un film di Alberto Sordi (con tutto il rispetto che da romani portiamo alla nostra icona di romanità).
[1] la vicenda è in realtà complessa, con diversi approcci tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, con i socialisti e i repubblicani di volta in volta favorevoli o contrari all’avvicinamento dei comunisti all’area di governo, ed in mezzo, il rapimento Moro, lo stragismo sempre nell’ombra, le trame eversive varie ed eventuali, ma non è questa la sede per fare quella analisi.
[2] Come scoprimmo poi, al processo, i due attentatori Dario Pedretti e Luigi Aronica salirono su un vespone e una motocicletta guidati da altri due, di cui solo uno, Marco Di Vittorio, identificato e condannato, che li attendevano e andarono direttamente al loro covo, la sezione del FUAN di Via Siena dove i NAR erano di casa.