Il 27 aprile ricorreva l’ottantasettesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci. La sua odissea al Confino e poi nel carcere comminatogli dai fascisti è nota. Il suo sacrificio è da tempo entrato nel pantheon dei martiri antifascisti più famosi: Matteotti, Amendola, Gobetti, Don Minzoni.
Quest’anno ricorre il centesimo anniversario dell’assassinio voluto da Mussolini di Giacomo Matteotti. E qualcuno ha pensato di sminuire la figura del comunista Gramsci ricordando le sue polemiche dell’epoca con il socialista riformista Matteotti. Polemiche acerrime e diverse, del resto, che con il medesimo esponente socialista del Psu ebbero i socialisti massimalisti del Psi e intellettuali liberali del calibro di Piero Gobetti e Benedetto Croce. In un articolo attribuito a Gramsci sebbene non firmato – intitolato “il destino di Matteotti” pubblicato su “Stato operaio” il settimanale del Pcd’I il 28 agosto – il comunista sardo definisce Matteotti “pellegrino del nulla”[1]. Lo scritto viene eretto ad atto di accusa contro il capo dei comunisti italiani raccoltisi nel Pcd’I. Naturalmente per fare ciò non solo si deve decontestualizzare completamente l’articolo di Gramsci dalla situazione storico-politica del momento ma se ne amputano anche i passaggi più significativi.
Faccio una premessa. Come è noto i comunisti italiani aderirono subito all’Aventino – il che andava ben oltre la discussione allora in voga nel Comintern sul “fronte unico” se dal basso o anche dall’alto limitato ai socialisti. Al raggruppamento delle opposizioni aventiniane (Partito Popolare Italiano, Partito Socialista Unitario, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista d’Italia, Opposizione Costituzionale, Partito Democratico Sociale Italiano, Partito Repubblicano Italiano e Partito Sardo d’Azione), infatti, aderivano anche i popolari di De Gasperi e don Sturzo che, insieme ai democratici sociali, avevano fatto il governo con Mussolini dopo la golpista “marcia su Roma” e liberali fermamente antifascisti da subito quali Giovanni Amendola. L’adesione, diretta da Gramsci, durò più di cinque mesi fino al 12 novembre e finì perché le altre forze politiche rifiutarono due cose fondamentali: l’indizione subito dello sciopero generale per dare corpo all’indignazione popolare e la costituzione dell’Aventino in antiparlamento. Alla fine, Gramsci dovette prendere atto che mentre lui sosteneva il ricorso all’azione popolare gli altri aventiniani aspettavano l’intervento del re per riportare le cose sulla strada costituzionale dello Statuto albertino. Cosa che il re fellone si guardò bene dal fare.
Torniamo all’articolo di Gramsci.
Nel suo scritto – la polemica con il socialista riformista non è taciuta ma se ne delinea il fondamento critico. “Il risveglio degli operai e dei contadini d’Italia – scriveva Gramsci – iniziatosi, sotto la guida di animosi pionieri, or sono alcune decine di anni, lasciava sperare che questa strada stesse per essere presa e seguita, senza esitazione e senza incoerenze, fino alla fine. Anche Giacomo Matteotti fu, se non per l’età, per la scuola politica cui appartenne, di questi pionieri. Egli fu di coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato a creare in se stesso la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino, fu di coloro da cui dipese la soluzione, la sola possibile soluzione, della crisi italiana [la rivoluzione proletaria fondata sui soviet secondo i comunisti dell’epoca. N.d.r.]” e “A questa conclusione, i pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori italiani non seppero giungere”.
Gramsci non disconosce affatto “Il sacrificio eroico di Giacomo Matteotti ” ma aggiunge “è per noi l’ultima espressione, la piú evidente, la piú tragica ed elevata, di questa contraddizione interna di cui tutto il movimento operaio italiano per anni ed anni ha sofferto […] Ieri, mentre i resti di Giacomo Matteotti scendevano nella tomba, e al triste rito volgevano le menti, da tutte le terre d’Italia, tutti i lavoratori delle officine e dei campi, e dal Polesine e dal Ferrarese schiavi muovevano a frotte per essere in persona presenti ad esso, i contadini e gli operai che della loro redenzione non disperano ancora, ieri, commemorando Matteotti, un gruppo di operai riformisti chiedeva la tessera del Partito comunista d’Italia. E noi abbiamo sentito che in questo atto vi è qualche cosa che spezza il circolo vizioso degli sforzi vani e dei sacrifici inutili, che supera le contraddizioni per sempre, che indica al proletariato italiano quale insegnamento deve trarsi dalla fine del pioniere caduto sulle proprie orme, senza più avere una via aperta a sé”.
Naturalmente anche i comunisti italiani ne dovranno fare di strada per capire che la questione con il fascismo non era “la repubblica dei soviet” ma la democrazia, cosa che fu essenzialmente opera di Togliatti. E che Matteotti, proprio per questo, non era affatto “pellegrino del nulla”, un “sacrificio inutile” del “pioniere caduto sulle proprie orme”. Tutt’altro.
Sempre che si sia animati da spirito antifascista, critico ma unitario.
Cosa che ad alcuni non riesce proprio.
Crediti: Foto in evidenza: Anonimo, 1924 circa, accreditata come ultima foto di Giacomo Matteotti, tratto da Wikimedia Commons, PD
[1] Il riferimento è a K. Radek che nella riunione del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista del 20 giugno 1923 aveva detto, commemorandolo, che Alberto Leo Schlageter, nazionalista di sinistra tedesco fucilato dai francesi, era stato un coraggioso soldato della rivoluzione e che uomini come lui dovevano cessare di essere «pellegrini del nulla» per diventare «pellegrini di un miglior avvenire» dell’umanità.