L’organizzazione: la soluzione di tutti i problemi
L’ultima dea dell’aziendalizzazione: organizzare meglio.
Se le vostre risorse sono insufficienti, dovete solo organizzale meglio, cialtroni che non siete altro; vedrete che poi ve ne avanzeranno, così l’anno prossimo potrete riorganizzare meglio ancora.
Schematicamente: per un ricovero ospedaliero X sono necessari un minimo di 15 giorni. Tuttavia, forse è possibile effettuare una dimissione più o meno protetta dopo 12 giorni.
Ci siete riusciti? Bravi! Ecco una bella retribuzione di risultato; e per chi è stato bravissimo a organizzare, ci scappa pure un incarico di struttura… (ecco un croccantino!)
Peraltro, se per un ricovero possono bastare 12 giorni, forse sarebbero sufficienti anche 10 …
Questa pressione, esercitata con la tecnica del bastone/carota, viene esercitata dalla Regione sulle dirigenze di secondo livello di Dipartimenti, Unità Operative Complesse, Unità Operative Semplici… via via, fino all’ultimo, neoassunto, dirigente di primo livello (ossia, di sé stesso), e induce all’adattamento progressivo.
Un po’ come nell’anoressia, quando una ragazza bandisce gradualmente certi alimenti e riduce le porzioni di quel che rimane, fino a che pesa meno di 40 chili e il suo corpo inizia a “tagliare” tutto ciò che può per economizzare le risorse: sospende le mestruazioni, non produce calore e la ragazza sente freddo anche se fa caldo, rallenta i battiti cardiaci e va in bradicardia, non produce proteine per il plasma sanguigno e si gonfiano le gambe…
Quando ci si accorge che non si può andare avanti a lavorare così, si è già a carichi di lavoro insostenibili, con un numero di operatori insufficienti, con la impossibilità a tamponare ferie, malattie, gravidanze e ogni altro tipo di imprevisto.
Sul territorio questi tagli diventano contrazione di servizi ambulatoriali e delle attività domiciliari, allungamento delle liste di attesa, affollamento delle sale dei CUP, riduzione delle strutture attive perché “due deve diventare uno”, necessità di accettare visite e prestazioni urgenti in territori della Regione molto lontani dal proprio domicilio (tipo andare a Viterbo pe una RMN, o a Rieti per una colonscopia…).
Perché il cittadino che necessita di una prestazione sanitaria urgente, e quindi è fragile, malato, debole, comunque ben poco sereno, deve accettare lo stress di fare 150 Km per fruire della medesima?
Perché questa è la risposta ORGANIZZATA all’urgenza, attraverso il RECUP, il CUP REGIONALE, splendida creatura che produce piccoli mostri.
Perché se io voglio fare shopping, vado in un centro commerciale e posso parcheggiare comodamente e in luogo riparato, fare pochi passi e trovare ascensori e scale mobili, mentre se sono poco sano e vado in un servizio pubblico, devo cercare un introvabile parcheggio (poliambulatori) oppure parcheggiare a pagamento (aziende ospedaliere), poi camminare all’aperto, sotto la pioggia, al freddo o sotto il sole a picco e arrivare al CUP dove fare una bella fila per pagare il ticket, e poi aspettare il mio turno (con pazienza, perché, in definitiva, sono un paziente…).
En passant, si sappia che gli operatori dei CUP (di tutti i CUP) sono assunti tramite appalto a cooperative, neppure uno di loro è assunto direttamente dall’ASL o dalla Regione, e che allo scadere del bando tremano perché il subentro di un’altra cooperativa appaltante potrebbe significare perdere il posto di lavoro.
Torniamo all’ ORGANIZZAZIONE.
I LEA, che tutti possono visionare sul portale del Ministero della Salute, elencano una serie di servizi che le regioni dovrebbero fornire ai cittadini.
Il problema è che i LEA sono estremamente generici qualitativamente e quantitativamente, ossia non indicano le concrete modalità di erogazione di tali servizi né accennano alla proporzione necessaria tra operatori di tali servizi e popolazione censita.
Prendiamo ad esempio, i SERVIZI GERIATRICI; essi devono esistere e garantire assistenza sanitaria mirata ad una fascia di popolazione sempre più numerosa; tuttavia, quanti geriatri in ciascun servizio, quali prestazioni offrire, quali tempi di attesa rispettare, se eseguire visite domiciliari e con quali modalità, se somministrare test neuropsicologici, prescrivere farmaci estremamente costosi e specialistici, non è specificato.
La conseguenza è che in alcune aree il servizio offre prestazioni come i test neuropsicologici, che sono l’unico modo esistente al mondo di quantificare la perdita di memoria e di altre funzioni cerebrali, mentre in altre aree il paziente viene inviato altrove per eseguirli, in genere presso una UVA (Unità Valutativa Alzheimer) universitaria, con lunghe liste di attesa (che da un anno sono diventate ere geologiche, oppure sono chiuse); è possibile che in un servizio geriatrico lavori a tempo pieno UN solo geriatra, magari coadiuvato da qualche altro specialista a contratto SUMAI, quindi per un certo numero di ore/settimana; l’assistenza infermieristica è delegata al CAD (Centro Assistenza Domiciliare) che entra in gioco se sussistono condizioni particolari (es. medicazioni di piaghe diabetiche e/o decubiti); la presenza di psicologi/educatori/fisioterapisti per eventuali terapie riabilitative è un pio desiderio, la presenza di almeno un Assistente Sociale è mitica.
La conseguenza è che fare diagnosi precoce di DEMENZA è letteralmente impossibile, in quanto il bacino di utenza over 65 è molto elevato in tutti i territori e non vi è la possibilità di prendere in considerazione la fascia 55-65 che sarebbe quella ottimale per una diagnosi precoce della patologia, il che permetterebbe di rallentare il declino cognitivo.
In termini pratici, fatta la diagnosi, si somministrano farmaci specifici e ad alto costo, erogabili solo in alcuni centri; tali farmaci possono rallentare il decorso del declino e permettere di continuare a mantenere una relativa autosufficienza, ma tutto è reso difficile dalla mancanza di personale (es. psicologi che somministrino e interpretino i test) e dalla impossibilità di una diagnosi precoce.
Nei LEA è chiaramente citato il ruolo dei Comuni nell’erogazione di servizi di natura socio-assistenziale; per la fascia di età geriatrica essi prevedono l’assistenza domiciliare, che comporta un certo numero di ore/settimana di aiuto pratico, ad es. nel pagamento di bollette, nell’accompagno a visite e altri appuntamenti, fino alla semplice uscita per fare la spesa e una passeggiata.
Il ruolo dei Comuni è anche essenziale nella organizzazione di strutture residenziali di natura socio-assistenziale (i “pensionati”) o di strutture semiresidenziali per anziani fragili, ossia centri diurni con accompagnamento quotidiano tramite pullman (chiaramente, da oltre un anno le attività semiresidenziali sono sospese).
I Comuni appaltano tutti questi servizi a COOPERATIVE; le gare d’appalto sono in genere annuali, per cui la questione per i lavoratori (psicologi, educatori, fisioterapisti, OSS) è la stessa che si pone per gli impiegati dei CUP, ossia se alla scadenza continueranno ad avere un posto di lavoro oppure no; per gli ignari utenti la transizione tra una cooperativa e l’altra può comportare disservizi e talora cambiamento repentino di persone e figure che erano ormai loro familiari.
Ancora, il trasporto dei disabili gravi è appaltato dal Comune a cooperative; i piccoli van che trasportano ragazzi autistici, disabili intellettivi gravi, disabili motori… portano in genere il logo del comune, ma sono forniti da cooperative, e il personale è assunto dalle medesime; spiace dirlo, ma le qualifiche di tale personale non sono oggetto di controllo; una volta aggiudicato l’appalto, le cooperative gestiscono il servizio come ritengono opportuno, rispettando i termini economici concordati, ma per il resto senza particolari ispezioni a verifica degli altri parametri.
Che io sappia, nei Comuni non è prevista, ad es., la presenza di un Albo ufficiale per badanti; non v’è chi non si trovi, prima o poi, nella necessità di reperire un/una badante per il proprio congiunto ormai non più autosufficiente, e tutti hanno ben presente il rischio di trovare persone inadeguate, incapaci, ciniche nei confronti dell’assistito, pronte a mollare l’incarico su due piedi e senza preavviso non appena si profili un lavoro più sicuro, ossia, con un anziano in migliori condizioni di salute, che possa garantire il lavoro più a lungo perché non morirà tanto presto.
Una garanzia da parte del Comune sulla persona che si assume sarebbe un notevole sgravio per l’utente, e permetterebbe a queste lavoratrici e lavoratori di affrontare il lavoro, che non è di poca responsabilità né di piccolo impegno, con maggiore serenità.
Un’altra indicazione dei LEA è l’integrazione dei percorsi assistenziali tra ospedale e territorio, ovvero la CONTINUITA’ OSPEDALE-TERRITORIO.
Particolarmente nelle patologie croniche, cardiovascolari, metaboliche (es. il diabete), broncopolmonari, renali è necessario evitare che il paziente debba recarsi in ospedale per ogni variazione nella sua condizione patologica perché ciò è di estremo stress sia per lui stesso che per la struttura ospedaliera, che in effetti dovrebbe occuparsi di acuzie e non di cronicità.
L’applicazione di tutte le misure necessarie a questa dimensione territoriale dell’assistenza è però estremamente farraginosa.
Occorre, come giusto, il coinvolgimento del MMG; egli ha orari di studio definiti, perciò le piccole urgenze della quotidianità di un paziente con malattia cronica restano di difficile collocazione; occorre l’impegnativa per eseguire i controlli ematochimici necessari, occorre lo specialista territoriale che in tempi brevi possa correggere il tiro delle farmacoterapie, dell’erogazione dell’ossigeno, del dosaggio insulinico…
Sono state quindi create le CASE DELLA SALUTE, disponibili anche di sabato e domenica ove i MMG del distretto turnano per l’assistenza; esse sono una buona idea di assistenza territoriale, sono presidi sanitari che andrebbero implementati con PERSONALE MEDICO E INFERMIERISTICO ASSUNTO A TEMPO PIENO E INDETERMINATO e che dovrebbero poter fornire anche tutte quelle prestazioni necessarie a completare l’iter diagnostico (esami ematochimici, Rx, ecografie) e terapeutico (medicazioni di ferite, punti di sutura ove necessario, esecuzione di sieroprofilassi antitetanica…) che al momento si eseguono in urgenza immediata solo in ospedale, oppure devono essere rinviate ai giorni successivi, a seconda del grado di urgenza, fissando la prestazione con il solito RECUP, che potrebbe dare la prima disponibilità a 100 Km di distanza.
In realtà, LA TOTALITA’ delle prestazioni ambulatoriali degli ospedali potrebbe e dovrebbe essere delegata al territorio, e l’ospedale potrebbe e dovrebbe restare il luogo delle urgenze con necessità di ricovero, dei ricoveri per diagnosi e terapia di condizioni gravi, degli interventi chirurgici, delle terapie intensive e subintensive.
Un paziente che ha subito un intervento chirurgico, può, grazie a molte innovazioni nei materiali chirurgici e nelle tecniche, essere dimesso prima di quanto si prevedesse ragionevolmente fino a una decina di anni fa; pretendere che lo stesso paziente si rechi nei giorni successivi in ospedale o in qualunque altro luogo presuppone che ci sia qualcuno che possa accompagnarlo, o che il paziente possa permettersi un taxi, e comunque che si senta in grado di alzarsi, lavarsi, vestirsi e uscire.
Perché presupporre tutto questo? Su quali basi di ragionevolezza? Se fosse solo al mondo e senza amici? Se fosse povero? Se non si sentisse sufficientemente in forze? Se avesse paura?
INSOMMA, PER QUALE MOTIVO L’ORGANIZZAZIONE DEVE PESARE SU CHI È PIÙ DEBOLE?
Lo stesso ragionamento, chiaramente, si applica a chi deve seguire cure chemioterapiche e/o radioterapiche, a chi è reduce da infarto miocardico o da ictus cerebrale, a chi è stato appena diagnosticata una malattia invalidante, cronica e degenerativa, a chi è disabile, privo della vista o delle capacità motorie, e a molte altre situazioni.
Le PRESTAZIONI DOMICILIARI dovrebbero essere un iter automatizzato e preferenziale per ottenere un miglioramento dei pazienti in condizioni di vulnerabilità e per ridurre le liste di attesa ambulatoriali; per eseguirle ci vogliono medici e infermieri, terapisti della riabilitazione, OSS… personale assunto, e non subappaltato da cooperative ONLUS che, di non lucrativo (ormai lo sappiamo) hanno ben poco; il personale dovrebbe potersi muovere con mezzi forniti dalla ASL, e sempre almeno in coppia, perché non si entra nelle case delle persone in condizioni di sicurezza essendo da soli; adeguatamente attrezzato, con abiti di lavoro e camici e non con gli stessi vestiti propri, con gli indispensabili DPI da cambiare ad ogni visita.
Le USCAR, create per il COVID, sono un modello di sanità territoriale adottato, peraltro a macchia di leopardo, sui territori, dove sì e dove no, dove più e dove meno, che dovrebbe costituire il modello-base di una sanità territoriale efficace ed efficiente, per tutte le persone con difficoltà di spostamento, con epicentro prossimo ai territori definiti e un raggio d’azione limitato in modo da garantire l’effettiva presenza capillare.
Il luogo ove l’organizzazione cessa di essere un sostantivo e diventa divinità vera e propria sono i DIPARTIMENTI.
Una rapida scorsa sui siti ufficiali di ASL e AZIENDE OSPEDALIERE dimostrerà che ciascuno organizza i dipartimenti nel modo che gli pare più opportuno, con pochi punti fermi.
In genere, in ospedale i dipartimenti sono distinti per branca, ma i DEA, che sono quelli dei servizi di Pronto Soccorso e Osservazione Breve, sono organizzati trasversalmente; il personale dei reparti può ruotare nel DEA, con turni di guardia; il personale fisso del Pronto Soccorso ruota solo su quello.
Nel territorio, i dipartimenti possono racchiudere l’una o l’altra specialità, a seconda delle decisioni degli organizzatori e delle necessità di dividere equamente fondi, incarichi, personale.
Così, in alcune ASL i SERD, ossia i Servizi per le Dipendenze, afferiscono a un certo Dipartimento, in altre ASL della stessa città in un altro; lo stesso dicasi per Consultori, Disabilità intellettiva, Protesica, servizi per l’Età Evolutiva (0-18 anni).
Ogni Dipartimento è centro di costo; ogni Unità Operativa Complessa (più servizi all’interno di un Distretto Sanitario) è centro di costo; ogni Unità Operativa Semplice (singolo servizio) è centro di costo; i rapporti di collaborazione tra i vari Dipartimenti sono quindi, in sostanza, una regolamentazione di chi mette i soldi per una certa prestazione, tutto valutato da apposite Unità Valutative e tutto documentato da apposita modulistica.
Quindi, se abitate a Boccea, non date indicazioni sul come muoversi per ottenere qualcosa ad un vostro amico che abita a Tor Tre Teste, perché potrebbero essere fuorvianti in quanto le due ASL hanno organizzazioni diverse.
Ma chi sono gli ORGANIZZATORI?
Esistono persone che organizzano gli organizzatori?
ORGANIZZATORI DI ORGANIZZATORI???
In teoria, essi sono identificati in quanto vincitori di CONCORSI INTERNI, tutti all’insegna della trasparenza di procedure e valutazioni.
Ora, so che sto per dire qualcosa di sconvolgente, ma bisogna essere forti di fronte alla verità: gli incarichi in ASL vengono generalmente attribuiti sulla base di clientele politiche, convenienze, accordi, necessità di bilanciamento, in una sorta di manuale Cencelli della sanità.
Mi rincresce di aver minato e distrutto la vostra certezza di meritocrazia.
Questo, si badi bene, non significa automaticamente che gli organizzatori siano tutti degli incapaci privi di buone idee; significa che quando lo sono è perché la loro adeguatezza all’incarico è stata valutata in base a parametri non del tutto chiari, in relazione al concetto nebuloso e impreciso di GOVERNO CLINICO, materia oscura quant’altre mai.
Oggetto mitico, il GOVERNO CLINICO permea il linguaggio degli Atto Aziendali, delle Valutazioni periodiche dei Dirigenti, delle Buone Intenzioni, degli Obiettivi, dei Risultati.
Esso è, in base alla definizione che è possibile leggere sul portale del ministero della Salute, un non-oggetto, una idea platonica, un concetto di “approccio integrato tra i vari elementi che concorrono allo sviluppo del SSN, che pone al centro della programmazione e gestione dei servizi sanitari i bisogni dei cittadini e valorizza nel contempo il ruolo e la responsabilità degli operatori sanitari”.
La definizione prosegue elencando:
- Come realizzare un buon governo clinico:
“Per assicurare la qualità e la sicurezza delle prestazioni, i migliori risultati possibili in salute e l’uso efficiente delle risorse, vengono impiegate metodologie e strumenti quali le Linee guida ed i profili di assistenza basati su prove di efficacia, la gestione del rischio clinico, i sistemi informativi costruiti a partire dalla cartella clinica integrata informatizzata, la valorizzazione del personale e la relativa formazione, la integrazione disciplinare e multiprofessionale, la valutazione sistematica delle performance per introdurre innovazioni appropriate con il coinvolgimento di tutti i soggetti, compresi i volontari e la comunità”
- Le basi sulle quali si fonda un buon governo clinico:
“Inoltre, il Governo clinico si fonda su:
- accesso alle cure sicure e di qualità;
- uniforme erogazione dei Livelli essenziali di assistenza (LEA);
- individuazione dei percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali;
- centralità del paziente;
- continuità della assistenza nell’arco delle 24 ore e sette giorni su sette,
- formazione e aggiornamento dei professionisti sanitari.”
Come si può notare, il GOVERNO CLIICO rinvia ai LEA; i LEA rinviano al BUON GOVERNO CLINICO; tutti i parametri del BUON GOVERNO CLINICO possono essere rispettati sulla carta, non vi sono termini precisi, né dichiarazione di proporzioni e di quantità rispetto a quanto richiesto; la concretezza dei servizi e demandata alle Regioni, da queste alle ASL, da queste ai Distretti e ai Dipartimenti…